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La vita nel labirinto
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E-book376 pagine4 ore

La vita nel labirinto

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Info su questo ebook

A nostra insaputa, viviamo in un labirinto, un dedalo macrodimensionale di potenti forze elettriche, rivestito dal sottile strato dell’ordinarietà della vita di tutti i giorni. Ciò che più ci impedisce di riconoscere questo fatto è l’impellente bisogno di ricondurre tutto ad una dimensione familiare e di tenere lontana la pulsante vita del Mondo Reale. Questo libro contiene una brillante risposta ad alcune delle domande che hanno afflitto l’umanità fin dall’avvento delle prime civiltà. È uno di quei rari eventi letterari che fanno sentire la loro influenza anche ad anni di distanza dalla loro pubblicazione. Si rivolge a coloro che, pur avendo raggiunto tutte le mete materiali che si erano prefissati, sentono che nella loro vita manca qualcosa di fondamentale. La vita nel Labirinto si rivelerà particolarmente utile a tutti coloro che stanno cercando di riorientarsi nella loro vita, in quanto si basa sulla premessa che l’uomo, pur essendosi smarrito in un labirinto, ha sempre la possibilità di risvegliarsi, aprire gli occhi e vedere che al di là del mondo delle apparenze esiste la realtà multidimensionale del Mondo Reale.
LinguaItaliano
Data di uscita16 mar 2016
ISBN9788871834894
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    La vita nel labirinto - E. J. Gold

    1

    PERSI IN UN DEDALO STUPEFACENTE

    A nostra insaputa, noi viaggiamo in un labirinto, un dedalo macrodimensionale di viva forza elettrica, rivestito dal sottile strato dell’ordinarietà della vita di tutti i giorni. Ciò che più di tutto ci impedisce di riconoscere questo fatto è l’impellente bisogno di ricondurre tutto ad una dimensione familiare, di ridurre ogni cosa al livello del nostro cervello di primati; di rifiutare la viva, pulsante realtà della totalità di ogni possibile attenzione.

    Se in passato abbiamo già compiuto quegli sforzi necessari a sviluppare la nostra comprensione, dovremmo essere riusciti a stabilire una nuova relazione tra il sé essenziale non-biologico e la macchina biologica umana. Avendo già dimostrato a sufficienza che la macchina umana è in grado di fornirci i mezzi per la trasformazione, adesso possiamo chiaramente vedere la via da intraprendere.

    Il fatto di sapere che è necessario svegliare la macchina, prima di poter fare qualunque cosa di oggettivo rilievo, dovrebbe averci fatto raggiungere dei risultati stabili.

    A questo punto ci accorgiamo di aver bisogno di ulteriori istruzioni per integrare la nostra attuale conoscenza, per poter compiere un ulteriore passo verso il nostro scopo finale, la cui formulazione può non essere ancora molto esatta.

    Dovrebbe essere ovvio che siamo solo all’inizio del cammino e che, in quanto esseri umani, siamo ansiosi di assumerci ulteriori responsabilità; ma prima di poter intraprendere passi efficaci verso l’adempimento di tali responsabilità, dobbiamo comprendere precisamente dove ci troviamo e che cosa siamo, nella scala generale delle cose in relazione all’Assoluto, in modo da poter sviluppare un metodo di lavoro entro questo contesto.

    Possiamo ora arrivare a vedere e comprendere il sé essenziale nel suo ruolo di eterno viaggiatore, soggetto a rischi ma anche con grandi opportunità a disposizione, in bilico tra impegno e distrazione, esposto a fatali attrazioni e supreme seduzioni nella pressoché infinita immensità del labirinto.

    In questa ricerca, solleviamo lo sguardo dal mondo dei primati, e lavoriamo da questa prospettiva non-umana, indipendentemente da quale possa essere il nostro punto di partenza.

