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TP7L tramas para siete libros - II edizione: Tanti racconti o un romanzo (col titolo in spagnolo)
TP7L tramas para siete libros - II edizione: Tanti racconti o un romanzo (col titolo in spagnolo)
TP7L tramas para siete libros - II edizione: Tanti racconti o un romanzo (col titolo in spagnolo)
E-book337 pagine5 ore

TP7L tramas para siete libros - II edizione: Tanti racconti o un romanzo (col titolo in spagnolo)

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Info su questo ebook

Un groviglio di storie che si intreccia intorno a viaggi che sono più una malattia, un fuggire, una tendenza nevrotica, che si manifesta come il bisogno non sopprimibile di vagare da un posto all'altro. Uno scappare a tutti i costi, da luoghi, persone, partner e situazioni che ogni volta si fanno sempre fin troppo rocambolesche. Dromomania la chiamano. Un mordi e fuggi, colpisci e scappa, che diventano una patologia quasi piacevole. E se l'amore arriva l''ossessione del viaggio' ha il sopravvento e un'altra fuga psicogena ricomincia, come a formare un circolo vizioso sì, ma strabordante di vitalità. Tutto il resto è solo un conto alla rovescia.
LinguaItaliano
EditoreZezabooks
Data di uscita25 apr 2023
ISBN9788412519310
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    Anteprima del libro

    TP7L tramas para siete libros - II edizione - Sergio Covelli

    I servi della dittatura

    (antichi e moderni)

    Buenos Aires (Argentina)

    Prima parte

    "A volte penso che tutto ciò debba essere opera delle bizzarrie di un gigantesco tritacarne, sennò proprio non riesco a spiegarmelo il perché siate potuti arrivare fino a questo punto…

    Vivete nella cultura dei monologhi improvvisati, imitate voci rauche per ripetere una ed una volta ancora lo stereotipo del relazionarsi con gli altri. Tutto è articolato affinché possiate sentirvi terribilmente male o penosamente bene. Ed è proprio in questo contesto che appaiono la televisione, il quinto potere ed i film con tette ed esplosioni. Avete a disposizione i mezzi necessari per fare un salto qualitativo fino ad una coscienza critica che insegni sentimenti nobili come la libertà, l’amicizia o l’empatia. Tuttavia aguzzate la vista e le orecchie sempre verso le idiozie, obbedendo all’impulso della competizione e del profitto su tutto…

    I vostri genitori vi guardano assorti senza poter capire cosa abbiate fatto delle vostre vite. Voi guardate i vostri genitori cercando di trovare in essi transistor sconosciuti o impronte di antichi elettroshock. A partire da qui la vostra cultura si basa sul collezionismo di immagini, mai sulle sue possibili interpretazioni. La confusione come moneta di scambio, la paranoia come simbolo di buona salute, alimenti lattei fermentati che curano i vostri intestini e la distruzione come valore positivo. Senza ombra di dubbio arriverà il giorno in cui le vostre ambizioni andranno in putrefazione sotto questa pianura della quotidianità…

    La religione, il calcio, la parrilla, i deodoranti e qualunque altro pezzo di plastica vi servono come condizionamento di una vita di falsa pienezza, di apparente pulizia. Già tutto è ideato, dovete abituarvi a perdere tempo rendendovi conto che avete scelto opzioni diverse. Giungerà il giorno, finalmente, quando non avrete più la forza per sollevarvi dal letto, e la peggio è che non vi spaventerete, semplicemente accetterete l’ozio e l’accumulo di pochi saperi stupidi come la semplice totalità delle cose, guarderete il mondo senza vedere, mangerete pasticche senza sapere qual è il loro gusto, e intanto l’amore non sarà più niente, l’essenziale sarà invisibile ai vostri occhi, la sete di denaro sarà tutto…

    Ed ora, signor assassino, servo della dittatura, essere immondo e ripugnante, lei potrà anche uccidermi con la sua pistola nordamericana, ma le nostre idee non riuscirà a ferirle neppure di striscio. Ho detto tutto quello che avevo da dire." affermò Gabriel.

    L’assassino ed il suo autista udirono un botto ed il rumore provocato da un corpo umano appena caduto per terra dopo che gli hanno spappolato il viso con un proiettile sparato da vicino.

    Era ora! disse l’assassino.

