Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il naufrago e la cometa
Il naufrago e la cometa
Il naufrago e la cometa
E-book385 pagine5 ore

Il naufrago e la cometa

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

I sapiens naufragano sul pianeta dei rossi deserti. Sabbie aliene abbracciano l'acciaio dell'ultimo avamposto, e così Marte può definitivamente accogliere il periplo di un'umanità ridotta a strumento dei propri strumenti.

L'avanguardistico apparato tecnico di cui essa dispone, tuttavia, stempera la nostalgia di casa mentre il Verbo cibernetico offre persino un'occasione di riscatto; scandagliando l'oceano interstellare con sofisticati occhi elettronici, l'ultima civiltà proietta il senso del sacro nella caccia al millenario fuggiasco, ciò che gli antichi invocavano come Padre ma che ora pare latitare clandestino fra i misteri delle stelle. Una deriva cosmica vana e infruttuosa… perlomeno sino a quando non appare la galleria gravitazionale, il segreto wormhole depositario di un monito inevaso; forse, un testamento.

Intanto, tre psiconauti – un Vecchio, una Ragazza e un Ragazzo – scortati dal bagliore di una singolare cometa, penetrano differenti dimensioni con ben altri occhi. La loro, è una decisiva e vitale resistenza interiore; un esercizio di pieno confronto con la vita e con la morte, alla ricerca di sé stessi: remando dalle estreme propaggini della coscienza sino alle sorgenti della libertà e dell'amore.

Il romanzo appartiene al filone della fanta-filosofia e ripercorre il mitologema ulissiaco (nostos) in prospettiva ecologista.
LinguaItaliano
Data di uscita3 giu 2019
ISBN9788831623681
Il naufrago e la cometa

Leggi altro di Michele Cavejari

Correlato a Il naufrago e la cometa

Ebook correlati

Fantascienza per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Il naufrago e la cometa

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il naufrago e la cometa - Michele Cavejari

    I)

    Prefazione

    a cura dell’autore

    La distopia – o utopia negativa – appartiene al genere fantascientifico. Preconizza un fosco avvenire, triste eredità dei costumi sociali, politici e tecnologici che oggi ammiccano confidenti ma che possono inaspettatamente spalancare ‘inferni’, erodendo diritti e libertà.

    Sostanzialmente, il filone mira a rilevare e denunciare i ‘semi’ di negatività radicati nel mondo contemporaneo, non prima però di averne esacerbato i tratti e le ricadute sino a renderli irriconoscibili. E tuttavia, qualora le antifone non vengano colte, l’intero messaggio naufraga con facilità. Di più: rimasto in piedi unicamente il gioco di fantasia, ossia la trama, può seguire un appannamento del giudizio critico.

    In proposito, all’interno del saggio Le Système technicien, il pensatore Jacques Ellul esprime un parere lapidario. Nella distopia, scrive: «ci viene mostrato un modello orribile, inaccettabile, che rifiutiamo con forza […], e col nostro rifiuto ci condanniamo a ciò: crediamo di aver rifiutato la Tecnica, di essere quindi lucidi e vigili e di esserci sbarazzati di tale ansia: la tecnica (quella tecnica!) non si impossesserà di noi.»

    Magnificamente e paurosamente, l’utopia negativa può serrare gli occhi con l’intento dichiarato di aprirli…

    D’altra parte, il genere distopico si qualifica senza ombra di dubbio come uno fra i migliori strumenti di riflessione filosofica. Tanto controversa quanto generosa di spunti, la macchina narrativa coinvolge l’intero psichismo della persona e allena ‘muscoli’ altrimenti destinati a rimanere atrofici. È vero, non analizza né ‘spiega’ (nell’accezione logico-razionale, lineare e sequenziale a cui il termine rimanda in Occidente), ma stimola fortemente l’intelligenza intuitiva, empirica ed esperienziale (tenuta in alta considerazione specie in Oriente). L’utopia negativa sa provocare oltre ogni logica, divertirsi coi mitologemi, mescolare i nessi e i simboli, perciò stimolare in via talvolta più incisiva della saggistica tutte le necessarie e profonde riflessioni sull’attualità, sul germe di quel che già abbiamo sotto gli occhi ma che spesso neppure riusciamo a mettere a fuoco.