    Nel primo libro della Serie del Viaggiatore nel Labirinto, La macchina biologica umana. La trasformazione dell’essere umano,(1) l’analogia di un pesce in una vasca fu invocata per stabilire un’approssimativa descrizione della situazione umana in relazione alle dimensioni superiori, a cui d’ora in avanti ci riferiremo come macrodimensioni.

    Il regno animale ci sarà ancora una volta d’aiuto, dandoci un punto di vista che si possa facilmente comprendere, e con cui ci si possa relazionare.

    Pochi minuti di semplice osservazione di una cavia in un labirinto dimostreranno chiaramente anche al più ottuso scienziato che l’animale non sa di essere in un labirinto… sa solo che non può avere quello che vuole e che non conosce la strada e, in assenza di motivazioni sufficientemente impellenti, non gliene importa neppure molto.

    Può anche vagamente sospettare di non poter scappare; indietro, avanti, di lato… tutte le possibili direzioni confermano la irritante schiavitù del labirinto.

    La cavia intrappolata non ha modo di conoscere la forma e la configurazione generale del labirinto, le sue regole e funzioni; ma, sotto l’influenza di un improvviso, inaspettato ed insolito shock traumatico, essa può diventare in qualche modo consapevole della sua reclusione, anche se non dell’esatta natura di essa.

    I primati umani, per quanto riguarda i labirinti, sono in tutto e per tutto non meno prevedibili delle cavie, ma non posseggono la chiarezza percettiva ed emotiva, l’acuta attenzione ed intelligenza dei loro cugini più irsuti.

    Facendo esperimenti e prove con le cavie si può imparare molto sui labirinti. Per esempio, alterando la forma del labirinto, ma mantenendone gli stessi riferimenti di base, vediamo che la cavia continuerà a seguire i vecchi riferimenti piuttosto che adattarsi alla nuova configurazione; ma dopo sufficienti ricompense di natura alimentare, imparerà a re-imparare. Sotto i morsi della fame diventa tollerabile anche il disagio della ristrutturazione sinaptica.

    Con una certa comprensione dei concetti della riprogrammazione motivazionale possiamo sviluppare, attraverso giochi didattici interattivi, una serie di persuasioni pratiche che incoraggiano il ragionamento intuitivo, deduttivo ed induttivo ed un nuovo apprendimento.

    Allo stesso modo, possiamo intraprendere una seria ricerca nel regno dei labirinti fissi, di quelli variabili e di quelli che cambiano improvvisamente ed in modi inaspettati proprio a metà gioco, mediante l’introduzione di variabili interattive e di costanti, sia relative che oggettive.

    Dovrebbe esser facile compiere il lieve salto concettuale, dalla semplice osservazione delle cavie, ostacolate da un’intelligenza piuttosto primitiva, a noi stessi. Per noi, l’intelligenza non dovrebbe costituire un ostacolo, se non ci facessimo influenzare dai limiti artificiali di modelli educativi memorizzati, adatti solo ad un ambiente culturale noto ed ipersemplificato, nel quale siamo soliti adottare vecchie risposte per far fronte a nuovi stimoli.

    Bene, abbiamo già fatto troppa filosofia. Il fatto è che sia le cavie che i primati umani hanno tendenza a sperimentare essenzialmente gli stessi problemi di stress e pressione sociale, e possiedono (prima del condizionamento sociale e dell’imprinting psicoemotivo, ovvero, della formattazione del cervello profondo, mediante i meccanismi di stimolo/risposta al dolore e al piacere) esattamente la stessa innocenza intuitiva iniziale, dovuta in larga misura a quella disattenzione che può derivare solo dalla mancanza di automotivazione in assenza di stimoli ambientali e biologici; condividono inoltre la stessa occlusione percettiva generale, derivante dall’alienazione dall’ambiente, un vago e risentito stato di chiusura, sintomatica di paure non esaminate, profondamente radicate, prodotte da cose a cui preferirei non pensare proprio adesso.

