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L’espansione della coscienza: La visione transpersonale
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E-book525 pagine6 ore

L’espansione della coscienza: La visione transpersonale

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Info su questo ebook

I cinquanta saggi che costituiscono questo lavoro sono stati scritti dai più noti autori nel campo della psicologia transpersonale. Fra gli altri contributi vi sono quelli di Ken Wilber, Charles Tart, Daniel Goleman e Stanislav Grof. Questo testo offre una visione ampia e completa delle molte dimensioni dell’esperienza umana, trattando argomenti come la crescita interiore, la psicoterapia, la meditazione, i sogni, l’etica, la filosofia e l’ecologia.
LinguaItaliano
Data di uscita1 feb 2016
ISBN9788871834191
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    L’espansione della coscienza - R. Walsh

    Parte Prima

    LE VARIETÀ DELL’ESPERIENZA TRANSPERSONALE

    SEZIONE PRIMA

    L’ENIGMA DELLA COSCIENZA

    Nella storia della collettività, così come in quella dell’individuo, tutto dipende dallo sviluppo della coscienza.

    Carl Jung(1)

    Lo studio della coscienza e dei suoi stati alternativi è centrale in psicologia transpersonale. Ciononostante, la discussione sulla natura della coscienza non si è ancora sviluppata in misura sufficiente. Questa carenza di dibattito riguarda tutta la psicologia che, sotto l’egemonia del comportamentismo e della ricerca di oggettività, ha relegato la coscienza alla posizione di argomento troppo controverso per essere discusso. Sebbene durante gli anni ’80 del secolo scorso vi sia stata una parziale riabilitazione della coscienza, continua a regnare una certa confusione sulla sua natura, sulla sua importanza o addirittura sulla sua stessa esistenza, per non parlare dei mezzi migliori per studiarla.(2)

    Questa confusione in campo psicologico rispecchia secoli di analoga confusione nel campo della filosofia. Del resto, la natura della coscienza è una delle tematiche filosofiche allo stesso tempo più fondamentali e più difficili. Ad un estremo vi è la posizione che considera la coscienza come un’entità del tutto fittizia, una non-entità, per dirla con William James. All’estremo opposto, vi sono coloro che celebrano la coscienza come il substrato fondamentale della realtà (posizione filosofica, quest’ultima, nota come idealismo assoluto). La coscienza è stata anche concettualizzata come un mero epifenomeno della materia (materialismo) o come un aspetto di una realtà più fondamentale che non è né mentale né fisica, ma che può evidenziare qualità di entrambe (teoria dell’aspetto duale, o monismo neutrale). Vi è anche stato chi la riteneva una sorta di malattia della vita (Nietzsche) o chi la considerava la fonte di un’infinita beatitudine, il Sat-Chit-Ananda (Essere-coscienza-Beatitudine) del Vedanta. Desta quindi poca meraviglia il fatto che al momento attuale non vi è ancora alcuna valida teoria della coscienza. Non vi è neppure accordo su quali caratteristiche questa teoria della coscienza dovrebbe avere.(3)

    Secondo la maggior parte delle scuole di psicologia, la coscienza è un epifenomeno difficile da investigare con il metodo scientifico, mentre secondo buona parte della filosofia occidentale essa è un rompicapo che sfugge ad ogni esame razionale. In qualche modo, la coscienza sembra scivolare attraverso la ricerca scientifica e l’analisi concettuale così come l’acqua scorre attraverso le maglie di una rete.

    Dal punto di vista delle tradizioni filosofiche e religiose orientali e di alcune di quelle occidentali, questo fatto non appare sorprendente. Se da un lato la maggior parte della psicologia dell’Occidente ritiene che la coscienza sia una proprietà o un prodotto della mente e del cervello individuali, le tradizioni appena citate sostengono che la coscienza è un aspetto dell’Assoluto, o Atman-Brahman, Dio, Vuoto o Mente superiore. Secondo queste tradizioni, il nostro abituale stato mentale è caratterizzato dal fatto di essere confuso, illusorio, simile a un sogno o ad una condizione di trance. In questo stato, riteniamo che la psiche individuale sia la fonte della coscienza piuttosto che una componente di essa. Significative a questo proposito sono le parole di Patanjali, che ha compilato un classico testo sullo yoga:

    La mente non risplende di luce propria.