    La distopia, oltretutto, è libera di uscire dai circuiti accademici tradizionali e di incontrare un pubblico vasto, eterogeneo, stringendogli la mano a monte dei tecnicismi. In estrema sintesi, un romanzo distopico è uno strumento dinamico, vivo, coinvolgente. Basti citare l’impareggiabile Fahrenheit 451 di Ray Bradbury oppure rifarsi ai classici di Huxley, Lem e Orwell: proprio l’immedesimazione coi protagonisti dell’avventura facilita l’esercizio di scavo nelle personali idiosincrasie; una metamorfosi interiore tesa a reperire quell’indocilità civile assolutamente auspicabile per una vita consapevole, rispettosa di sé stessi, degli altri e del pianeta.

    Nello specifico, il naufrago e la cometa sceglie di battere la medesima strada (o meglio, di mantenersi nella scia). Una strada intessuta di domande, le cui cartografie rimandano al rapporto dell’uomo con la terra, con la tecnologia, con il sacro e l’impermanenza. Le singole piste, nondimeno, possono essere ulteriormente suddivise in tracciati minori. Si spazia così dalle incursioni nell’intelligenza del mondo vegetale, agli stati modificati di coscienza (OBE, ASC), passando per le esperienze di premorte (NDE) sino a giungere ai meandri della conoscenza, là dove si presentano fenomeni di estremo rilievo per le scienze; elementi latori di poderose sfide teoretiche, nelle condizioni di far vacillare l’intero edificio metafisico e perciò il paradigma monistico-materialista.

    Come chiarito sopra, la distopia si ‘limita’ ovviamente a procedere per suggestioni, accenni. Non pretende di esaurire. Se non altro però, apre varchi, libera orizzonti abitabili dalle domande: un’esperienza antitetica rispetto al leitmotiv dominante, ossia alla prassi di una società – illustra Umberto Galimberti – che pare invece molto più indaffarata ad approntare risposte, consolazioni, anziché educare al valore delle interrogazioni radicali, all’arte di coltivare enigmi come sentieri che ci tengono in piedi (e che ci chiamano ad attraversare coraggiosamente i paesaggi interiori). Ecco, forse, un buon modo per svegliarci dal sonnambulismo contemporaneo è proprio abbandonare le risposte facili e mettere in questione la ‘giustezza’ del sogno che andiamo sognando; detta altrimenti, analizzare con serenità ma anche con fermezza le implicazioni epistemologiche che fondano la concezione della realtà: ovvero il realismo naif e i suoi assunti; l’illusione che la mente colga ciò che è così come è, senza intermediazioni.

    La fisica quantistica e le neuroscienze, del resto, vanno da tempo demolendo il paradigma dominante, il pregiudizio storico che fonda l’edificio culturale dell’Occidente. E così come i mistici e gli sciamani suggerivano, oggi anche i fisici, i neurobiologi, gli psicologi e i cosmologi iniziano a rivisitare con metodo e rigore i pregiudizi conoscitivi, a interrogarsi sul dualismo mente-corpo, mente-cervello, psiche-materia, dunque a riconsiderare l’oggettività della percezione, la natura locale della coscienza e l’apparente solidità dell’Ego (aggregato superficiale di una psiche ben più ampia).

    Di sicuro, un compito tutt’altro che semplice.

    In primo luogo, per la complessità dei temi trattati e delle discipline coinvolte. In seconda istanza, per la fisiologica posizione egocentrica della coscienza primaria e quindi l’impossibilità di abbandonare totalmente i filtri sensoriali che ci aprono al mondo (il quale resta, né più né meno, il mondo per noi). In terzo luogo, dacché quando le convinzioni (gli assunti metafisici) saltano e si spalanca sotto ai piedi l’inconsistenza della separazione dualistica, ovvero allorché l’oggettività si riduce a ‘soggettività condivisa’ ed emerge parimenti la parzialità e la provvisorietà della conoscenza, ecco che subentra la paura; l’angoscia verso il presentimento del nulla, del vuoto. La vertigine.

    E lo sgomento può far indietreggiare, chiudere gli occhi…

    L’uomo, invero, sente il bisogno strutturale, fisiologico, di aggrapparsi a un centro stabile e immutabile. Ma che fare se questo centro è un’illusione? Come risolversi, se la realtà stessa è un atto creativo della mente, una codificazione di input vincolata alla specifica dotazione sensoriale (spiega, fra gli altri, Thomas Nagel)? O ancora, cosa resta dei fenomeni ‘in sé’ allorquando le polarità e gli attributi prendono forma unicamente nella comparazione, nella relatività del confronto (come di fatto buddismo e taoismo da secoli suggeriscono)?