    Se vogliamo utilizzare un metodo potente per effettuare escursioni nelle macrodimensioni, dobbiamo almeno convenire sul fatto che una certa cavia può essere incoraggiata ad avventurarsi in un territorio sconosciuto ed oscuro, mentre un’altra può non essere capace di tirarsi fuori dalla sua inerzia meccanicamente imposta, qualunque provocazione essa possa subire.

    Eppure ciò non assicura di per sé alcun risultato; anche la cavia più esperta è pur sempre soggetta al labirinto, è pur sempre prigioniera, un animale da laboratorio soggetto al capriccio esterno; ed in questo senso, ma solo in questo senso, non è libera.

    La libertà è una cosa immateriale, sottile ed elusiva, che giace in una dimensione inaspettata, molto oltre i confini della schiavitù biologica e delle pareti solide, come scopriremo presto.

    Dato lo stesso addestramento, le stesse opportunità, la stessa esposizione (o anche una maggiore) al labirinto, non ho mai capito perché nove cavie su dieci si dimostrano incapaci di districarsi dalla piacevole e robotica melma della vita animale.

    Il labirinto! Un dedalo macrodimensionale camuffato dal tessuto dei confini biologici. Nella vita ordinaria, qualunque cosa facciamo o raggiungiamo, dovunque andiamo o chiunque diventiamo, ci troviamo sempre prigionieri della rigida routine; ci auto-immergiamo in un auto-invocato, continuo bombardamento di tensioni, distrazioni e auto-indulgenza quotidiana, riuscendo con successo, in un modo o nell’altro, a rifiutare qualsiasi vero aiuto possa esserci offerto.

    Se conoscessimo il modo in cui guardare, potremmo afferrare l’occasione di penetrare attraverso i passaggi, i tranelli ed i sentieri color primula del dedalo macrodimensionale; ma non conosciamo questo modo di guardare… ed all’inizio ci diamo da fare per riuscire a creare un mondo che ci permetta, pur trovandoci in un labirinto, di rimanerne assolutamente inconsapevoli.

    I viaggiatori (ecco ciò che veramente siamo) raramente comprendono o sono consapevoli della qualità labirintica di ciò che stanno sperimentando, e possono facilmente mancare di riconoscerla, in quanto non hanno il potere di una seria, radicata e salda attenzione, con la quale vedere al di là dei sensi fisici.

    Non riconosciamo che siamo passati in un certo luogo molte volte prima; che abbiamo effettuato questa o quella curva. E, cosa ancora più importante, manchiamo di riconoscere la futilità di tutto quello che abbiamo fatto perseguendo le banali occupazioni della nostra vita da primati.

    Questo gioco si chiama futilità; impariamo da giovani a seguire la corrente, verso uno sbocco imponente e inconoscibile, un gran sistema cosmico di fognature che tutto inghiotte.

    Abbiamo investito tutto nell’adeguarci alle norme culturali, perpetuando una condizione che, in relazione al labirinto, è pateticamente passiva e sperimentando, allo stesso tempo, tutta la frustrazione, la rabbia e la paura di qualunque cavia, impaurita ed affamata, che si sia perduta.

    Immersi nel sonno e storditi dalla paura, automaticamente diamo per scontato che in casa è tutto in ordine; che tutto è sempre esattamente allo stesso modo in cui ci aspettiamo che sia.

    Immersi nelle distrazioni triviali della macchina biologica, la nostra superficiale attenzione oltrepassa velocemente, quasi imbarazzata, i maestosi panorami degli eventi macrodimensionali, che inevitabilmente ci troviamo spinti a tradurre, immediatamente e al più presto, nel più piatto e banale di tutti i mondi possibili.

    Non riusciamo mai veramente a divertirci o a stupirci. Questa conversione di tutto quanto esiste nei termini di un primate è un’autentica malattia, di natura clinica come qualunque condizione patologica comunemente accettata.

