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End Street Band
End Street Band
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E-book567 pagine8 ore

End Street Band

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Info su questo ebook

Un anziano signore racconta alle sue nipotine la storia della sua vita da quando, ragazzo, con alcuni coetanei ha fondato la End Street Band, un gruppo rock che ha la sua base in una vecchia casa di campagna, la “ciabotta”. Il narratore si identifica con Mark Knopfler, soprannominato qui Vex, storico chitarrista dei Dire Straits, così come meritano di essere nominati i membri della sua band: Adam Clayton, Kurt Cobain, Angus Young, Mike Portnoy, David Gilmour, Eddie Vedder. E non solo. Perché nello stesso universo spazio-temporale David Bowie gestisce un pub, Faber e Ivan Graziani bussano alla porta una mattina, si incontra Jeff Buckley in riva ad un fiume e Bruce Springsteen ti ingaggia per un tour negli Stati Uniti.
Ma sarà poi tutto realmente così come raccontato? O la narrazione della storia della End Street Band è solo il frutto di una mente in cui tutto il meglio della musica tra gli anni ’80 e ’90 si mescola indistintamente, si fonde in un viaggio tra realtà e fantasia e il protagonista rivive i ricordi a modo suo? E dire che i riferimenti concreti non mancano. Solo leggendo fino in fondo il quadro apparirà chiaro, solo vivendo tre decadi insieme a Vex, Simo, Fax, Bebe, Mimmo, Didi e Holland si potrà finalmente dire cosa è vero e cosa si vorrebbe che lo fosse.
LinguaItaliano
Data di uscita21 set 2018
ISBN9788866904489
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    Anteprima del libro

    End Street Band - Stefano Pavesio

    loro.

    PRIMA DECADE (15 – 25 years old)

    Just a perfect day

    You made me forget myself

    I thought I was someone else

    Someone good

    (Lou Reed)

    MARK/VEX/KNOPFLER

    You can check out any time you like

    But you can never leave

    (Eagles)

    «Quand’è che ci racconti quella storia della chitarra?»

    Sono lì davanti a me, due bellissime bambine, hanno 9 e 13 anni, se non ricordo male. Talvolta la memoria mi inganna, lo so, ma il fatto che la memoria mi inganni fa sì che spesso io non ricordi che lo fa. Sembra un paradosso, eh? È che la memoria è astuta, ti raggira come vuole, ti presenta i suoi ricordi e te li rende piacevoli o commoventi o disgustosi a seconda di come le gira in quel momento. E non ti resta che adeguarti, tanto più cerchi di ricordare i dettagli e più ti sfuggono, tanto vale lasciare che le immagini si creino da sé. E poi, in fin dei conti, se hanno più o meno 10 anni o più o meno 20 che differenza fa? Non sempre le persone sono quel che sono, il più delle volte sono come le vedi.

    Il punto qui è un altro: vogliono la storia. E non una storia qualunque, vogliono quella della chitarra. Il che implica che vogliono la storia della band, vale a dire che vogliono la mia storia. Colpa mia, d’altra parte gliel’ho promessa un sacco di volte, sono le mie nipotine, quando vengono a trovarmi illuminano la mia vita, non posso certo deluderle. E se poi non tornassero più? Se si stancassero delle mie false promesse? Finora l’idea della storia ha funzionato, ha fatto in modo che tornassero, la curiosità è come una droga, specie per i bimbi. E se una volta raccontata non fosse di loro gradimento? Oppure peggio, se una volta nota non avessero più alcun motivo per tornare a farmi visita? Non so se riuscirei a sopportarlo. E c’è un’altra cosa: non so se sono in grado di raccontarla senza piangere. Come dicevo i ricordi sono una bestia grama, un po’ come le emozioni. E a me non piace piangere, soprattutto di fronte ad altre persone.

    Solo che per raccontare devo prima ricordare.

    E i ricordi, pensateci bene, sono sempre brutti. Perché se il ricordo è inerente a qualcosa di spiacevole, allora è ovvio che è un brutto ricordo. Ma se il ricordo ha a che fare con qualcosa di piacevole è comunque un brutto ricordo, perché sai che quel piacere appartiene al passato e non tornerà più. Un’amnesia totale non sarebbe poi un’idea così sbagliata, non vi pare?

    Sì, lo so, qualcuno dirà che senza i nostri ricordi non siamo nulla, sarebbe come essere senza storia. Come puoi ogni giorno svegliarti e non ricordare nulla? Il tuo nome, le parole che hai imparato, gli amici, gli affetti, le poesie, la strada verso casa, le canzoni. Inverosimile. Certo. Resta però il fatto che i ricordi, quasi sempre, fanno male.

    Le canzoni. Già, le canzoni. E la chitarra con cui le ho scritte. E tutti gli altri, quelli della band.

