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La mia vita tra gli zombie: cronaca di un contagio
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La mia vita tra gli zombie: cronaca di un contagio
E-book203 pagine3 ore

La mia vita tra gli zombie: cronaca di un contagio

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Info su questo ebook

In un pomeriggio afoso di un'estate uguale a tutte le altre, Victoria sta leggendo l'email nella sua casa in Montana (USA) quando una notizia strana le salta subito agli occhi nella pagina web. Parla di una strano comportamento e di una probabile malattia che si sta diffondendo in Paraguay. Presto Vic dimentica quella notizia. A distanza di una settimana però scopre che quell'estate non è affatto come tutte le altre, ma è solo l'inizio di un incubo. Perderà e incontrerà amici e amore in un lungo viaggio verso la salvezza, perché si, la salvezza può esserci, va solo trovata, anche se a caro prezzo. Non è la solita storia di zombie. Non è un horror. Si parla di lotta, di amore e speranza.
LinguaItaliano
Data di uscita28 ott 2016
ISBN9788892633339
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    Anteprima del libro

    La mia vita tra gli zombie - Jennifer W. Barrett

    http://jennifereilsognonelcassetto.blogspot.it/

    Capitolo 1

    Accadde in Agosto

    Sono Victoria Swick e questa è la mia tragedia...no, non voglio intendere che il fatto di essere Victoria Swick sia una tragedia. Questa storia che vi sto per narrare lo è.

    Era il 21 Agosto 2014. Una data che mai potrò dimenticare ed è in quella data che affonda le radici la mia tragedia.

    Quello era stato un Agosto davvero torrido. Con i suoi colori sfumati dalle onde impalpabili del caldo che risalivano dall’asfalto rovente e le cicale che non smettevano di tartassare le menti già provate dei cittadini di Butte.

    Quella sera mi trovavo seduta in giardino, al tavolino di plastica bianco, tra candele alla citronella e fili d’erba ormai secchi per via del sole rovente che l’aveva bruciata. Mio padre diceva che era meglio non innaffiarla in modo da non doverla ogni volta tagliare.

    Ero al mio portatile che inevitabilmente attirava le zanzare sul suo schermo. Stavo controllando la posta elettronica sperando di trovarci una risposta ai miei curriculum che continuamente spedivo, in cerca di lavoro. Era vuota, come sempre.

    Nel mondo che conoscevo una laurea non serviva più a niente, non che nel mondo che ho conosciuto dopo servisse, anzi, sarebbe stato meglio sapere di più di fisica elementare e di caccia.

    Stavo per chiudere la finestra del browser quando una notizia scorse al lato della finestra. Il titolo diceva Cannibali a Fuerte Olympo. La curiosità mi spinse ad aprire la notizia per leggerla per intero. Con tono giornalistico da quattro soldi, veniva descritta la situazione. Un gruppo di tre persone si era barricata in una chiesa, inseguito da una decina di individui apparentemente normali, ma del tutto fuori di testa. Li avevano attaccati verso la mattina, mordendo uno di loro ad un polpaccio. Gli altri due lo avevano trascinato nella chiesa, nel tentativo di non essere dilaniati da quegli esseri.

    Ne risi quasi. Era la solita droga nuova di zecca che circolava tra la povera gente e quella era stata sicuramente sintetizzata nel terzo mondo che ora la provava per la prima volta.

    Senza dargli alcun peso, chiusi la pagina web e spensi il pc. Presi in mano il mio cellulare e rimasi delusa non trovando nessuno messaggio del mio ormai ex fidanzato Simon.

    Eravamo seduti in macchina l’ultima volta che ci eravamo visti e lui aveva gli occhi rossi per via della sua febbre da fieno. Aveva deciso d’interrompere la nostra relazione a causa delle nostre diverse aspirazioni. Io avrei voluto vivere nella mia città e avrei voluto lavorare (se mai mi avessero dato un lavoro) mentre, per lui avrei dovuto seguirlo ovunque avesse trovato lavoro, per dover fare solo la madre e la casalinga. In un primo momento avevamo litigato gridando, ma, con il passare dei giorni, ci eravamo un po’ rappacificati e, come due persone adulte, avevamo deciso che potevamo rimanere amici nonostante non saremmo stati più insieme.

    Per facilitare il distacco ci eravamo detti che non ci saremmo visti e ci limitavamo ai messaggi giornalieri.

    Lui non mi aveva ancora scritto quella sera e allora gli scrissi io.