    Ora, evidentemente, non è questa la sede per approfondire. Il romanzo distopico il naufrago e la cometa ha il solo scopo di accennarvi e intrattenere. Spetterà eventualmente al lettore, qualora lo desiderasse (senza passare per la distopia in oggetto o dopo averne attraversato le pagine) meditare le questioni con i debiti documenti scientifici (alcuni peraltro riportati in calce al libro). Concludo però con una riflessione. Alla luce di quanto abbozzato sopra, nonché mutuate le parole dell’antropologo Hank Wesselman, appare ovvio che l’occidente sta sognando, e che il sogno – ci informano i Q’ero dell’altopiano andino – è decisamente quello sbagliato. Inquinamento, distruzione degli habitat, consumismo, totale smarrimento del senso del sacro, divisione multidimensionale e violenza ne sono le spie, gli indicatori. Attorno a noi è l’inferno…

    Nondimeno, la sola via d’uscita dall’inferno è collocata al centro dell’inferno stesso; ce lo insegna Dante nella Commedia.

    L’uscita è al centro del labirinto. Al centro di sé stessi.

    Ciò significa comprendere senza giustificare, accettare senza negare: ripensare ai nostri stili di vita e ai modi di vivere. Ripensare a ciò che facciamo, come lo facciamo. Rivedere ciò che pensiamo di essere. Prima che sia troppo tardi…

    In ultima, non si tratta di cambiare il mondo; ma il nostro approccio alla Terra. E non si tratta neppure di cambiare tout court il rapporto con la Tecnica. Non è lei il problema, o quantomeno non direttamente. Si tratta, a priori, di rivedere la nostra relazione con la caducità, con l’impermanenza, con la Morte; poiché scotomizzandola e riducendola a problema di management medico abbiamo solamente rimosso (o pregiudicato) il pieno confronto con la vita e con la domanda di senso che ci abita.

    Siccome il presente romanzo eredita anche le competenze acquisite durante un intenso e luminoso ciclo di Master in Death Studies & The End of Life presso il Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata dell’Università di Padova, mi sento di chiudere la prefazione con un ovvio ma tutto sommato inevaso monito: non è possibile fare pace con la Terra senza aver fatto pace con l’idea della Fine; ma per far pace con la caducità e l’impermanenza dobbiamo primariamente risvegliarci nello spirito. Non è possibile infatti alcuna sostenibilità senza aver recuperato l’idea di interconnessione e unità indivisa a cui compartecipiamo; così come non serve a nulla, davanti alla vecchia Atropo, agitare la Tecnica come talismano senza aver prima riconosciuto che cosa voglia dire morire (che cosa pensiamo voglia dire morire…).

    Lo stato attuale della Terra è lo specchio nel quale possiamo scorgere il rapporto che i Sapiens (i sedicenti saggi) intrattengono con sé stessi, coi propri fratelli e sorelle (animali e vegetali). Risvegliamoci dall’incubo e cambiamo il sogno. Cambiamo la realtà. In Lak’ech

    IL NAUFRAGO E LA COMETA

    Alla mia famiglia, tutta.

    Dalla A alla Z.

    A chi mi ha preceduto.

    A chi mi accompagna.

    A chi non sarà mai lontano,

    nemmeno s’è passato dall’altra parte.

    Pensiamo all’equazione di Schrödinger,

    fondamento della meccanica quantistica,

    e al principio di esclusione di Pauli,

    oltreché al teorema di Bell, all’entanglement

    L’interconnessione soggiacente

    diventa molto più che un sospetto,

    e la frammentazione

    molto meno reale

    di quanto non appaia.

    La pietra che i costruttori hanno scartata

    è diventata testata d'angolo.

    (Matteo 21,42)

    Colui che vive sulla terra ma distinto dalla terra, colui che la terra non conosce, colui il cui corpo è terra e che muove la terra dall’interno, quello è il tuo ātman, che guida internamente, l’immortale.

    (Bŗadāraņyaka-upanişad III, 3,7)

    Prologo

    Terra…

    La Grande Capitale era una visione stupenda, spregiudicata. Muro di rostri, labirinto di specchi, sinistro massiccio artigliato al più rovente dei deserti; giungla di titanio sotto cieli d’aurora.

