Penombre
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Anteprima del libro
Penombre - Michele Ottone
Prefazione
Casa mia è rimasta ai tempi di Arthur Conan Doyle
I luoghi comuni sono tali perché appartengono alla collettività e noi li usiamo senza rendercene conto. Così diciamo cose come grazie al progresso della tecnologia…
solo perché lo sentiamo dire alla televisione, o perché lo leggiamo sui social media, come commento di qualcuno di cui siamo follower. Insomma, è opinione comune che la tecnologia negli ultimi anni abbia compiuto progressi straordinari e noi diamo per scontato di essere i primi ad assistere a un’evoluzione tecnologica senza precedenti, dimenticandoci che vi sono stati periodi storici che a noi sembrano remoti, ma che hanno visto un’evoluzione altrettanto radicale che ha cambiato le abitudini di vita di interi continenti. Alla fine del XIX secolo, ad esempio, emergevano o si affermavano invenzioni e scoperte come l’elettricità, il motore a scoppio, il cinema, il telefono... eppure, nel nostro comune modo di sentire, siamo noi contemporanei quelli che padroneggiano la tecnologia. L’ingresso di una tecnologia fino a poco tempo fa inesistente è così avvertito che i più anziani di noi sentono con forza maggiore anche il divario generazionale e attribuiscono ai giovani una familiarità con la tecnologia che sentono di non avere. In realtà, probabilmente nessuno di noi è avvezzo alla tecnologia come vorrebbe credere, nemmeno i giovani. Basterebbe assistere a una delle molte trasmissioni in TV dove personaggi noti e meno noti dello spettacolo vengono rimandati a scuola e messi alla berlina per la loro ignoranza. Noi ridiamo perché siamo dalla parte del pubblico, ma quanti di loro, quanti di noi sanno esattamente che cosa sia il Bosone di Higgs, o a cosa serva un acceleratore di particelle, o un chip, questa parte così fondamentale che trova posto in tutte le apparecchiature più o meno evolute e che può fare di tutto? Quanti sanno farne risalire la genesi al circuito integrato
, e quanti sono al corrente del funzionamento di un transistor, antenato di tutti questi componenti? Quanti conoscono l’interazione tra le forze elettromagnetiche, le onde radio e l’importanza dell’intensità delle une, della lunghezza delle altre nella trasmissione delle informazioni? Ebbene, io credo che da questo punto di vista non abbiamo fatto troppa strada dai tempi di Sir Arthur Conan Doyle, che si serviva dell’elettromagnetismo, ai tempi di gran moda, per dare un tocco di realismo scientifico alle sue storie di avventura e mistero ne Il mastino dei Baskerville
(1901) e ne Il mondo perduto
(1912).
Dunque, nonostante ogni nostro progresso, chi è in grado di dire perché nelle nostre case durante la notte un armadio (magari sempre lo stesso), scricchioli e crepiti? Perché quella lampadina nel ripostiglio funziona sempre alla perfezione, salvo quando è notte e fuori imperversa un temporale e il vento emette suoni lugubri? Chi sa spiegare cos’è quel lieve bagliore che si accende solo se si è svegli nel cuore della notte e ci mette in uno stato d’animo che ci impedisce di riprendere sonno nell’attesa che si ripeta? Non io, di certo! In casa mia ho assistito a cose ben più impressionanti di queste. Di sicuro, per ciascuna di esse c’è una spiegazione e badate bene, le conosco tutte. Eppure, anche sapendo come si muovono in casa mia le onde elettromagnetiche, quali chip attraversino, quali particelle subatomiche muovano, a volte non posso fare a meno di rabbrividire pensando: È proprio davvero tutto qui?
Michele Ottone
Capitolo 1
Nel quale si racconta di una cena tra amici, di come Danilo e Patrizia tornano a casa brilli e di quanto rapidamente tornino a essere sobri.
«Bella serata, dai!» dissi fuori dal ristorante accendendomi una sigaretta e fornendo a Patrizia e Raffaella l’intramontabile pretesto per deprecare il vizio dei rispettivi mariti. Greg si accese una sigaretta a sua volta, aspirò con voluttà ed emise uno sbuffo di fumo che si perse nell’aria ancora umida dell’acquazzone primaverile.
Ritornammo su alcuni dei temi dibattuti a tavola, riempiendo di dettagli poco significativi il vuoto dei molti anni durante i quali non ci eravamo visti.
Era la vita e lo sapevamo. Avevamo passato insieme l’adolescenza, ci eravamo sposati dopo esserci conosciuti insieme, dopo aver trascorso insieme delle vacanze. Eravamo stati testimoni dei rispettivi matrimoni e avevamo abitato - in tempi diversi - la stessa casa. Poi ci eravamo lanciati all’inseguimento delle nostre carriere, che ci avevano portato dove ci avevano portato, avevamo avuto, o tentato di avere dei figli che non erano mai arrivati o se n’erano già andati.
Una birra di quando in quando.
Qualche zuffa verbale su facebook fino alla rimpatriata di questa sera. Ci voleva.
Non era cambiato niente.
Ci sembrava che non fosse cambiato niente. Anche se accenni di canizie rendevano rosa la chioma di Greg e le stempiature aumentavano in misura proporzionale al giro-vita; ci eravamo trovati amici come prima, solidali come sempre, polemici come non mai, con solo tanto tempo passato di cui mettere gli altri al corrente.
Ci avevano più o meno buttato fuori dal ristorante.
Erano le due.
Dopo la prima liberatoria sigaretta del dopocena fumammo baldanzosamente la sigaretta della staffa
, lasciando tra l’una e l’altra il minor intervallo possibile, per illudere le mogli che si trattasse della stessa e non essere rimproverati. Come due adolescenti.
Come due adolescenti fummo cazziati a dovere e presi sottobraccio per essere condotti alle auto.
«Bella serata, davvero!» Convenne Greg.
«Adesso cerchiamo di non far passare altri quindici anni, eh?»
Baci sulle guance.
Pacche sulle spalle.
Ci informammo l’un l’altro su dove fossero le rispettive auto. Erano in posti diversi.
Saluti in mezzo alla strada.
«Fai piano che la gente dorme!»
«Attenta alle pozzanghere!»
Aveva smesso di piovere e l’asfalto luccicava sotto la luce dei lampioni. Il chiarore di una luna monumentale grondava sul profilo nitido di grosse nuvole che muovevano a est.
«Vuoi che guidi io?»
«No» dissi «sssto bene.»
Dovevo impegnarmi un po’ a pronunciare le esse, premendo con cura la punta della lingua contro le gengive.
«Non mi dirai… che pensssi che... sono ubriaco… abbiamo bevuto poco… o comunque… non moltisssimo»
Mi accorgevo di mettere troppi puntini di sospensione, anche se non faticavo a elaborare i concetti.
«Comunque! Non pensare che sia come quella sera con Massimo! Quando ci siamo seduti a tavola! Con già due Negroni in corpo!»
E quando non mettevo puntini di sospensione mi sentivo come un attore dilettante che fa del suo meglio per recitare la parte che ha imparato a memoria.
«Mi raccomando, se non te la senti…»
«Tranquilla. Ti porto a casa sana e salva.»
Feci scattare la chiusura centralizzata e ci inerpicammo sulla sua