    Anch’essa è un oggetto, illuminato dal Sé…

    Ma il Sé non ha confini.

    È la Coscienza pura che illumina i contenuti della mente…

    L’egoismo, il senso limitante dell’Io,

    è il risultato dell’azione dell’intelletto individuale

    che attribuisce a se stesso il potere della coscienza.(4)

    In quest’ottica, la coscienza non è personale ma transpersonale, non è mentale ma trans-mentale. Infatti, in quanto espressione dell’Assoluto, si pone al di là dello spazio, del tempo, delle qualità, dei concetti e delle categorie e di altri limiti di ogni sorta; la natura ultima della coscienza viene considerata inconoscibile. Lo stesso tentativo di descrivere questa realtà si dimostra un paradosso a causa del quale, come ha osservato Kant, anche l’affermazione opposta ad una proposizione apparentemente valida, appare a sua volta valida. Circa quindici secoli prima di Kant, Nagarjuna – il fondatore del Buddismo Madhyamaka – pervenne virtualmente alla stessa conclusione, una conclusione riecheggiata e sviluppata nelle generazioni successive da ogni principale scuola di filosofia e psicologia dell’Oriente: la Ragione non può cogliere l’essenza della realtà assoluta, e quando prova a fare ciò, genera solamente delle incompatibilità dualistiche.(5)

    Da questo punto di vista, quindi, non è sorprendente che la maggior parte delle scuole filosofiche, psicologiche e scientifiche dell’Occidente non siano riuscite a cogliere la vera natura della coscienza. Del resto, detto con le parole del Terzo Patriarca Zen:

    Andare alla ricerca della Mente

    utilizzando la mente (discriminante)

    è il più grande di tutti gli errori…

    Quanto più se ne discorre,

    tanto più ci si allontana dalla verità.(6)

    Questa trappola, utilizzando il linguaggio contemporaneo, può essere definita un errore di categoria. In altre parole, essa dipende dal fatto di utilizzare quelli che San Bonaventura chiamava occhio della carne (percezione sensibile), e occhio della mente (la logica e la speculazione filosofica), oppure una loro combinazione (la scienza) per osservare ciò che può essere visto solo attraverso l’occhio della contemplazione.(5) Le tradizioni asiatiche concordano con San Bonaventura. La coscienza non può essere percepita attraverso i sensi o concepita attraverso la mente. Può essere colta solamente attraverso l’intuizione diretta. Grazie all’intuizione diretta della coscienza nel dominio transmentale è possibile sviluppare quella saggezza (Prajna) che permette di superare la visione distorta della coscienza, del Sé e del mondo.

    Il modo per correggere questa visione distorta è, ovviamente, quello di modificare il proprio stato mentale. Ecco perché gli sforzi tesi ad alterare l’esperienza stessa della coscienza suscitano tanto interesse. Una ricerca inter-culturale ha evidenziato che almeno il 90% delle società plurisecolari hanno istituzionalizzato uno o più stati modificati di coscienza.(7) Gli individui appartenenti alle comunità tradizionali concepiscono quasi sempre questi stati modificati come condizioni sacre. Andrew Weil ha concluso che il desiderio di alterare periodicamente la coscienza è una normale motivazione innata analoga al bisogno di cibo o alla pulsione sessuale.(8)

    Va detto che dalla prospettiva che considera la coscienza come immutabile e priva di proprietà, l’idea di poter variare il suo stato non ha alcun senso. Ciò che effettivamente viene modificato è lo stato della mente. La maggior parte degli psicologi occidentali, tuttavia, opera a partire dall’assunto implicito che la coscienza sia una funzione della mente individuale: parlano, di conseguenza, di stati di coscienza. Dato che questa espressione è molto comune in letteratura, continueremo ad adottarla anche in questa sede.