    Smisuratamente frusciante e ronzante, figlia del più vasto e complesso apparato tecnico, la città sposava l’utopia delle superfici non orientate: lunghi tragitti cingolati, stupefacenti nastri di Möbius che non portavano mai altrove né avanti, ma sempre e indefessamente al punto di partenza. Sicché, sebbene tutto scorresse, laggiù tutto era immobile. Nulla mutava, tutto transitava, sciamava fluido, senza allontanarsi troppo. Centinaia di nastri trasportatori scorrevano, magnificamente; corde funamboliche, ragnatele lanciate da un palazzo all'altro, a precipizio su nebbie lattescenti. E donne e uomini scorrevano lungo quelle piste. Scorrevano con mani premute su argentee balaustre, i volti carichi di anni e gli animi sgravati da qualsiasi responsabilità.

    Abbasso, oltre un'impalpabile cortina di vapori, un traffico invisibile indovinava bisettrici e intersezioni matematiche.

    Tappeti, cose e persone scorrevano. Scorrevano senza dover lavorare di freno, straordinariamente concertati, a mancare tremende collisioni per calibratissimi millimetri. Mai una brusca sterzata, mai un sobbalzo.

    Solo sussurri, geometrie fulminee in anonime gore.

    Persino i venti tiepidi del futuro anteriore scorrevano per tornare indietro, assieme a cose e persone, permeando l'intera, funerea emanazione della Grande Capitale: spenti obelischi e glabre torri senza vetri, cipressi per l'ultima oasi di civiltà planetaria. Uno fra gli ultimi presidi delle Terre a Tramonto, di nome e di fatto.

    Corpi muti assecondavano direttive senza orizzonte e almanaccavano le ore rigorosamente pianificate dall'aurora; l'aurora che era legge; la legge che era il sacro serpente arcobaleno, il Verbo che nella prima manualistica di riferimento era stato battezzato GWI e poi, più agevolmente, rinominato Big One: l'ectoplasmatica sorgiva, il tentacolare e onniveggente spettro elettromagnetico sospeso nei cieli metropolitani, vanto e merito del genio indiscusso il professor Kowalskij.

    Big One, l'eterea cupola, era effettivamente in grado di predisporre, regolare, interconnettere e in ultima incanalare nel flusso la totalità della realtà urbana. A titolo di oracolo cibernetico, l'aurora possedeva il monopolio della verità, concertava il libero pensiero, presiedeva al divertissement, recapitava a domicilio il mondo – ovvero il surrogato di quel che ne restava –, dispensando altresì i debiti ologrammi sulle lenti d'ossidiana, gli occhiali che tutti i Senex indossavano, senza eccezioni.

    In breve, la Grande Capitale, amalgama di circa un miliardo di postume solitudini, recitava convintamente il mantra olografico, i dettami di Big One, occhio di ogni occhio e insieme confine ultimo di ogni prospettiva.

    Perciò, anche quel giorno come ogni giorno, i nastri trasportatori scorrevano. Scorrevano magnificamente, portando a spasso lei.

    Emma. Una Senex come tante.

    Una giovane Senex nei cui timpani – per merito dei gemelli di Melete – rimbombava la voce di Big One, il pastore cibernetico, e sulla cui retina – grazie alle lenti d'ossidiana – palpitava incessantemente la medesima, camaleontica e multiforme matrice aurorale all'evenienza restituita quale prosperosa soubrette, amabile cucciolo domestico, esotica location marina o – nel caso in esame – saggio uomo col camice, bianco guru del Benessere.

    «Buongiorno, cara» proferiva l'ologramma «Robert, si è ripreso?»

    Emma elargiva una risposta vaga, distratta.

    «Immagino, certo» sorrideva bonario il fantasma.

    «Piuttosto, guardati. Sei sempre in splendida forma.»

    Emma si schermiva. Ringraziava.

    Emma viaggiava sui tappeti ronzanti e masticava una gomma alla vaniglia. Dava il fianco ad altre Senex, essendone massimamente inconsapevole. Negli occhi ciechi al mondo, dietro ai riflessi baluginanti delle lenti scure, custodiva l'uomo col camice, il ridente miraggio in alta definizione con sottili lastre di quarzo aperte dinnanzi, ossia le note tavole del culto.