    Eccola qui la storia, La Storia. Quella che vogliono sentire. Quella che ho promesso loro e che non so se ho il coraggio di raccontare.

    «Allora, nonno?» incalza Alanis, la più piccina, capelli neri e carattere indomito. Argento vivo.

    «Sì, dai, ce l’hai promesso che oggi l’avresti fatto. Ce lo prometti sempre, ma oggi non puoi più tirarti indietro» dice Dolores, la più grande, con i suoi capelli rossi e le sue tenerissime efelidi. Lei è più posata, più riflessiva, ma non concede tregua.

    Mi limito a osservarle attraverso i miei occhi stanchi e innamorati, sono splendide. Sono il frutto della mia autodistruzione, ma le adoro, vedendole lì davanti a me non nutro remora alcuna per i miei errori, poteva andare diversamente, potevo essere in un luogo migliore oggi o comunque stare meglio, ma il passato non si disfa, ogni scelta genera le sue figlie, bisogna accettarlo. E se il risultato dei miei errori sono quelle due splendide creature, allora sono lieto di aver sbagliato.

    «Va bene Alanis, andiamocene, tanto vedi che ci prende in giro, come sempre» dice a un tratto Dolores alzandosi e prendendo la sorellina per mano.

    «Sì e non torniamo più!» ribatte la piccola facendomi una linguaccia.

    Hanno l’aria seria. Per quanto giovani possano essere, sono assolutamente determinate. Le perderò. Non posso permettermelo.

    «Jurassic Strat» esclamo prima che raggiungano la porta.

    «Cosa?» domandano all’unisono arrestandosi con un piede sospeso e voltandosi.

    «Jurassic Strat» scandisco più lentamente guardandole negli occhi. «È il nome della mia chitarra, la più bella chitarra del mondo. Fender Stratocaster Sunburst del ’54.»

    Le due sorelline si guardano e sorridono complici, tornano sui loro passi e si siedono attendendo il prosieguo. Ormai è fatta, la diga ha ceduto e non c’è più modo di arginare la falla.

    Racconterò. Andrò a ritroso nel tempo, in un tempo lontano e distante, magico e radioso e oscuro e doloroso. Come solo la vita sa essere.

    Tornerò indietro, sì, come un salto nel buio, nel nero, son stato via troppo tempo, in fin dei conti son felice di tornare. Aveva ragione il mio amico, il mio maestro, proprio come l’ha scritta lui, back in black I’ve been too long I’m glad to be back.

    Le canzoni han sempre ragione, non puoi fregarle.

    ADAM/FAX/CLAYTON

    Bye bye baby it’s been a sweet love

    Thought this feeling I can’t change

    But please don’t take it so badly

    ’Cause Lord knows I’m to blame

    (Lynyrd Skynyrd)

    Da qualche parte bisogna pur cominciare. Non sono nato con la chitarra in mano, non sono mai stato un bambino prodigio, grazie al cielo. Solo un essere umano, come tanti altri. La passione è nata all’improvviso quando avevo circa 17 anni, in pieno liceo, quando nella mia classe si aggiunse un nuovo elemento. Il suo arrivo rimase per un po’ avvolto nel mistero così come le sue origini, nessuno lo aveva mai visto prima, parlava (poco) con un accento indefinito e si faceva gli affari suoi.

    Si chiamava Adam. Adam Clayton. Correva voce che avesse un doppio passaporto, uno europeo e uno, date le sue presunte origini natie, sudamericano, anche se la sua carnagione era assolutamente caucasica e i suoi occhi di un tenue azzurro. Di tutto ciò non m’importava minimamente, anche io tendevo a farmi gli affari miei ed ero tutto tranne che logorroico. Tendevo a stare in disparte, la penombra era il mio habitat naturale, e mi rifugiavo nella musica in ogni momento della giornata, ma non so perché non mi era mai venuto in mente di poter essere io a produrla quella musica, che peraltro consideravo un’ancora di salvezza.

    Forse pensavo di non esserne in grado, insicuro com’ero. O forse era pigrizia, imparare a maneggiare uno strumento, è cosa nota, richiede tempo e sacrifici. Inoltre a casa mia nessuno nutriva questa passione e strumenti disponibili non ce n’erano. Ma un giorno il nuovo compagno arrivò in classe con una custodia nera, una di quelle che non possono che contenere uno strumento musicale. Anche nella mia classe nessuno coltivava l’hobby della musica, pur essendo in molti a ritenersi esperti in materia dei più famosi gruppi musicali del momento. Non seppi resistere e gli chiesi di aprirla, ai miei occhi era come un forziere custode di inestimabili tesori. Occhi inesperti si sarebbero aspettati una chitarra elettrica, in un primo istante anch’io lo pensai, tuttavia era un po’ troppo lunga e, soprattutto, la chitarra non sarebbe stato esattamente lo strumento naturale che avrei visto tra le sue mani. Infatti era un basso. Elettrico e nero. Lucido e con le quattro corde che quasi brillavano, nuove di zecca.