    Rimise la Colt calibro 45 Modelo 1927 nella giacca. Si chinò verso il defunto, gli sfilò il portafoglio e l’orologio. Lo guardò bene in faccia e si rimise in piedi, dopodiché si avviò verso una Ford Falcon che l’aspettava col motore acceso, entrò.

    Come mai ci hai messo tanto? Pensavo ti si fosse inceppata la pistola! gli chiese l’autista.

    Comunista di merda, per dirmi che mi odiava ha fatto un comizio, ma mi dispiaceva interromperlo mentre parlava. Sono una persona educata io. rispose.

    Non ho ancora capito perché questo lo abbiamo dovuto eliminare subito anziché farlo sparire…

    Chi se ne frega, io ubbidisco agli ordini. rispose freddo l’assassino. Faranno sparire la moglie, magari è incinta…

    Iniziò a diluviare. Partirono. Avenida Rivadavia non finiva mai. Centinaia di incroci tutti uguali. Piovve durante tutto il tragitto. Finalmente, giunto davanti casa, l’assassino scese dalla macchina, salutò e scomparve dietro un vecchio portone. Una volta nel suo appartamento schiacciò subito il tasto di accensione della TV. Lo schermo fece un sussulto ed iniziò lentamente a illuminarsi. Lui si spogliò, si fece la doccia, poi accese il ventilatore sul soffitto e si stese sul letto. L’aria in casa era più umida dell’acqua che cadeva contro la finestra semiaperta. La televisione terminò il suo lento transitorio e andò finalmente a regime. Apparve in bianco e nero disturbato da un audio con abbondante rumore rosa una biondina in canottiera e minigonna.

    "Hola Argentina!" salutò sorridendo.

    Correva l’anno di Nostro Signore 1978.

    Seconda parte

    Inverno pieno nell’emisfero boreale.

    Il dolore è la sensazione che si dimentica piu facilmente in assoluto, ancor più della matematica, della chimica, dell’aerodinamica o della mineralogia. Ecco perché quel giorno era tornato lì. Era il 1999 quando aveva fatto l’ultimo, e dopo dieci lunghi anni, figurati se si ricordava di dover andare a soffrire così tanto. Ma doveva farlo, era scritto da tempo che avrebbe dovuto farlo. Erano trascorsi molti lunghi ed incredibili anni da allora e, ora, finalmente era giunto il momento: coi prezzi che c’erano a Buenos Aires, rispetto a quelli europei, avrebbe dovuto approfittarne e così fece.

    "Porque quieres esto?"

    "Porque me llaman todos ’Perro’."

    "Ah, y porque todos te llaman así?"

    "Porque si alguien me molesta muerdo!"

    "Pienso que hoy le voy a hacer muy mal al tano aquí!" gridò Pablo verso suo fratello che stava dall’altra parte del vetro ritoccando immagini raccapriccianti con un Photoshop taroccato.

    "Ah ah ah dale, estoy haciendo broma, tranquilo boludo, hoy no tengo hambre! El tema es que me llaman así porque de apellido voy Perrone y todos lo cortan en ’perro’, que in italiano sería ’cane’, nada que ver… Bueno, total, soy como un perro callejero, llego en un lugar, hago quilombo y me voy, ya ’stà! Toda mi vida hasta ahora la passè así…"

    "Sí, quiero ver ahora como haces para irte, ahora te voy a golpear yo y no te vas!"

    Quando l’ago iniziò a penetrargli la pelle gli venne in mente tutto insieme come fosse il dolore che si prova quando ci si fa tatuare: una specie di sentirsi pungere, tagliare e prendere una scossa elettrica tutto insieme. Dopo tanti anni dall’ultimo i ricordi riaffioravano nitidi ed immediati, ma doveva resistere, zitto e muto perché dopo avrebbe finalmente avuto la rappresentazione tutta a colori di un cane ringhiante a coprirgli tutto il polpaccio destro. Era Es-PEc-TA-CU-LAR! E non vedeva l’ora di mostrarlo a Silvia il giorno che sarebbe arrivata. Antonio non era più un pischello, aveva trentacinque anni, l’età in cui si diventa suscettibili alla vecchiaia ed alle mode giovanili, l’età in cui l’essere umano di sesso maschile inizia inevitabilmente a regredire fino al punto di credere di avere quindici anni meno, comportandosi di conseguenza: va in palestra, smette di fumare, si fa depilare il petto con la cera bollente, va a sfiorare lo svenimento dentro l’inferno di una sauna a settanta gradi, si tira a lucido e azzarda financo una crema per contrastare quel segno sul viso che prima non aveva notato ed, infine, che fa? Va a farsi tatuare! Antonio non era da meno e, difatti, si riconosceva appieno in questi segni chiarissimi di involuzione psicologica e rilancio giovanilistico che contrasta nettamente col detto comune che afferma che la vita di un uomo inizia a quaranta anni. Ah sì? Davvero?