    Uno dei malintesi più comuni a riguardo degli stati modificati di coscienza (ASC: Altered States of Consciousness) indotti da pratiche quali la meditazione o lo yoga è quello secondo cui essi sono più o meno equivalenti tra di loro. Questo malinteso è frutto della nostra ignoranza a proposito dell’ampio spettro di tutti gli ASC possibili. Ad esempio, le varietà di ASC conosciute comprendono stati di alta concentrazione quali il samadhi dello yoga o il jhanas del Buddismo. In questi stati, in cui si raggiunge la coscienza del testimone, si perviene ad un tale stato di equanimità che gli stimoli hanno un effetto minimo sull’osservatore. In altri tipi di ASC ci si concentra su stimoli interiori estremamente sottili, quali i deboli suoni interiori dello shabd yoga. Alcune pratiche conducono a stati unitivi nei quali il senso di separazione tra il sé e il mondo si dissolve, come nel satori dello zen. Si conoscono altri stati in cui tutti gli oggetti o i fenomeni scompaiono, come nel nirvana del Buddismo o nel nirvikalpa samadhi del Vedanta. In altri stati ancora, i fenomeni vengono percepiti come espressioni o modificazioni della coscienza, come nel sahaj samadhi.(9) (10)

    Fino a non molto tempo fa molti di questi stati venivano considerati patologici. Ciò avveniva per diversi motivi. In Occidente si riconosceva tradizionalmente solo un numero limitato di stati di coscienza – come la veglia, il sonno e il sogno – e prevaleva la tendenza a negare o patologizzare i rimanenti. Un caso estremo è quello di alcuni medici che, testimoni di un intervento in cui il chirurgo aveva amputato una gamba ad un paziente sotto ipnosi, senza che questi apparentemente sentisse alcun dolore, conclusero che il paziente fosse un imbroglione, pagato per far finta di non sentire nulla. Come ha commentato lo psicologo Charles Tart, a quei tempi dovevano avere a disposizione un gran numero di furfanti.(11) Questo episodio è espressione della tendenza, prevalente in psichiatria clinica e in antropologia, a patologizzare le esperienze insolite, in special modo quelle vissute da individui appartenenti ad altre culture, e a sostenere che il nostro stato ordinario di coscienza sia quello ottimale.

    La maggior parte dei ricercatori ha un’esperienza diretta molto limitata degli stati modificati che studiano. Tuttavia le descrizioni classiche, le argomentazioni psicologiche e filosofiche e i resoconti personali di studiosi occidentali ben preparati,(11)(12) suggeriscono che può essere difficile comprendere gli stati modificati di coscienza senza farne esperienza diretta. Di fatto, tali esperienze possono radicalmente alterare la visione del mondo di un individuo, tanto è vero che è molto probabile che coloro che le hanno vissute comincino a considerare la coscienza come il costituente principale della realtà.(2)

    Così, di recente, le valutazioni accademiche degli studiosi occidentali sugli stati modificati di coscienza prodotti da discipline di tipo meditativo e yogico sono andate incontro ad una profonda revisione. Diverse centinaia di studi attestano oggi i potenziali benefici loro connessi. Di fatto, storicamente, il traguardo dell’unione mistica era ritenuto essere il summus bonum, il bene supremo, la più alta aspirazione dell’esperienza umana.

    L’esistenza di un’ampia gamma di stati di coscienza suscita quattro domande chiave: (1) Quali stati sono benefici e trasformativi, e quali sono invece pericolosi e distruttivi? (2) In che modo possiamo potenziare gli stati salutari e trasformare quelli distruttivi? Questi due quesiti saranno discussi nelle sezioni successive di questo libro. (3) Come possiamo identificare, caratterizzare, mappare e confrontare i vari singoli stati? (4) Come possiamo sviluppare un quadro di riferimento generale o una teoria che renda conto dell’intero spettro della coscienza e della collocazione di ogni singolo stato al suo interno? Queste ultime due domande saranno l’oggetto delle analisi che seguono.

    In Psicologia, Realtà e coscienza Daniel Goleman sottolinea che la psicologia occidentale è solo una delle molteplici psicologie disponibili, alcune delle quali esistono addirittura da millenni. Ciascuna di queste scienze della psiche, e ciascuna delle culture cui appartengono, produce una particolare visione del mondo e codifica l’esperienza secondo specifiche modalità. Goleman suggerisce che la psicologia e la cultura occidentale si siano concentrate quasi esclusivamente su di un singolo stato, ovvero quello abituale della condizione di veglia. Quest’ottica ci ha fatto rimanere in una condizione di incompetenza e sospetto nei confronti dell’insieme degli stati modificati e delle modalità per poterli indurre.