    Il sé essenziale, con le sue qualità di attenzione e presenza, è capace di vedere le cose in modo differente; perciò esso ha la capacità di avvertire il passaggio, quando questo si verifica, ad una percezione diretta del labirinto.

    Immaginate di guidare un’automobile e, contrariamente alla vostra abitudine, cercate di vederla come se fosse ferma: la strada circonda il veicolo, assorbita da esso e, più precisamente, dal vetro anteriore; scivola via dai finestrini laterali e viene vomitata sul retro… si ricicla e ritorna fuori da un piccolo buco in lontananza, all’orizzonte, si espande e scorre ancora una volta attorno all’auto.

    Tutta l’esperienza nelle macrodimensioni ha questa natura. Siamo stati educati a catalogare le nostre esperienze a compartimenti stagni, ad isolarle trascurando in tal modo la sottile continuità che sottende ogni cambiamento apparente e ogni discontinuità. Abbiamo una percezione capovolta degli eventi: dove c’è cambiamento vediamo stabilità; dove c’è stabilità vediamo cambiamento. Ciò che crediamo realtà è senza dubbio illusione, e ciò che crediamo illusione con ogni probabilità è reale.

    Le incontrollabili allucinazioni da primate impongono costantemente un’artificiale griglia spazio-temporale sulla nostra esperienza puramente sensoria e mentale.

    Vediamo il nostro passaggio attraverso la Creazione secondo una direzione spazio-temporale artificialmente predeterminata, in diretto contrasto con quanto conosciamo dalla geometria, dalla matematica e dalla fisica. Periodicamente aggiorniamo la nostra percezione degli eventi effettuando leggeri cambiamenti nel nostro modello di spazio-tempo, evitando accuratamente le piene conseguenze di ciò che in realtà conosciamo delle suddette discipline.

    Agiamo come se il mondo dei primati esistesse realmente, come se noi avessimo un’interfaccia diretta con esso, come se esistessero in esso certezze e qualità tangibili mentre, di fatto, niente di tutto questo esiste (nel senso in cui noi crediamo che esista), neppure remotamente. Ci siamo costruiti attorno le pareti di un vero e proprio Giardino della Familiarità e adesso vi siamo intrappolati senza alcuna speranza di fuga.

    Conoscendo la nostra propensione all’auto-illusione, non sorprende affatto scoprire che abbiamo sviluppato una mitologia della cacciata da quello stesso giardino in cui siamo costretti a consumare il resto dei nostri giorni.

    La maggior parte di quei viaggiatori che per caso si ritrovano a vagare momentaneamente nelle macrodimensioni non sono consapevoli di esservi entrati; dovessero in qualche modo divenir consapevoli di quest’inesplicabile alterazione della percezione della realtà, potrebbero finire a spiegare la loro esperienza a qualcuno con una laurea in psichiatria e due vigorosi infermieri a proteggerlo.

    Possiamo sempre emulare i nostri colleghi, i primati-a-mala-penaeretti, trascinandoci senza scopo attraverso il labirinto, ignari delle sottili ma clamorose esperienze che ci si presentano; oppure possiamo aprire gli occhi su ciò che ci circonda e dirigere i nostri spostamenti con intelligenza e competenza.

    Essendo viaggiatori piuttosto riluttanti, i primati umani si sono formati, per quanto senz’alcuna intenzione volontaria, l’idea preconcetta del modo in cui le cose dovrebbero andare e, di conseguenza, rifiutano delle scelte ovvie. Se viene data loro l’opportunità di seguire le proprie inclinazioni naturali, la maggioranza degli umani seguirà obbedientemente il solco coltivato dal cervello e dal corpo, dovunque questo possa condurli.

    Per quanto popolare possa essere, la cieca, robotica e schiavizzata obbedienza alle abitudini viene considerata dall’esperto viaggiatore del labirinto come un metodo poco elegante di funzionamento macrodimensionale.