    Il fantasma dispensava complimenti, poi, formicolante ed etereo, recitava un passo tratto dai Vangeli di Prometeo. Argomentava con convinzione, colmo di beatitudine: «Lo so, Emma cara. Te lo chiedi proprio come molte altre. Perché mai, lungo i tracciati panoramici, dovrei gravare irrazionalmente sulle mie delicate vertebre? Una seccatura inammissibile, una fatica ignobile.

    «E dimmi Emma, dimmi per esempio quante ore, anzi quanti giorni e quanti mesi all'anno trascorri a martoriare i metameri? Perché sopporti quella sorda ma lacerante tensione fra le scapole, quell'assurdo dolore cervicale che coglie impreparati lungo le autostrade pedonali? Rispondimi, Emma. Quante ore, su.»

    La donna sparava una cifra assolutamente senza senso.

    «Già, infatti» annuiva comprensivo Big One, l'uomo col camice «Un'infinità di tempo. Tremendo. Una come te, ligia alle tavole del Benessere, mai in ritardo all'ora di rivoluzione o alla seduta di piacevolezza... non lo merita.»

    La donna concordava. Sosteneva di sentirsi ingiustamente defraudata. Esprimeva il concetto senza ricorrere a fiacche circonlocuzioni o indulgere in tiepidi eufemismi.

    «Per l'appunto, Emma.

    «Possibile che le ingombranti intelaiature ad esoscheletro tanto in voga nelle Periferie non abbiano ancora conosciuto una legittima evoluzione? Questo ti chiedi. E io, Emma cara, in merito ho una buona notizia.

    «Tieniti forte, perché una nuova vela spunta all'orizzonte dei supporti ergonomici on the go

    Emma gioì. E come lei gioirono le Senex accodate lungo la medesima pista ronzante, calzando i medesimi vestiti, le medesime lenti. Ognuna, nondimeno, sagacemente chiamata per nome, adulata dall’ologramma. 

    «Solo il meglio per te, Emma. Ci conosciamo da una vita e mai ti chiederei di soffermarti su dispositivi prossimi all'obsolescenza.»

    Emma ringraziava. Ogni donna ringraziava. Ogni donna ringraziava l'ologramma custodito dietro le nere lenti.

    «Emma, sei importante. Tutto qui. E poi il tempo è così generoso con te: non cambi mai! Le stagioni mutano; tu no. Non ti muovi d'un passo.»

    Emma rise.

    «Dunque, sta a sentire. Iperione: morbidissima fibra sintetica antiallergica. Comoda, studiata per aderire al corpo come una seconda pelle. Ti manterrà al caldo in inverno e al fresco d'estate.»

    Emma annuì; torme di spettri le fluivano dinnanzi, posavano e sfilavano, incedevano eterei con addosso soltanto la magica tuta. Gli spettri esaltavano Iperione dimenando masse atletiche, statuarie, turgide, giovani, appetibili, anacronistiche.

    «Sebbene Iperione sia leggero, carezzevole e delicato sulla pelle, eccolo reagire agli impatti e alla pressione disponendo le molecole su nuovi piani, vulcanizzandosi all'istante. Un vero e proprio sostegno pseudo-scheletrico tenace e resistente, una base d'appoggio attivata dai tuoi stessi movimenti.»

    Emma annuiva, assorta. Davanti ai suoi occhi, la magica tuta.

    «La transizione da sottoveste a supporto rigido è chiaramente discreta, assolutamente reversibile, transitoria, circoscritta al bisogno. Dimentica gli ingombranti esoscheletri e abbandonati al tenero, premuroso e invisibile abbraccio di Iperione. Questo è quello che meriti.» Custode del suo vasto, muto gregge, l'uomo col camice bianco, l'ologramma, finalmente taceva. Le Senex concludevano la transazione con un'approvazione totale, incondizionata, orgasmica.

    Emma gridava per prima il suo si.

    «Generosa come sempre» riprendeva Big One «Concedimi perlomeno di ricompensarti con una dose extra di Cura.»

    Emma accettava di buon grado. Del resto, i confetti del non ritorno andavano letteralmente a ruba di quei tempi.

    «Ora, cara Emma, eccoci al commiato. Sei quasi arrivata al tempio, perciò alla luce delle ultime emocromocitometrie ti consiglierei di optare per gli ultra-centrifugati. Mi curerò di inoltrarti una nota subliminale, così da assicurarci che non vengano dimenticati. Ti voglio sempre in forma, Emma.»