    Pablo Anglas e suo fratello, Enrique Anglas, erano dei tatuarori un po’ strani: faccia e colore della pelle da indios peruviani, vestiti tutti di nero con la canottiera e la giacca in un accostamento a dir poco barbaro, una leggera pancetta ben camuffata dalla cintura con borchia gigante, tatuaggi sulle braccia, con simboli dark-metal, e ballerini di salsa: sembrava fossero usciti da un megafrullatore. Quel giorno Antonio aveva con sé due compilation della Gappa Gappa caricati nella memoria del suo lettore MP3, così chiese se poteva metterle su mentre si faceva tatuare. Risultato dell’operazione: un successone. E loro che avevano sempre pensato che in Italia si ascoltasse solo musica alla Eros Ramazzotti o alla Laura Pausini! Ah poveri terroni del Sud del mondo! Dopo aver sentito sbraitare BGQ in salentino attraverso le casse del loro stereo che aveva più led del cruscotto dello Space Shuttle si incuriosirono non poco ed iniziarono a chiedergli la biografia anno per anno da quando era venuto al mondo. Fece un escursus rapido delle cose più pazze che gli erano successe solo negli ultimi cinque sei anni sennò ci sarebbe voluto un tatuaggio grande come tutto il corpo, e, poco dopo, insieme, dissero sbalorditi ad alta voce:

    "VOS SOS UN FENOMENO! MAÑANA VAMOS A LEVANTAR MINAS JUNTOS, OK?"

    Quando uscì dallo scannatoio era notte, mezzanotte. Svoltò a sinistra su Avenida Corrientes. Camminava lentissimo. Aveva il polpaccio in fiamme ed il viso congelato dal vento antartico in arrivo dal Polo Sud. Alla prima cuadra girò a destra su Puerreydon e si diresse verso Once, il suo quartiere da alcune settimane a questa parte, un posto veramente di merda. E pensare che prima abitava di fronte al Farrol da Barra di Salvador de Bahia! Non c’è che dire, la dromomania è proprio una brutta malattia, ti fa fare stupidaggini inimagginabili pur di viaggiare…

    Ad ogni modo Antonio aveva avuto una gran fortuna a trovare casa nella Napoli di Buenos Aires perchè anche se al posto dei mariuoli c’erano boliviani e peruviani allo sfascio gli dava comunque quest’impressione e si sentiva più a casa di quanto si fosse sentito in Brasile o in Venezuela. Once era una delle zone più pericolose di Capital, così dicevano tutti, ma a lui dopo aver vissuto a Caracas e Salvador, non sembrava affatto. Bastava abituarsi alla spazzatura e alle cartacce sparse a milioni in tutte le strade, ai senzatetto addormentati sui marciapiedi e agli immigrati ubriachi di pisco intenti a scaldarsi al fuoco fatto in qualche bidone ed il gioco era fatto. In definitiva bastava sembrare uno del barrio, abituato a tutto, e nessuno gli avrebbe fatto del male. Once era famosa anche per altri motivi: la gran confusione che di giorno percuoteva strade ed edifici, i centomila negozi all’ingrosso ed al dettaglio di qualunque cosa si possa immaginare in vendita, la tragedia di Cromañon che era costata la vita a duecento giovani bruciati vivi all’interno di una discoteca ed infine, la stazione ferroviaria della linea Sarmiento che Antonio chiamava la linea ’scoramiento’. Camminava più veloce che poteva, zoppicando con la gamba destra, fino a che non giunse all’incrocio con Avenida Rivadavia al di là del quale Puerreydon sarebbe diventata Jujuy, una specie di spartiacque tra il Nord e il Sud della città che cambia il nome alle strade perpendicolari. La Estacion de Once, come al solito, pullulava di brutti ceffi e rifiuti dell’umana società e nei treni lo spettacolo non sarebbe stato da meno… Per 0,95 pesos fece il biglietto all’unica biglietteria automatica funzionante a spiccioli e si intrufolò piano piano nel treno in direzione Merlo. I treni metropolitani che uniscono Capital alla sconfinata periferia abitata da quindici milioni di persone della Gran Buenos Aires è come se si fossero fermati ai tempi d’oro della nazione quando un dollaro valeva un pesos. Nel frattempo però l’erosione aveva fatto il suo rigoroso lavoro di distruzione e trasformazione per cui finestrini, porte e sedili erano stati intanto pressoché rasi al suolo. Ogni volta che si addentrava nelle periferie lo colpivano tre cose:

    1 – Le facce della gente. Mai visti così tanti musi lunghi tutti insieme. Una massa di schiavi che dopo un’estenuante giornata di quattordici quindici ore di lavoro tornava a casa in culo al mondo con l’unico scopo di andare a riposare le membra per cinque sei ore per poi ripiombare di nuovo nel solito decrepito treno che al mattino, pieno all’inverosimile, l’avrebbe riportata in Capital a lavorare… Era la routine della disperazione. I tratti somatici dei disgraziati emanavano sconforto da ogni ruga, qualcuno più fortunato con la possibilità di comprare sigarette fumava, qualcun’altro sonnecchiava distrutto dalla fatica e qualcun’altro ancora spaccava, sbattendole fuori dal finestrino, bottiglie di vino vuote sull’esterno del treno al fine di realizzare un’arma nel caso in cui lo avessero aspettato non appena sceso dal convoglio… Scene di ordinaria follia da legittima difesa.

    2 – Il freddo. I treni viaggiavano lenti e ondeggianti, ma a luglio in Argentina fa un freddo cane e quello era l’inverno più gelido dal 1918 a questa parte, tant’è che era nevicato da pochi giorni dopo ben ottantanove anni. Con i finestrini rotti e con l’umido che il Rio della Plata emana giorno e notte se non avevi quanto meno un cappello di polartec in testa ti si sarebbero congelate le orecchie e ti sarebbero cadute alla prima brusca frenata del convoglio…

    3 – Il panorama. Un’ora senza tregua. Sessanta minuti in cui non potevi far altro che guardare incroci stradali, semafori, Mac Donald e palazzi senza sosta, senza mai una piazza, una chiesa, una sinagoga, un tempio buddista, una moschea, un monumento ai caduti, un ponte, una galleria, una rotonda, una piramide, un Colosseo, niente che potesse interromperne la monotonia. Niente di tutto questo. Tra Once e Merlo si andava paralleli ad Avenida Rivadavia, si partiva dal civico 2800 e si arrivava al civico 45.000, vale a dire 450-28=422 cuadras una dietro l’altra senza nessuna possibilità di poter vedere un albero, una montagna o uno spicchio di cielo abbastanza ampio da farti avvistare la Luna. 422. Il tragitto però una grande virtù in verità ce l’aveva: era come un avvertimento, tutte le volte che lo compivi ti ricordava che stavi vivendo in un gigantesco labirinto e che se avessi perso il filo di Arianna saresti sprofondato nel baratro della follia. Era come se tutte le volte ti dicesse: "Ecco dove vivi, te ne stai rendendo conto ora? Occhio! Stai sempre molto attento sennò fai la fine dei porteños della classe media: quasi tutti vanno dallo psicologo!"

    L’una di notte. Estacion de Merlo.

    "Hola Alejo! Que tal?"

    "Re bien Antonio! Listo para el quilombo nocturno?"

    "Claro boludo! Vamos a bailar y a garchar como cerdos! Te parece?"

    "Ahí, que primo espectacular tenia en Italia! Increible, quien lo podia imaginar?"

    "Basta con esta historia del primo espectacular, ya me tenés podrido! Era normal que antes o despues nos conociamos!"

    Es-PEc-TA-CU-LAR!

    Il guru

    Kathmandu (Nepal)

    La punta dell’Everest era una tavolozza di neve inclinata sulla quale il vento ansimava e sbuffava a duecento chilometri all’ora.

    Guarda lì, delle tre creste che scendono verso valle quella che conduce verso la base nepalese è proprio la più affilata di tutte. affermò Silvia piuttosto seria.

    È da lì che un giorno inizieremo a salire? domandò Laura sorridendo.