    Impariamo il labirinto a memoria, viaggiando in tipico stile umano meccanico, eppure in certe occasioni ci succede di arrivare per puro caso al suo cuore; e, a condizione che ci ricordiamo di ripetere tutto esattamente allo stesso modo, e non avvenga alcuna deviazione dalla nostra routine, ci sembrerà di conoscere ormai bene il labirinto, finché non succede qualcosa che non era esattamente sul menù…

    Chi è veramente inzuppato del vino della vita di primate, chi ha girovagato per settantamila miliardi e due volte attraverso lo stesso settore macrodimensionale, mancherà di effettuare la connessione di Pallade; la tendenza è quella di perdere il contatto con lo stato di coscienza macrodimensionale.

    Innumerevoli primati sono stati là ed hanno visto… eppure, a causa di qualche strana debolezza della mente, hanno felicemente dimenticato; ce ne sono molti di più che non hanno mai visto niente, e la loro cecità indica che sono stati, dal punto di vista percettivo, dei semplici inetti.

    Tutto ciò può condurre qualunque osservatore esterno a concludere che una bizzarra forma di schizofrenica alienazione, culturalmente indotta, separa la coscienza del labirinto dalla realtà umana consensuale, sulla quale ci troviamo d’accordo per convenzione e che, in relazione alla macrocoscienza, difficilmente può essere considerata vera coscienza.

    1)E. J. Gold, La macchina biologica umana. La trasformazione dell’essere umano, Edizioni Crisalide.

    I primati umani

    pensano evidentemente

    di essere tutti soli

    nel loro settore.

    Ed infatti dovrebbero esserlo.

    2

    LA CONSAPEVOLEZZA DEL LABIRINTO

    Quando il processo d’apprendimento superiore si risveglia, non mostriamo più confusione e disorientamento quando entriamo nelle macrodimensioni. Mediante speciali processi interni, che è possibile imparare, possiamo andare ben oltre lo spettro ordinario, ed entrare nelle macrodimensioni, che nella forma somigliano alla realtà consensuale, ma sono radicalmente diverse da essa sotto altri aspetti, percepibili solo con un lungo e difficile addestramento dell’attenzione essenziale, ovvero non meccanica.

    Quando avevo tredici o quattordici anni, la mia cameretta era invasa dai topi e così, non avendo particolare attrazione per la vivisezione, cominciai a costruire alcuni labirinti allo scopo di studiare il loro comportamento.

    Nelle mie osservazioni di decine di ratti che inciampavano e si urtavano fra loro, fiutando la strada verso la loro ricompensa finale, mentre imparavano a sintetizzare i dati dell’esperienza mediante una primitiva forma di deduzione… oppure mentre non imparavano alcunché e sfioravano la morte per fame… un elemento spiccava chiaramente.

    Indipendentemente dai testi di scienza del comportamento, scoprii qualcosa che potrebbe essere chiamata, per convenzione, consapevolezza del labirinto, che per il momento si potrebbe definire come la capacità di trovare nuovi percorsi attraverso un dedalo, in direzione del punto di ricompensa, tramite pura ripetizione. Se non ci preoccupiamo troppo di effettuare un salto quantico eccessivamente ardito, potremmo dedurre che alcuni ratti, alla fine, divengono consapevoli delle regole generali secondo cui il dedalo è costruito, sia pure, naturalmente, solo ad un livello puramente soggettivo/istintivo – a livello di olfatto ed apparato digerente.

    Di conseguenza, scoprii un particolare processo d’apprendimento che può conferire al ratto la capacità di risolvere non solo un dato labirinto, ma potenzialmente qualunque labirinto gli possa successivamente capitare d’incontrare, per caso o di proposito.

    Giunsi anche alla conclusione, probabilmente giusta, che alla fine un ratto, avendo risolto alla cieca un sufficiente numero di labirinti, potrebbe iniziare a percepire vagamente l’inevitabilità del fatto non solo di trovarsi in un labirinto, ma di non poterne uscire, se non altro con i mezzi attualmente a sua disposizione.