    Prima che il sacerdote olografico potesse congedarsi, tuttavia, giunse con un soffio l'interferenza. Giunse per sconquassare da cima a fondo la proiezione di Big One, pizzicandone le estremità, torcendone i profili, lacerandone la voce…

    Emma si destò come da un dolce sogno. Batté le lunghe ciglia. Eseguì leste rollate oculari di sintonizzazione. Inutilmente. Sulle lenti d'ossidiana perdurava oramai un fantasma balbettante, pulsante, scombussolato da un forte brusio di fondo. E qualcosa come un rombo oceanico pareva montare dal profondo.

    Emma pretese spiegazioni.

    L'uomo col camice, congelato in una strana posa, sottile miraggio senza profondità, divorato da continue scariche longitudinali, rispose con stridori sintetici. Parole incomprensibili. Poi più niente.

    Blackout.

    Emma rimase sola. Oltre la montatura, il mondo sorse imminente. V’era un ponte sospeso sul nulla, un'autostrada pedonale diretta in nessun luogo…

    «Pronto…» strillò Emma «Pronto...»

    Anche il meraviglioso nastro trasportatore inchiodò. Appiattite contro il mancorrente, le Senex invocarono Big One. Smarrite, abbandonate, incapaci di scorgersi l'una per l'altra appena dietro le lenti, chiamarono ancora, e ancora. Senza ottenere risposta.

    Passò molto tempo, o forse soltanto minuti. Dopodiché, nelle orecchie delle Grande Capitale, tramite i gemelli di Melete, prese forma un grave murmure. Un respiro, un ringhio sibilante. Emma chiamò per l'ennesima volta il suo abile, immaginario imbonitore. Lo supplicò di tornare. Invece niente. L'oscurità, sorda a ogni appello, si limitava a inalare profondamente.

    Un microfono, aperto da qualche parte, restituiva il respiro delle tenebre. L’interferenza inalava. Greve. Espirava. Onnipotente, a visitare crani stranieri. E non era Big One.

    Un rettilesco, regolare affanno senza corpo; la quieta e mesta sortita di uno pneuma da sommozzatore…

    Molto lentamente, sulle vuote lenti d'ossidiana comparve un simulacro. Un volto sconosciuto. Lineamenti dapprima confusi, quindi, col passare dei secondi, sempre più precisi, sino a farsi netti e spigolosi. Una mandibola serrata. Ombre che s'infilavano sotto agli zigomi, che precipitavano giù per le narici, dentro a un naso di cui non restava niente.

    L'effige conquistò ogni occhio, schermo, ripetitore. Si materializzò ovunque, contemporaneamente. Magnificamente tornita, fulgente, senza espressione. Imago mortis di un'intera specie.

    La pazza folla scostò dalle labbra i bicchieri fumanti. Nei salotti, Senex di tutte le età restarono basiti e si aggrapparono ai cuscini, aderirono agli schienali. I piloti delle aeromobili, gettati nel silenzio dell'abitacolo, raggelarono. L'intera capitale, imprecisamente interdetta, restò a osservare, ad ascoltare quei rantoli soffocati, quel respiro fatale che aveva spento Big One.

    C'era una maschera, con cui fare i conti. Un demone a cui risultava impossibile dare del tu. C'era un teschio d'ametista che guardava dritto negli occhi. C'era uno spettro d'ametista su tutte le frequenze; in piazza e nelle vetrine. Un sibilo da basilisco nelle casse audio, qualcosa che giungeva da molto lontano, qualcosa che inspiegabilmente l’aurora, il serpente arcobaleno, aveva lasciato passare.

    Il teschio d'ametista batté le palpebre. Concesse al mondo due impossibili occhi azzurri. Gemme capaci di penetrare ogni segreto, ogni anfratto, persino i cunicoli dell'anima.

    Il teschio annuì solennemente. Nei gemelli di Melete passò un fruscio. La maschera parlò.

    «Questo» disse «è il primo respiro del mondo nuovo.»

    Un unico, gutturale risucchio: un rimescolamento di vetri e metallo.

    «Aiuteremo un'epoca a sganciare gli ormeggi.»

    Lo sconosciuto espirò. Inspirò ed espirò, senza fretta: il brontolio dei luoghi ancestrali ove vanno a morire le folgori.