    Che fai? Digitai senza davvero volergli dire nulla. Il messaggio partì mentre io mi alzavo dalla sedia e rientravo in casa. Mia madre era intenta a leggere un libro. Era quasi ora di cena e mio padre le stava sbraitando dietro lamentandosi del fatto che ancora non stesse cucinando. Lei guardò il suo l’orologio da polso e si stupì. Sono già le sette e mezza? Questo libro mi fa perdere la cognizione del tempo, detto ciò posò il libro sul tavolo accanto alla sua poltrona che venne occupata dal mio gatto Pixel. Sapevo quanto fosse accattivante quel libro. Era La lunga marcia di Stephen King. Una storia semplice che, inaspettatamente poteva tenerti attaccato alle pagine per ore. Lo avevo letto in meno di due giorni ed ero rimasta stupita da quanto potesse essere interessante una storia in apparenza così banale, fatta eccezione per il finale deludente.

    Il telefono vibrò sto andando a cena. Tu?

    Anche io Eravamo in attesa di cenare e non ci scrivemmo altro. Circa mezz’ora dopo ero seduta a tavola con mia madre e mio padre. Quella sera andai a letto verso le undici e poi ebbi un incubo. Vidi me stessa rincorsa da un branco di cannibali. Mi svegliai al mattino con un certo senso di inquietudine. Era ovvio che quella notizia, letta il giorno prima, fosse stata la causa di quelle visioni che si rivelarono più premonitrici di una veggente alla fiera di paese.

    All’ora di pranzo, la notizia venne presa in considerazione anche dai principali telegiornali che mostravano delle riprese amatoriali. Un improvvisato cameramen stava riprendendo una chiesa tra le ante di una persiana.

    L’inquadratura tremante mostrò al mondo il primo nugolo di zombie che l’umanità avesse mai visto. Degli sventurati (gli stessi sventurati di cui avevo letto il giorno prima) erano ancora chiusi nella chiesa, mentre ad aspettarli, c’erano una decina di persone in preda alla follia che sbattevano con forza sulla porta di legno.

    Un’altra inquadratura, frutto di mani esperte, mostrava alcuni soldati dell’esercito paraguaiano intento ad acciuffare quei figuri. Fu chiaro che erano folli e affamati. Uno di loro morse uno dei soldati. Quest’ultimo lanciò un grido anche se non si sentiva l’audio, era chiaro che l’uomo gridasse. Era stato morso ad una spalla.

    I soldati abbatterono quelle persone e presto i soccorritori caricarono l’uomo.

    Le riprese s’interruppero. La presentatrice, dopo un breve commento ignorante (perché ignorava, come tutti, quello che stava accadendo), presentò il video che mostrava la liberazione dei prigionieri che si erano nutriti di ostie e acqua santa.

    Mia madre era preoccupata. Si stava convincendo che la fine del mondo fosse prossima. Io invece non diedi peso più di tanto alla cosa. Per me il mondo era già folle da un pezzo ma non sapevo che potesse essere proprio matto da legare.

    Dopo essermi ritirata in camera, chiamai Sonya. Lei era la mia migliore amica. Ci eravamo conosciute alle scuole superiori. Frequentavamo lo stesso liceo ma in classi parallele. Io adoravo la sua compagnia perché era sempre scanzonata e al di sopra di ciò che la gente poteva pensare di lei e del suo aspetto sempre bislacco e impareggiabile, con i colori vivaci che passavano dall’arancione al giallo evidenziatore. Senza parlare dei suoi capelli, ogni mese di un colore diverso. Una volta era arrivata a farsi colorare la testa di sette colori, come se fosse stata un arcobaleno. Lei, a chi le chiedeva il perché di quella scelta assurda, rispondeva che sotto agli arcobaleni c’è sempre un tesoro.

    Lei era del tutto disinteressata alle notizie riguardanti quei fatti mentre io continuavo a citare vecchi film di zombie.

    Ma dai! Finiscila! Sei cerebralmente dispersa! Esclamò, come adorava chiamarmi.

    Aver parlato con lei mi aveva messa di buon umore. Mentre mi accingevo a spegnere il cellulare, vidi sullo schermo una notifica di chiamata. Si trattava di Simon. Non esitai a richiamarlo. Rispose al terzo squillo. Mi soprese il suo tono di voce.

    Che cos’hai? Gli chiesi.

    Hai sentito il telegiornale?

    Certo risposi stizzita.

    Hai visto quei tizi in Paraguay?

    Si, certo

    non sono cazzate e sembra che eventi del genere si stiano diffondendo a macchia d’olio. Ho un amico in Georgia. Ci sentiamo spesso su Skype e mi ha detto che vicino casa sua, a circa dieci chilometri da Washington, si sta scatenando il finimondo. Non ci dicono un cazzo in televisione, ma sembra che l’esercito da quelle parti si stia mettendo sul chi va là e, addirittura, pare stiano preparando dei centri sicuri dove poter accampare la gente. Io non volevo credere alle sue parole. Era tutto così assurdo.