    Una volta raggiunto questo primo, importantissimo elemento cognitivo, senza il quale niente è ulteriormente possibile in alcuna direzione, eccetto verso il basso, il nostro ratto può iniziare a percepire e ad analizzare l’ambiente che lo circonda qual esso è veramente, e non quale le sue paure e le sue occlusioni percettive gli fanno immaginare che sia.

    Avendo per il momento risolto questo conflitto percettivo/emotivo, il ratto non mostrerà più la coercizione a mantenere un velo auto-prodotto di confusione e disorientamento.

    Potreste pensare che l’eccitazione nell’osservare quest’unico ratto che, tra decine di suoi simili, improvvisamente manifesta di avere consapevolezza del labirinto, mi abbia stancato presto, ma au contraire … il condividere l’eccitazione di questa semplice ma magnifica scoperta non mancò mai di colpirmi come una vera e propria apoteosi; ed ogni scienziato che valga il suo peso in nitrato di potassio, sputerebbe spazzatura se affermasse il contrario.

    Quando un ratto diventa consapevole del labirinto, i suoi occhi sembrano in qualche modo contemporaneamente più giovani e più vecchi; la sua postura ed il suo comportamento generale verso l’ambiente e verso se stesso mostrano segni radicali di mutamento. Appare meno frenetico, più disinvolto, più sicuro di sé e notevolmente meno autodistruttivo.

    Contemporaneamente, si possono notare segni visibili di eccitazione; è irresistibilmente pervaso da un nuovo senso di libertà, proprio lo stesso senso di libertà che può sperimentare un essere umano quando raggiunge quella che chiamano illuminazione. Naturalmente, per quanto riguarda gli esseri umani, questo primo barlume di vera libertà (non da un labirinto sperimentale, ma dai confini autoindotti di natura puramente psico-emotiva) non dura molto a lungo e presto si riafferma la sua monotona e banale attività da primate.

    Sotto la maschera dell’esistenza ordinaria, il labirinto è ancora più diabolico, in quanto nascosto per sua propria natura; eppure, in definitiva, si tratta dello stesso complesso macrodimensionale di corridoi e camere, aperture e chiusure, torsioni e curve in imprevedibile e disordinata espansione, riconvertito nei piatti e solidi muri della realtà organica.

    Come i compiacenti ratti, che con tanta facilità ricadono nell’apatia (se davvero mai ne emergono), specialmente dopo che hanno cominciato ad essere vagamente consapevoli del labirinto, così i primati umani, quando capita loro di aprirsi momentaneamente alla piena visione macrodimensionale del labirinto, sembrano esser posseduti dalla terribile fretta di rinchiudersi ancora una volta in un ripostiglio.

    Sarebbe possibile indurre artificialmente una certa consapevolezza del labirinto ed il passaggio nello spazio macrodimensionale; ma possiamo pienamente aspettarci che la conseguente comprensione temporanea sarebbe mutilata, schiacciata e demolita dalle impietose e voraci mascelle delle convenzioni del primate; e che la nuova comprensione diventerebbe completamente indigesta ed incomprensibile.

    Allo stesso tempo, una tale esperienza rappresenta la prima vera opportunità di penetrare ben oltre lo spettro della realtà ordinaria, in una lungimirante e vasta visione, che in un certo modo assomiglia alla realtà consensuale nella forma, ma che ne è radicalmente differente in quanto a significato, scala ed intensità.