    Erano lontane, potevano solo immaginarlo quel campo base che chissà, forse in futuro le avrebbe ospitate, ma ne era comunque valsa la pena arrivare fino in Nepal. Difatti anche il solo vederla, la montagna più alta del mondo, era la realizzazione di un sogno che ispirava desideri che a loro volta, a valanga, ne ispiravano altri più grandi. Durante quel viaggio non avevano scalato nessun ottomila e nemmeno settemila e manco seimila per dirla tutta, niente, nessuna arrampicata, solo duro trekking in quota e tanto, tanto lavoro di fantasia. Con la mente si erano viste salire sempre più su, fino al firmamento senza ossigeno e ben più in alto del loro personale record dei quattromilaottocentodieci metri del Monte Bianco. E questo era bastato. Certo, erano state tentate, ma avevano saggiamente desistito…

    Laura, calma, calma, senti a me, la passione va coltivata, va concimata, va fatta crescere e poi, quando sarà il momento giusto, stai tranquilla che raccoglieremo i frutti.

    Mmmmm, va be’, hai ragione Silvia, stiamo calme. Abbiamo tanto da imparare ancora…

    E comunque abbiamo fatto bene a venire fin qui in questi posti magici!

    Già, non vedo l’ora di andare a scalare di nuovo dopo che saremo tornate a casa.

    Laura, viveva in un piccolo villaggio di montagna tra Italia ed Austria dove faceva la maestra di sci e la guida alpina. Tutta la vita l’aveva spesa tra sci estremo ed alpinismo e, da poco, aveva deciso di unire i due sport in uno solo: scalare montagne a piedi per poi discenderle in sci. Silvia faceva la scuola di giornalismo a Berlino, un luogo ben lontano dalle vette alpine, ma aveva iniziato a sciare all’età di cinque anni, non aveva mai smesso e non appena poteva partiva alla volta di Brunico, dove viveva Laura. In città, per tenersi in forma praticava karate e, ridendo e scherzando, era arrivata alla cintura nera. Entrambe erano due ipercinetiche, non si fermavano mai. Si erano conosciute sette anni prima durante una vacanza sulle Dolomiti e, da allora, la passione per la montagna che avevano in comune le aveva legate indissolubilmente.

    "A Kathmandu non c’eri più, ma ho visto i tuoi occhi sull’asfalto blu. A Kathmandu c’è anche il guru, ci porta in paranoia predicando a testa in giù. A Kathmandu non dormi più, ti sforzi di scavare dentro i tuoi tabù…"

    Quella notte Silvia e Laura avevano deciso di andare in cima alla ’risaia della perdizione’. Così la chiamavano i nuovi fricchettoni che, zaino in spalla, arrivavano nella capitale del Nepal da ogni parte del mondo. Durante il giorno erano state a Durnabar Square ed avevano visitato quella che, un tempo, era la famosissima Freak Street, ma oggi la strada appariva come una normalissima via contornata da ostelli diroccati e recentissimi internet caffè, per cui decisero che non sarebbe valsa la pena di cercare un po’ di hashish lì né tantomeno di passarci la notte. In ’Kathmandu il grande viaggio’ di Charles Duchassois, opera che racconta più che il cammino sulla Via della Seta il viaggio dentro le vene del suo braccio sinistro, l’autore regala la visione di "porte, finestre e travi di legno finissimamente scolpite, mattoni a foglioline e tetti orlati… Ma oggi di tutto questo restava assai poco ed anche le case dove poter fumare il nepalese blu e le farmacie dove si compra la roba" erano praticamente scomparsi e sostituiti da squallidi pusher di strada in grado di offrire addirittura extasy olandesi e peyotes messicani. Potere della globalizzazione…

    Affittarono dei pezzi di ferro saldati con pedali e due ruote ed iniziarono ad andare in direzione di Patan, quello che un tempo era un pittoresco villaggio, che oggi appariva come una piazza affogata nel cemento metropolitano della capitale. Una volta lì chiesero la direzione per il canyon del Zigunianz ad un anziano che parlava inglese il quale, tutto contento per aver incontrato due straniere, raccontò loro la leggenda secondo cui, molti secoli prima, due virtuose principesse che abitavano lì avevano salvato i panda giganti dall’attacco dei leopardi delle nevi e che per quest’atto di coraggio, alla loro morte, erano state trasformate dagli dei in due colline piramidali divise da un profondo canyon chiamate dagli indigeni le ’Due sorelle’, che è esattamente ciò che ’Zigunianz’ significa.