    Se mi stai prendendo in giro, sappi che è uno scherzo di cattivo gusto.

    Se non mi credi vai on line e cerca notizie a riguardo. Troverai un mucchio di gente che scrive di quello che sta succedendo.

    In quel momento mia madre venne in camera mia senza nemmeno controllare se stessi già dormendo. Era la prima volta che lo faceva.

    Presto, vieni a vedere disse concitatamente.

    Dopo controllerò risposi a Simon ma ora devo andare, mia madre mi chiama. E detto ciò ci salutammo.

    La raggiunsi in salotto dove mio padre guardava la tv con un’espressione a metà tra il sorpreso e l’incredulo.

    Una sessione straordinaria del telegiornale stava mostrando il presidente degli Stati Uniti mentre dava una notizia da far rizzare i capelli in testa.

    È, con tremendo orrore, che vi dico che il mondo è in grave pericolo. Siamo stati travolti da dei fatti poco chiari e assolutamente incresciosi, in maniera così repentina da non potervi porre rimedio come vorremmo. Non voglio spaventare la popolazione mondiale ma quello che devo dire va detto per giustizia nei vostri confronti. Per cause ancora poco note, un virus di potenza superiore ad ogni epidemia, compresa la temibile peste, che uccise oltre la metà della popolazione mondiale, sta attaccando in queste ore. Vi chiedo di rimanere ancora calmi e di starmi a sentire. Nella sala stampa, dove il presidente stava parlando, si era alzato un vociare concitato. Vi prego di continuare a sentirmi. Ho delle direttive importanti. Per ora sappiamo che il virus si trasmette per via ematica e si suppone anche sessuale. Non si riscontrano invece contagi per via aerea e questo è già un grande sollievo. I migliori medici sono già a lavoro su vaccini e studi sui pazienti colti da questa malattia che per ora è stata denominata Z14. Restate calmi. In ogni paese della NATO si stanno già adoperando le forze armate per creare dei centri sicuri dove ci saranno dei pronti interventi e zone di quarantena. I vostri stati vi faranno sapere a breve sul da farsi. Ci tengo a sottolineare che la situazione è sotto controllo e che non servono fughe di massa, Io stesso, con la mia famiglia resterò qui, alla Casa Bianca. Sono convinto che non esista posto migliore e più sicuro della vostra casa. Quindi restate a casa vostra anche voi, senza creare intralcio a coloro che vogliono solo aiutarvi. Consiglio a tutti di farvi dei controlli, non appena verranno montati i centri sicuri. E, inoltre, tutto il traffico aereo nazionale e internazionale, di ogni stato verrà chiuso nelle prossime quarantotto ore. Quindi, per chi si trovasse in vacanza fuori, per coloro che si trovano via per lavoro, invito tutti a rientrare immediatamente a casa. È questo vuole essere più un ordine che un invito. Non rischiate. I voli di ogni nazione verranno intensificati con studiata organizzazione. Grazie per l’ascolto. Buona fortuna!

    E poi il presidente diede le spalle al mondo che aveva appena salutato, per l’ultima volta in diretta mondiale.

    Ero caduta seduta sul divano e ancora, nessuno di noi, riusciva a staccare gli occhi dalla tv. Nuove scene venivano ora mostrate. Erano video, per lo più amatoriali, che inquadravano persone claudicanti e affamate che rincorrevano altre persone messe male a loro volta.

    Né mia madre, né mio padre osarono parlare fino a quando quel servizio grottesco e pieno di senso del macabro finì. Fui la prima a parlare. Mi sembrava tutto così irreale. Avevo letto alcuni libri che riguardavano tematiche apocalittiche di varia natura e dunque mi sembrava tutto così irreale. Pensai a un fake, a un mega pesce d’Aprile in ritardo.

    Vedrete che è solo una bufala! Esclamai ad un tratto, tanto quanto bastò a far sussultare mia madre.

    Mi piacerebbe pensarla come te, ma non credo affatto che il presidente permetta la messa in onda di una cosa del genere rispose mio padre. Era evidentemente preoccupato. Le sue dita erano saldamente strette in un pugno intorno al telecomando tanto che le sue nocche erano divenute bianche.

    Dobbiamo assolutamente informarci su questi centri sicuri e vedere come organizzarci convenne mia madre.

    Tra noi cadde il silenzio per alcuni secondi fino a quando una chiamata di Simon non fece trillare il cellulare.

    Oddio! Tu e questo telefono! Sbraitò mia madre che poi andò in camera sua, mentre mio padre spegneva la tv.