    Per fare un confronto, molte psicologie e culture orientali sono del tipo multistato. Esse attribuiscono valore agli stati modificati e hanno sviluppato delle tecniche sofisticate per raggiungerli, e delle mappe concettuali atte a descriverli. Goleman conclude che un’integrazione di tutte queste differenti psicologie può arricchire sia le scuole occidentali che quelle orientali.

    In Psicologia Perenne, Ken Wilber sottolinea che lungo tutto il corso della storia, una filosofia e una psicologia perenni hanno descritto i molti stati di coscienza che sono disposti lungo un ampio spettro. Differenti psicologie e terapie si riferiscono a livelli differenti di questo spettro e possono perciò essere ritenute complementari piuttosto che opposte le une alle altre. Ciascun livello è associato ad esperienze specifiche e a specifici sensi di identità, spaziando dall’identità drasticamente ristretta associata alla coscienza egoica fino a quella che è conosciuta come Identità Suprema o Coscienza Cosmica, e che è stata considerata sia la fonte, sia il traguardo finale delle più grandi religioni.

    Charles Tart propone uno strumento di grande valore per la comprensione degli stati di coscienza; si tratta dell’Approccio sistemico alla coscienza. Con esso egli mette in luce il fatto che uno stato di coscienza è un sistema complesso costituito da componenti quali l’attenzione, la consapevolezza, l’identità e la fisiologia. Differenti configurazioni dinamiche di queste istanze determinano stati distinti, e le tecniche per alterare la coscienza modulano queste configurazioni modificandone una o più componenti.

    In Mappatura e confronto degli stati, Rogers Walsh risponde a due interrogativi che sono stati causa di perplessità tra i ricercatori occidentali, da quando essi si sono resi conto che le pratiche contemplative producono stati alterati di coscienza: (1) gli stati indotti mediante tecniche differenti sono tra essi identici oppure diversi? (2) Si tratta di stati patologici e regressivi oppure sani e trascendenti? Il dibattito è rimasto aperto fino al giorno d’oggi, in quanto non si dispone ancora di metodi per descrivere e paragonare con precisione i diversi stati di coscienza. Walsh raffronta gli stati che vengono prodotti nello sciamanismo, nel buddismo e nello yoga con quelli che si verificano in una condizione di schizofrenia acuta, e mostra in che modo essi differiscano significativamente in relazione a determinate dimensioni-chiave dell’esperienza.

    1

    PSICOLOGIA, REALTÀ E COSCIENZA

    Daniel Goleman

    I tentativi di elaborare una comprensione sistematica e completa del comportamento umano non sono certamente iniziati con la psicologia occidentale contemporanea. La nostra psicologia, in quanto tale, è giunta a circa un secolo di età, e rappresenta quindi una versione recente di un’impresa vecchia probabilmente quanto la storia dell’umanità. Questa scienza è anche il prodotto della cultura, della società e della tradizione intellettuale europea e americana, e in questo senso è solo una delle innumerevoli psicologie (nonostante essa sia per noi di gran lunga la più accessibile e familiare) che sono state declinate come parti esplicite o implicite del tessuto della realtà di ogni cultura, presente o passata. Se ci prefissiamo di pervenire alla più completa comprensione possibile della psiche umana, spetta a noi rivolgerci anche a sistemi di psicologia diversi dai nostri, senza considerarli delle semplici curiosità da studiare a partire da una prospettiva privilegiata, ma come lenti alternative attraverso le quali possono esserci concesse visioni e intuizioni che i nostri punti di vista psicologici potrebbero trascurare. È possibile, così facendo, incontrare punti di vista irrilevanti per la nostra particolare situazione, ma può anche capitare di incontrarne altri di estremo valore.