    Assorte entrambe nella visione delle due virtuose principesse con i loro volti e le loro sembianze, solo dopo innumerevoli tentativi, finalmente intrapresero il giusto cammino. Ci avevano messo già un’ora e mezza per arrivare a quello che sarebbe stato non un atterraggio, bensì un nuovo decollo, faceva freschino ed il Sole era ormai sulla via del tramonto a sfiorare l’orizzonte sopra i loro nervi tesi e scartavetrati come le piste di un aeroporto. Di fronte ai loro occhi una gigantesca risaia a terrazzi, di un verde tenerissimo quasi toccante, spaccata in due da un canalone in salita. Nascosero i loro rudimentali velocipedi dietro un canneto di bambù alti almeno sette metri. Così, finalmente, iniziarono ad ascendere all’interno del canyon su per una scalinata composta da consumati gradini di argilloscisto carbonatico che, a vederli, sembravano non finire mai. Ogni pianerottolo conquistato, come se fosse una scalata sull’Everest, era per entrambe una gioia enorme. Di tanto in tanto si voltavano a contemplare il solco tra le Due sorelle ai loro piedi, ma ad ogni passo era sempre più buio e la salita sembrava davvero non avere una fine.

    Dopo un’ora di scalini iniziarono a preoccuparsi per le indicazioni, forse sbagliate, che avevano ricevuto dal vecchio chiacchierone…

    Laura, lo senti anche tu ’sto suono o ho le allucinazioni? chiese Silvia improvvisamente.

    Io non sento niente, che suono? rispose lei ansimando.

    Boh, meno male che ancora non abbiamo fumato niente! Io sento come una musica tecno. Zitta zitta, la senti?

    Mmmmm, già, davvero! È proprio tecno! Senti che cassa a diritto! Ma da dove viene? l’altoatesina strabuzzò gli occhi e si concentrò.

    Strano, che c’entra ’sta musica in una valle così?

    Davvero, è proprio tecno pesante! Forse arriva da giù, magari c’è un matto con lo stereo a palla ed il canyon fa effetto Orecchio di Dionisio, boh!

    Effetto che?

    Effetto amplificatore.

    Ah… Va be’… Vai, continuiamo a salire che non vedo l’ora di arrivare. ordinò Silvia come se fosse stata il capo…

    A chi lo dici! Speriamo solo che ne valga la pena…

    Poco dopo era già notte fonda. Le estremità della scalinata ormai non si vedevano più né da un lato né dall’altro. L’unica cosa che dava loro la sensazione di non essere sprofondate direttamente in qualche girone dell’Inferno dantesco era quella benedetta musica che ad ogni gradino arrampicato sembrava aumentare in intensità.

    Dopo un’altra ora di scalinata dovettero fermarsi a riposare. Si sedettero col culo a terra e subito sentirono il sudore delle loro schiene raffreddate produrre come un effetto brina mattutina direttamente sull’epidermide. La musica ormai era forte e chiara. Non c’erano più dubbi che provenisse da lassù. L’unico problema era che quel ’lassù’ poteva essere ad altre tre ore di cammino o ad una notte intera, o due, chissà. Non c’era verso di vedere luce se non quella degli asterischi luccicanti nel nero del cielo himalayano. Così, in preda al timore di essere attaccate da uno sciame di pipistrelli vampiro, dopo pochi secondi si rialzarono di scatto e ripresero il cammino in salita, di nuovo senza parlare.

    Passò, inesorabile, un’altra ora. Silvia evitava di pensare a quanto tempo era che stavano camminando su per quelle scale così solo di rado premeva il tasto della luce elettroluminescente del Casio G-Shock che portava al polso, ma ogni volta rimaneva di stucco quando vedeva che, dalla volta precedente, era passata già un’ora. Era come se il tempo corresse più velocemente del solito, erano quattro o cinque ore che stavano salendo e ormai erano più disperate che entusiaste. A questo punto però il volume della tiritera tecno era fortissimo e non c’erano più dubbi: erano vicinissime alla meta. Un ultimo sforzo, dai.

    "Kō hō?" un urlo spaccò in due il buio ed una torcia elettrica illuminò Silvia e Laura facendo serrare le loro pupille in meno di un attimo.

    Era una frase in Gorkhali che significava Chi è? però entrambe non capirono niente, si impaurirono e basta…

    Mannaggia a te, che paura! Abbassa ’sto faro! Chi sei? gridò Silvia in inglese.