    Da qualche parte, e comunque non lontano dal punto in cui giaceva Emma, riecheggiò la prima esplosione.

    Seguirono altri boati. A raffica. Un palazzo della Grande Metropoli veniva giù come un castello di carte. Una torre di fumo nero rotolava alta nel sole. E Big One, il serpente arcobaleno, inerme.

    I Senex urlarono d'orrore. Più forte che potevano, quasi già sapessero, nel profondo, sin da principio, che ai primi botti ne sarebbero seguiti altri e che l'effige d'ametista sulle lenti d'ossidiana, l’interferenza, altri non era se non la manifestazione episodica dell'apocalisse.

    Mentre i ponti crollavano, nuove comete lucenti piovevano abbasso: dardi della redenzione sulla Grande Capitale.

    * * *

    Marte, molti anni dopo...

    Il bagliore accecante di un minuscolo sole, sperduto all’orizzonte, immortalato nel suo gelido crepuscolo. Una lingua di luce nitida e spietata, sempre più sottile, che pungola e occhieggia sino a morire sola, nel completo silenzio.

    Ovunque, tutt’intorno, da sempre e per sempre sotto uno sconfinato e impossibile cielo azzurro, immense lontananze di rena rossa ove niente si era mai mosso o aveva respirato: tagliente e irreale deserto alieno.

    Una visione vasta e cristallina, un paese senza civiltà, universo affumicato e amaro; malinconico e vecchio incantesimo senza futuro. Alcuni miliardi di pietre bollenti, barbe d’erba rinsecchita e mulinelli fra i cespugli. Colori torridi per un acquerello di sangue e acciaio.

    Un altro giorno era finito, laggiù, e nude le montagne rocciose si ottenebravano. Spaventose, crescevano le ombre. Sulla terra spaccata dalla calura avanzava la notte, e lo faceva strisciando come una marea fredda, l’incedere compatto e obliquo di un’interminabile ghigliottina.

    Unica eccezione, la megalopoli. In suo nome, inediti proiettori erano pronti a ferire gli sguardi, voci cibernetiche e brusii robotici a trascinarsi nel fiume di penombra del metrò; con essi, i Leviatani, un esercito dal passo rigido e rumoroso, teso a rompere le righe, a invadere bassi prefabbricati di pietra, a sollevare una dopo l’altra le saracinesche con bruschi strappi.

    Agli incroci vuoti di strade inumate sotto ronzanti quintali di cavi elettrici, e poi anche dai profili dritti come tulipani dei palazzi-osservatorio, si sollevavano botole, boccaporti e placche. Schermi e diaframmi informatici stilettavano l’aria con centinaia di cannoni lenticolari, girandole d’oro, ripetitori e uno sterminato arsenale di potentissimi telescopi. Armi intelligenti, eco tonanti dello stesso sterile monologo riversato sotto forma di tonnellate di onde e decibel nei pensieri remoti di galassie lontane.

    Quella era la parte del deserto marziano che non conosceva riposo. Quella era la prigione che ogni notte accecava il buio con un terremoto di frenesia dispersiva.

    L’antico-mondo-abbandonato galleggiava invece nello spazio aperto. La sua rappresentazione giungeva su Marte come da un triste e inutile universo parallelo. L’orbita vitrea di un piccolo telescopio ne catturava lo spirito e ne monitorava la calma piatta 24 ore al giorno per poi proiettarne impietosamente la decadenza sul mega-schermo della piazza principale, ove tutte le strade convergevano. Annegato nell’abbandono, l'antico-mondo-abbandonato fluttuava nel centro esatto del pannello. Un’immagine limpida, pulita, atrocemente insistente. Rubata, e talvolta rimbalzata, persino dagli specchi di cristallo nero che tappezzavano gli edifici circostanti. Solo di giorno però, perché ad una certa ora, appunto, ogni bozzolo d’acciaio decollava come un’astronave, si trasformava, cambiava pelle, esibiva sonde, parabole e mortaretti; tutto ciò di cui era dotato. A quel punto il geoide non trovava più spazio da nessuna parte. Ogni specola dismetteva i tessuti riflettenti per articolarsi in un immobile groviglio di artigli protesi nello zeffiro serale, e ogni vuoto era pieno. La megalopoli e le sue orde di tentacoli anchilosati, le frotte di appendici artritiche e le torme di ramificazioni scheletriche oscuravano il cielo, senza soluzione di rimedio. Questo perché, qualcuno aveva detto, bisognava cercare lui. Perché, si era detto, bisognava che ci fosse costantemente un occhio vigile, devoto e instancabile addestrato a scrutare le profonde gallerie dello spazio alla ricerca del millenario fuggiasco.