    I membri di qualsiasi cultura, osserva Dorothy Lee (1950) codificano l’esperienza in termini di categorie specifiche del loro sistema linguistico, cogliendo la realtà solo nella sua rappresentazione codificata. Ciascuna cultura tratteggia e categorizza l’esperienza secondo modalità proprie. L’antropologia riconosce che lo studio di codici differenti dal nostro può portarci ad incontrare aspetti e concetti della realtà dai quali la nostra particolare prospettiva di osservazione del mondo ci esclude. Una maggiore apertura da parte della psicologia contemporanea è un requisito indispensabile per raggiungere quella saggezza e quelle intuizioni sulla coscienza che sono patrimonio delle psicologie più tradizionali. Ogni cultura particolare dispone di uno specifico vocabolario, che fa riferimento a quelle che sono le aree dell’esperienza più salienti per il suo modo di fare esperienza del mondo. Alla luce di quanto appena detto, è interessante notare che il vocabolario tecnico di cui la nostra cultura dispone per descrivere le esperienze interiori, è una nosologia estremamente dettagliata della psicopatologia, mentre le culture asiatiche, come quella indiana, dispongono di vocabolari egualmente dettagliati per la descrizione degli stati modificati di coscienza e degli stadi dello sviluppo spirituale.

    LaBarre (1947) rileva che l’espressione esteriore delle emozioni da parte degli uomini vari profondamente da cultura a cultura, anche in riferimento ad espressioni quali il ridere e il piangere che vengono generalmente ritenute biologicamente determinate. Lo stesso fenomeno si verifica nell’ambito dell’esperienza e della comunicazione dei vari livelli di consapevolezza; la cultura plasma la consapevolezza in modo da vedere rispettate determinate norme, limita i tipi di esperienza o le categorie di esperienza disponibili all’individuo, determina l’appropriatezza o accettabilità di ogni determinato livello di consapevolezza e la sua comunicazione nel contesto sociale.

    La nostra realtà culturale è stato-specifica. Nella misura in cui la realtà è una concezione validata da un consenso generale, per quanto arbitrario, gli stati di coscienza modificati possono essere considerati stati abnormi e anti-sociali. Questo timore per l’imprevedibile può essere una delle principali motivazioni alla base, nella nostra cultura, della repressione dei metodi per l’induzione degli stati modificati – ad esempio, le sostanze psichedeliche – e del più generale atteggiamento di sospetto nei confronti di tecniche quali la meditazione.

    Mentre da un lato il sistema di valori che ci ha portato ad enfatizzare lo stato di veglia ordinario a scapito di tutti gli altri (ad eccezione dell’intossicazione da alcol) si è dimostrato funzionale in termini di crescita economica, dall’altro, ci ha reso una comunità relativamente poco competente e sofisticata in termini di stati alterati di coscienza (ASC). Altre culture, più tradizionali e primitive, per quanto materialmente meno produttive della nostra, sanno affrontare molto meglio di noi le complessità della coscienza. Alcune di queste culture insegnano specificamente ai loro membri come alterare la coscienza, e molte di esse hanno elaborato e perfezionato tecnologie atte a raggiungere questo fine – ad esempio, i Boscimani imparano ad entrare in trance attraverso la danza, e a usare questo stato di trance a fini terapeutici (Katz, 1973).

    Gli insegnamenti religiosi dell’Oriente contengono teorie psicologiche, proprio come le nostre psicologie riflettono concezioni cosmologiche. Nel contesto delle loro specifiche prospettive cosmologiche, queste psicologie tradizionali orientali sono equiparabili alla nostra per quanto riguarda la loro adeguatezza empirica, se con il termine empirico non ci si riferisce ai canoni procedurali della scienza empirica, quanto piuttosto a schemi interpretativi applicabili alla vita di tutti i giorni. Berger e Luckmann (1967, p. 178) osservano:

    Nella misura in cui le teorie psicologiche sono elementi della definizione sociale della realtà, la loro capacità di generare la realtà è una caratteristica condivisa con altre legittime teorie… Se una psicologia si afferma a livello sociale, (viene cioè riconosciuta come un’adeguata interpretazione della realtà oggettiva), contribuisce necessariamente a creare quegli stessi fenomeni che pretende di interpretare… le psicologie generano quella stessa realtà che poi utilizzano come base della propria conferma.

    Il dominio di molte psicologie tradizionali abbraccia il familiare territorio dell’abituale stato di veglia, ma si estende anche a stati di coscienza che solo recentemente l’Occidente ha imparato a conoscere (e l’esistenza dei quali può ancora rappresentare un mistero per molti psicologi e laici occidentali che non ne hanno mai sentito parlare o fatto esperienza). I modelli di psicologia contemporanea, ad esempio, ignorano quella modalità dell’essere che costituisce la premessa essenziale – il summus bonus – di tutti i sistemi psico-spirituali orientali. Per quella che, a seconda della terminologia, viene definita illuminazione, buddità, liberazione, stato di risveglio e così via, semplicemente non vi è categoria equivalente nella psicologia contemporanea.(1) I paradigmi delle psicologie tradizionali dell’Asia, invece, sono in grado di includere sia le principali categorie della psicologia contemporanea quanto la modalità alternativa di coscienza appena citata.