    Chi siete? ripeté il tipo anche lui in inglese.

    Siamo due alieni, stiamo andando a trovare lo yeti. Tu chi sei? controbatté Laura.

    Come? Dove andate? la voce rispose con una domanda.

    Ma chi diavolo è? Un poliziotto quassù non può essere, dai! disse Silvia a Laura in tedesco.

    "Ma quale poliziotto! Willkommen!" rispose la voce nella loro lingua.

    Ah, parla pure tedesco! commentò Silvia.

    Parlo tutte le lingue del mondo. pronunciò la voce in francese.

    Allora vaffanculo lo capisci? chiese Laura in italiano.

    "Ue’, ’a bocchin’e sorata!" replicò la voce in napoletano avvicinandosi alle due ragazze.

    Ah ah ah! Che elemento! Laura si fece una grossa risata mentre Silvia non ne capiva il perché.

    Di dove siete? In che lingua devo parlare? disse la voce, stavolta in italiano, abbassando la torcia.

    Intravidero un’ombra tozza ed i suoi stivali di pelle.

    Sei uno sherpa? chiese Laura.

    No, sono un khamendeu. Uno sherpa non berrebbe nemmeno dal mio bicchiere! Sono tibetano. E voi?

    Una tedesca ed un’italiana, parliamo tedesco tra di noi. rispose l’altoatesina.

    OK, allora parlerò in arabo. disse in tedesco. Forza, andiamo su, siete arrivate alla risaia della perdizione. Complimenti amiche! Qui tutto è permesso tranne passarsi gli spinelli ed andar via senza pagare. Queste due sono le regole, ricordatevele bene. Non ci si passa gli spinelli e si paga il giorno che andrete via. Va bene? Seguitemi.

    Il bizzarro poliglotta iniziò a montare gli scalini a due a due e le due viaggiatrici cercando di comunicare con lo sguardo, ma forse lui avrebbe capito anche quella di lingua, si lanciarono occhiate interrogative l’una con l’altra. Dopo un altro quarto d’ora in salita la musica era diventata fastidiosa. Il volume era spropositato. Boom boom boom boom… Ogni colpo di cassa aveva bassi che facevano tremare i gradini. Arrivarono ad un pianerottolo con una roccia sul davanti tutta dipinta in maniera astratta ed una biforcazione a T della scalinata che, a questo punto, diventava due sentieri in piano sulla isoipsa del terrazzo sul quale si trovavano. Il khamendeu bloccò l’entrata al cammino di sinistra ed indicò loro con la torcia di andare a destra. Silvia e Laura seguirono le istruzioni e si infilarono in un corridoio scavato nella roccia. Dopo una decina di metri Silvia si voltò per controllare dove fosse la guida, o forse per accertarsi che non la stesse accoltellando alla schiena, ma il khamendeu non c’era più ed era più buio di prima. Avrebbe voluto dire a Laura ma dove stiamo andando? Ma ci sarà da fidarsi?, però la musica a palla avrebbe coperto la sua voce, così continuò a camminare preoccupata dietro alla sua compagna d’avventura. Era come stare in uno di quei videogiochi 3D della Playstation dove ci si avventura in labirinti infestati da nazisti o mostri sanguinari, ma il problema era che loro erano sprovviste di mitragliatori M16…

    Quando Laura quasi sbatté con la fronte contro la roccia che aveva davanti si resero conto che il corridoio svoltava a sinistra ad angolo retto e, non appena girarono lo spigolo, la musica elettronica sparì ed un nuovo mondo si aprì ai loro bulbi oculari ed ai loro padiglioni uditivi. La colonna sonora adesso era una specie di lounge mescolata a downbeat e chill out, molto rilassante e ad un volume più che accettabile. Musica di prima qualità, da fare invidia ai migliori club di Londra, forse Jose Padilla o Levitation o Solaris Heights, roba da compilation ’Café del Mar’, ma meno commerciale. Di fronte un grande spiazzo contornato da capanne di legno coi tetti a pagoda ricoperti di paglia e tanta gente e tanti falò, sembrava il Full moon party di Koh Phangan trasferito in mezzo all’Himalaya. In molti ballavano, altri facevano sesso in coppia o in gruppi su coperte di lana adagiate vicino al fuoco, altri stavano seduti in cerchio

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