    Ciao risposi. Mio padre mi diede un bacio sulla fronte, coma una silenziosa buona notte.

    Hai sentito il discorso del Presidente?

    Si e inizio davvero a preoccuparmi. Dici che è tutto vero?

    Non ne ho alcun dubbio e non si tratta del solito allarmismo tipo antrace. Questa è una cosa seria. Coso ne pensano i tuoi?

    Si sono spaventati, credo, e i tuoi?

    Sono tutti e due a letto già. Hanno avuto entrambe il doppio turno oggi. Domani te lo saprò dire anche se non credo sia il caso di tergiversare su questa faccenda ma bisogna organizzarsi e vedere cosa fare

    non possiamo fare un bel niente gli gridai quasi.

    Il presidente ha detto chiaro e tondo che dobbiamo aspettare le direttive dei nostri governi.

    Simon rise sarcasticamente vuoi davvero salvarti mettendoti nelle mani del governo? Non hai imparato nulla dai libri che hai letto? Dobbiamo vedercela da soli. Sono quasi sicuro che in questo momento molti nostri concittadini, miei e tuoi, staranno già saccheggiando i supermercati. Aspetta un attimo, ho sentito un grido e poi mi lasciò in attesa al telefono per poco più di venti secondi.

    È isteria di massa. Già sta scoppiando. Ci sono un mucchio di persone nel mio palazzo che stanno dando di matto. Qualcuno cerca di calmarle ma, la mia vicina Thompson, te la ricordi?

    La religiosa fanatica? Risposi si proprio lei. Sta facendo l’esatto contrario. Addita una del terzo piano e la sta accusando, dicendo che le poco di buono come lei sono quelle che portano sventura all’umanità. È necessario organizzarsi e subito. Non appena avrò qualche idea te lo dirò. Buona notte.

    Rimasi un po’ a pensare. Io non vedevo le cose in maniera tanto negativa. Non pensavo affatto che fossimo in una situazione tanto grava da dover organizzarsi e partire e per dove?"

    Mi svegliai alle nove con una certa carica. Mi sentivo pimpante. Andai in cucina dove mia madre era seduta al tavolo. Teneva stretta tra le mani una tazza di cappuccino che ancora non aveva bevuto. La tv era accesa e la Bbc stava mostrando nuove immagini inquietanti. Gli attacchi si erano diffusi a macchie d’olio. La malattia si era diffusa dall’America latina all’America centrale e nuovi casi si stavano registrando anche in Africa. Noi eravamo davvero vicini, ma dovevamo preoccuparci? A sentire la tizia in tv no.

    La giornalista, con i suoi capelli ben stirati e la sua giacca color salmone, trasmetteva fiducia e tranquillità e, in qualche modo, mi sentii davvero rassicurata da lei. Un invitato si mise in collegamento da Washington e diede la notizia più importante della giornata.

    Il nostro presidente ha disposto che ogni grande centro abitativo allestisca presso gli ospedali delle aree di controllo della malattia. Da dopodomani la cittadinanza americana potrà già chiedere ai medici di fare le prime analisi. Tra meno di una settimana verranno creati dei centri sicuri dove la popolazione riceverà cure e risposte alle proprie domande. Il nostro presidente ci tiene a sottolineare che non siamo nel bel mezzo di una crisi sanitaria. Da qui è tutto. A voi la linea.

    Mia madre iniziò a sorseggiare il suo cappuccino e poi disse dovremo fare un salto all’ospedale.

    Non credo sia necessario le risposi, mentre spremevo una fettina di limone nel mio tè.

    La malattia non ha ancora raggiunto nessuno dei cinquanta stati. Siamo al sicuro. Lei scosse la testa ma non disse altro.

    Noi vivevamo a Butte, al 99 di Washington St nel Montana. Eravamo lontani da tutto quel putiferio, tra le verdi vallate e le montagne di quello stato verdeggiante.

    Partire! Aveva detto Simon. Non credevo di poter abbandonare la mia casa, una villetta bianca a due piani con la panchina di legno sotto il portico, dove giocavo con la mia amica Sonya. E ancora ero convita che quello era il mio passato e invece era quel mio presente che presto sarebbe divenuto solo un ricordo.

    Capitolo 2

    Allora è vero!

    Due giorni dopo, mia madre Anna volle recarsi a tutti i costi presso l’ospedale. Distava da noi nemmeno cinque minuti d’auto. Si trattava del Butte Communiy Health Centre, situato al 445 di Centennial St. Io e papà ce la portammo per disperazione. Arrivammo molto presto. Papà fermò l’auto nell’ampio parcheggio e poi accompagnammo all’interno la mamma. L’edificio era a un piano solo, avana e blu e il suo aspetto faceva

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