    Freud riteneva che non vi fosse alcuna soluzione per il problema della sofferenza umana, se non quella di imparare a sopportarla. La psicologia buddista ci offre invece un’alternativa: modificando il processo della coscienza ordinaria si può porre fine alla sofferenza. Lo stato di coscienza che trascende tutti i domini ordinari dell’essere è il Regno della buddità. In questo regno si può entrare trasformando la coscienza ordinaria, principalmente mediante la meditazione. Una volta raggiunta, la buddità si caratterizza per l’estinzione di tutti quegli stati – ansia, dipendenza, orgoglio – che affliggono i piani ordinari dell’esistenza. Essa rappresenta un’integrazione di ordine superiore a qualunque schema dello sviluppo suggerito dalla psicologia contemporanea.

    Ciò che suscita particolare interesse nel modello buddista dello sviluppo, è che esso non solo espande le strutture concettuali della prospettiva psicologica contemporanea a proposito di ciò che è possibile, ma fornisce anche dettagli sui mezzi attraverso cui si può perseguire un tale cambiamento, in particolare sulla meditazione. Questa viene intesa come una manipolazione dell’attenzione in grado di produrre uno stato modificato di coscienza che, grazie ad un addestramento appropriato, può divenire una caratteristica permanente del proprio essere. Una tale modificazione duratura della struttura e del processo della coscienza, a tal punto, cessa di essere uno stato modificato della coscienza (ASC), per diventare un tratto alterato della coscienza, un ATC (Altered Trait of Consciousness), nel quale gli attributi di un ASC sono assimilati in uno stato ordinario di coscienza.

    Sebbene le psicologie tradizionali e contemporanee possano parzialmente sovrapporsi – ad esempio per quanto riguarda l’interesse nei processi dell’attenzione, o nel tentativo di comprendere la natura ineluttabile della sofferenza umana – ciascuna di esse esplora anche in modo approfondito territori e tecniche che le altre ignorano o di cui si occupano marginalmente. Il pensiero psicanalitico, ad esempio, ha studiato importanti aspetti di quel fenomeno che in Oriente viene definito karma, e lo ha fatto in modo molto più dettagliato e complesso di quanto non abbiano fatto le scuole psicologiche orientali. D’altro canto, le tradizioni orientali hanno sviluppato un insieme di tecniche per modificare volontariamente la coscienza e per stabilizzarla in un tratto alterato di coscienza (ATC), producendo così una tecnologia per affrontare realtà che si trovano al di là della mente così come viene concettualizzata nella psicologia contemporanea o sperimentata nel nostro usuale stato di veglia.

    Nella misura in cui la biografia è la progenitrice della psicologia, queste differenze paradigmatiche tra la psicologia tradizionale orientale e quella contemporanea occidentale riflettono esperienze differenti dell’essere-nel-mondo. Il pensiero psicanalitico, per esempio, attribuisce una posizione di primo piano al concetto di esame di realtà che, tenendo conto della relatività degli stati di coscienza, dipende dallo stato di coscienza in cui ci si trova. Il limite del punto di vista occidentale è di identificare la realtà con il mondo così come è percepito nello stato di coscienza di veglia, negando in questo modo l’esistenza della realtà percepita negli stati modificati di coscienza. Il limite complementare della visione orientale è di concepire la realtà come totalmente diversa da quella percepita nello stato ordinario di veglia, relegando il mondo fisico ad una condizione d’illusorietà.