    Come un triste Tao bianco di placche e nero di oceani, l'antico-mondo-abbandonato smetteva di esistere sempre alla solita ora, svanendo così com’era apparso la mattina presto. Lo schermo nella piazza principale si spegneva, al suo posto spuntavano bizzarri marchingegni e poi arrivava la pioggia, localizzata esclusivamente nel perimetro metropolitano. Puntuale e matematica come sempre, a lavare via ogni senso di colpa.

    Capitolo 1

    Il loro tempo era l’oblio e la loro vita era lavoro, ma il lavoro non poteva coincidere con il tempo della vita.

    Loro non potevano essere altro che carne anonima, impiego coatto e senza intenzione che da un lato tributavano alla memoria di una civiltà estinta e dall'altro all’ordine binario, meravigliosamente ligio, dei Leviatani.

    Loro non erano più uomini. Loro, su Marte, erano schiavi.

    Facevano quel che facevano perché non restava altro, perché lungamente non avevano visto altro, e perché con occhio fatale seguitavano a non vedere altro. Loro scorgevano quel che era dato scorgere e anelavano ciò che era stato concesso sperare. Qualsiasi altra questione, letteralmente, non aveva senso.

    Dopotutto, chi mai si ridurrebbe a dubitare di ciò che è dato se non fosse concessa nostalgia? Quando per molto tempo si è portati a vedere una sola faccia della stessa moneta, ad un certo punto si smette di credere nell’esistenza di un rovescio... e pensare di capovolgerla diviene un mero esercizio speculativo.

    Per gli schiavi, gli anni erano gamberi e le stagioni camminavano all’indietro. Ogni giorno coincideva col più vago e tiepido dejà vu; un'assenza da sé stessi alimentata e giustificata da quella che anticamente era stata nientemeno che cieca devozione alla potenza degli apparati.

    Ciascuno era prigioniero, e nessuno lo immaginava. Tutti erano uomini e nessuno lo poteva dimostrare. Niente aveva importanza perché niente era conosciuto.

    Appartenevano ai Senex, tuttavia. E certamente sui loro volti perduravano i pallidi riflessi del vasto e primitivo codice genetico degli avoli; i Sapiens. Qualsiasi rimando alla verità antropologica dei progenitori, però, era saltato. Frammenti essenziali dell'antico linguaggio erano andati perduti. Sbadigliava l'abisso nei loro crani. Un ponte fratturato fra una sinapsi e l'altra. Un cosmo cerebrale alla deriva in galassie senza lampi. E così essi dormivano e insieme non-dormivano ogni giorno di ogni mese, e di un’ancora più leggera pesantezza vagheggiavano la notte piovosa di ogni anno sottratto.

    Alla paradossale civiltà dei finti eguali, e cioè agli schiavi, veniva concesso un magnifico, bianco sonno senza sogni. Nessuna scelta radicale, nessun confronto, nessuno sguardo. Solo lavoro. Solo iper-sonni e processualità fine a sé stesse. Veglie mancate di un soffio e memorie candide come lune di mondi inesplorati.

    Il potere spettava agli apparati, meglio noti come Leviatani, giganteschi robot dalle corazze lucide come scudi.

    Instancabili stacanovisti, i Leviatani producevano e consumavano. Forse, cominciavano persino a sintetizzare un embrionale istinto di sopravvivenza. Il ciclo economico della vita era interamente sotto la loro giurisdizione: ogni suono era un’equazione operabile, ogni forma un teorema dimostrabile, ogni sensazione un grafico di variabili; e se non lo fosse stato, per forza di cose lo sarebbe diventato.

    A nessun individuo era più richiesto né di dubitare né di credere. Bastava che fornisse energia, senza sforzo alcuno. Ovunque era pace per sensi estinti. Una delizia senza spessore.

    Da quanto tempo? Impossibile fissare una data. L’ultimo calendario era andato perduto ormai da molte lune; scomparso probabilmente ben prima che l’ultima umanità

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1