    La pura struttura macro-molecolare diviene manifesta, la materia rivela la sua turbinante microstruttura di pura energia, ed il tempo cessa di esistere, un semplice espediente per incapsulare un evento o per spostarsi da un tableau d’energia congelato ad un altro. In quel momento sappiamo che stiamo iniziando a vedere le cose quali veramente sono… Ma non dobbiamo farne parola con nessuno che indossi un bianco camice da laboratorio, se non vogliamo passare il resto dei nostri giorni ad interpretare macchie di Rorschach, a indovinare delle carte di Rhine, oppure a cantare doda kupanga udoda kukala, doda kupanga ukala shatti in un coretto rock nella band di Leon Russell.(1)

    Solo molto più tardi comprenderemo veramente cosa questo significhi, quando avremo scoperto il modo in cui anche un esperto della giungla, come per esempio uno Zulu, possa perdersi nella boscaglia.

    Solo quando avremo sviluppato una totale affidabilità, dimostrato la nostra forza e un costante entusiasmo di fronte ad infinite ripetizioni, mostrato segni di incrollabile lealtà verso il Lavoro e ci saremo separati con successo dai modi e dagli atteggiamenti del primate umano, solo allora ci saremo guadagnati il diritto di un coinvolgimento in un diverso tipo di lavoro, qualcosa al di là del livello di primate.

    Questo altro tipo di lavoro può derivare solo dal serio e concentrato impegno a svolgere specifici compiti nell’inquietante territorio macrodimensionale, accettando il fatto che lo svolgimento di tali compiti non sempre risulta gradito alla psiche del primate e compatibile con gli imperativi biologici della macchina biologica umana.

    Meglio allora che qualcuno ci conduca per mano e ci mostri la via; ma che vantaggio possiamo trarne se, allo stesso tempo, non possiamo svegliarci di nostra iniziativa e sorvolare dall’alto la vastità del labirinto?

    Ah, ma prima occorre riconoscere che esiste un labirinto e che ci siamo dentro. Se non abbiamo ancora compiuto questo piccolo passo, come possiamo poi aspettarci di compiere il salto gigantesco, di entrarvi in stato di veglia nel preciso momento in cui è importante farlo?

    Un aiuto, un vero aiuto, è disponibile solo per coloro che hanno già compiuto una buona parte del cammino verso un tipo di vita diverso da quello dei primati; per coloro che mostrano un’attitudine già profondamente radicata per il labirinto, che si sono già dimostrati dei coraggiosi viaggiatori, nonostante le paure personali nei confronti degli aspetti più terrificanti di questo viaggio, che hanno mostrato la potenziale capacità di eseguire un lavoro speciale in condizioni molto difficili e spesso soverchianti; e, cosa ancora più importante, che non manifestano il tipo di delicata natura psicoemotiva che si può osservare in quei bambini che abbandonano il campo estivo dopo la prima o seconda settimana di permanenza.

    Se prendiamo in considerazione il ristretto limite di tempo che si ha a disposizione in una scuola ed il ristretto numero di persone con cui si può lavorare seriamente, assume un senso il fatto di concentrare gli sforzi solo sull’addestramento di coloro che mostrano le più alte potenzialità, in modo da selezionare i vincitori ed eliminare i perdenti.

    Tra i nuovi viaggiatori (la maggior parte dei quali non raggiunge mai la meta e delle cui caratteristiche quella che segue è una delle più frequenti) c’è una certa insofferenza verso la sperimentazione dei settori insoliti (intendendo con ciò esotici e pericolosi) del labirinto. Prima di esporci, insieme alle nostre macchine freneticamente incontrollabili, all’eccitazione di questi ambienti deliziosamente pericolosi, dobbiamo compiere un certo numero di passi preparatori per incrementare ragionevolmente le nostre possibilità di sopravvivenza, non per noi stessi, ma a beneficio del Lavoro, in modo che il nostro addestramento e la nostra trasformazione non vadano completamente sprecati.

    È basilare che ci debba essere un saldo fondamento di capacità naturali: attitudine e competenza. Solo così l’addestramento e la disciplina acquisiti (ma autoimposti e mantenuti) acquistano un valore duraturo.

    Se volessimo migliorare la capacità di scalare i territori macrodimensionali senza comprendere lo scopo del viaggio, potremmo

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