    Come sempre accade nel corso dell’evoluzione della scienza, lo sforzo di risolvere gli apparenti conflitti fra le concezioni, i paradigmi e le visioni delle psicologie orientali ed occidentali, potrà produrre soluzioni di ordine superiore, in grado di offrire una comprensione degli stati di coscienza e delle realtà stato-dipendenti allo stesso tempo più comprensiva e più solida rispetto a quella attuale. La chiave per un progressivo sviluppo verso una più ampia comprensione psicologica, è il riconoscimento, come affermò William James, che c’è sempre qualcosa di più …

    2

    PSICOLOGIA PERENNE: LO SPETTRO DELLA COSCIENZA

    Ken Wilber

    Negli ultimi decenni il mondo occidentale è stato testimone di quell’esplosione di interesse tra gli psicologi, teologi, scienziati e anche filosofi che ha portato Huxley (1970) a coniare il termine di Filosofia Perenne. Con questo termine si fa riferimento a una dottrina universale che si occupa della natura del genere umano e della sottostante realtà, temi che costituiscono il cuore di ogni maggiore tradizione metafisica. Ciò che spesso si trascura, tuttavia, è che, parallelamente alla filosofia perenne, esiste anche quella che definirei psicologia perenne – una visione universale della natura della coscienza umana, che contiene intuizioni analoghe a quelle della filosofia perenne, per quanto espresse in un linguaggio più specificamente psicologico. Scopo di questo saggio – oltre che presentare i principi fondamentali della psicologia perenne – è quello di delineare un modello di coscienza che sia fedele allo spirito della dottrina universale, ma tenga anche nella dovuta considerazione le intuizioni di discipline tipicamente occidentali quali la psicologia dell’Io, la psicanalisi, la psicologia umanistica, l’analisi junghiana, la psicologia interpersonale e altre ancora.

    Al cuore di questo modello, che potremmo chiamare Spettro della Coscienza, vi è l’assunto che la personalità umana è la manifestazione multidimensionale di una Coscienza unica, proprio come in fisica lo spettro elettro-magnetico è considerato una manifestazione su molteplici bande di una singola energia elettro-magnetica. Più specificamente, lo Spettro della Coscienza è un approccio multidimensionale all’identità umana; in altre parole, ogni livello dello Spettro è caratterizzato da un particolare senso di identità facilmente riconoscibile, che dall’Identità Suprema della coscienza cosmica, attraverso diverse gradazioni o bande, giunge fino al senso di identità drasticamente ristretto associato alla coscienza egoica. Di questi numerosi livelli o bande della coscienza, ho selezionati i principali cinque per discuterli in connessione con la psicologia perenne (vedi Fig.1).

    I LIVELLI DELLO SPETTRO

    Il livello della Mente

    La tesi centrale della psicologia perenne è che, in profondità, la nostra coscienza è essenzialmente identica alla realtà assoluta e ultima dell’universo, che viene in vari modi indicata con in nomi di Brahman, Tao, Dharmakaya, Allah, Mente di Dio – solo per citare alcune definizioni – e che, per ragioni di convenienza, chiamerò semplicemente Mente (con la M maiuscola per distinguerla dalla pluralità manifesta di tutte le menti particolari). In accordo con questa tradizione universale, la Mente comprende tutto ciò che è, ed è pertanto illimitata nello spazio e nel tempo, eterna; nulla esiste al di fuori di essa.

    Su questo livello, siamo una cosa sola con l’universo, con il Tutto o – piuttosto – noi stessi siamo il Tutto. Secondo la psicologia perenne, questo livello non è un normale stato di coscienza, e nemmeno uno stato modificato di coscienza, quanto piuttosto l’unico reale stato di coscienza, a fronte del quale tutti gli altri non sono che illusioni. In breve, il nostro stato di coscienza più profondo – chiamato a seconda delle culture: Atman, Cristo, Tathagatagarbha, è identico alla realtà ultima dell’Universo. Questo piano è appunto il Livello della Mente, della Coscienza Cosmica, della Suprema Identità dell’Uomo.

    Le bande transpersonali

    Queste bande rappresentano la porzione dello Spettro che si trova oltre i limiti dell’individuo, un luogo in cui non si è più consci della propria identità come separata dal Tutto, e l’identità stessa non è confinata entro i limiti dell’organismo individuale. È su queste bande che si evidenziano gli archetipi. Nel Buddismo Mahayana (Suzuki, 1968), queste bande sono riconosciute nel loro complesso come la coscienza depositaria del livello ultra-individuale; mentre, nell’Induismo (Deutsch, 1969), esse vengono definite karana-sairia o "corpo

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