    «Spettacolo!» esclamai.

    «Niente di che in realtà, però ho appena cambiato le corde, ho dovuto dar fondo ai miei risparmi» rispose. Quando mi disse quanto costavano le corde di un basso ci rimasi malissimo e realizzai che non sarebbe mai stato il mio strumento, troppo costoso da mantenere. Non me la passavo molto bene all’epoca. Aggiunse che comunque quelle corde, spesse com’erano, duravano un sacco di tempo. Tuttavia non sarei mai stato un bassista. Ma lui sì. Aveva tutto del bassista. Uno sguardo liquido e sfuggente, il fisico slanciato ed esile, il capello artisticamente disordinato, un pessimismo di fondo intriso di un’apparente strafottenza verso il mondo intero, le dita lunghe e nervose, la parlata dal volume basso e tranquilla, la totale assenza di ogni mania di protagonismo, tuttavia concreto ed efficace.

    «Tu suoni?» mi chiese.

    Provai vergogna e ammisi la triste verità con un silenzioso diniego. «Però mi piacerebbe» aggiunsi prontamente.

    «Cosa?»

    «Sarà banale, ma mi ha sempre affascinato la chitarra. Classica elettrica acustica non importa, possibilmente tutte. Trovo sia uno strumento completo, ritmico, armonico, solista, melodioso, può far tutto se il suonatore è all’altezza.»

    «Bella storia. Stiamo giusto cercando un chitarrista. Se vuoi ne abbiamo una elettrica da prestarti. Prendi qualche lezione, magari ci sei portato.» Non lo sapeva e non lo sapevo nemmeno io, ma ci aveva visto bene.

    In un attimo pensai: noi chi? Chi è che cerca un chitarrista e che potrebbe prestarmi una chitarra? Potrei davvero esserci portato? Dove trovo qualcuno bravo disposto ad insegnarmi?

    Penso che tutti questi interrogativi si siano materializzati sul mio volto donandogli strane espressioni, visto che lui aggiunse subito: «Vieni un pomeriggio in ciabotta, così conosci un po’ di gente fuori di testa e vedi la chitarra.»

    «Ciabotta?»

    Sorrise. «La nostra sala prove.»

    Mi disse dov’era e un tardo pomeriggio di un paio di settimane dopo ci andai sul serio in sella al mio inseparabile scooter nero. Appiccicai sul cruscotto una cartina fatta a mano secondo le sue indicazioni e la seguii con insperato successo.

    La ciabotta era un universo nuovo che in principio mi lasciò parecchio sorpreso. No, allibito rende meglio. Spaesato forse ancora di più. Ero un sognatore all’epoca, in verità lo sono ancora. Ma i sogni di allora erano puerili e innocenti. Fumo, alcool, insulti e bestemmie non rientravano nel mio galateo di bravo ragazzo timorato di dio e rispettoso delle leggi degli uomini. Così come la presenza di ragazze assolutamente disinibite e dai modi diretti, quasi brutali a volte. Ma mi ci abituai in fretta, la ciabotta divenne presto un luogo irrinunciabile. Ed è lì che tutto ebbe inizio.

    KURT/SIMO/COBAIN

    Hey you, you’re living life full throttle

    Hey you, pass me down that bottle

    (Alice in chains)

    Svoltai all’incrocio della provinciale che collegava Villanova con Francavilla verso le 15,00 in un giorno di inizio novembre e per poco non caddi rovinosamente a terra. Adam non aveva ritenuto opportuno dirmi che la strada per la ciabotta era sterrata e io non avevo ritenuto opportuno rallentare facendo la curva. Cominciamo bene, pensai. Rallentai e procedetti a passo d’uomo. Costeggiai alcune abitazioni sulla mia destra che assomigliavano molto più a delle cascine che a delle case, muri con intonaci cadenti o rigonfi oppure con mattoni a vista, anch’essi con tutti i segni del tempo sulle loro superfici e in gran parte privi della calce tra le intercapedini che li separavano e che apparivano ormai come solchi profondi. Sterrata e con una serie di profonde buche, più adatta a un Camel Trophy che a un uso civile. Sul lato sinistro invece si apriva un ampio panorama, la collina scendeva giù in valle con una pendenza dolce e sul fondo si intravedeva la ferrovia tra gli alberi spogliati dall’autunno. Lanciai un’occhiata alla sottospecie di mappa che avevo appiccicato sul cruscotto. Dovevo svoltare a destra seguendo il muro dell’ultimo edificio. La strada proseguiva oltre, da qui in avanti in discesa e si addentrava dentro un bosco sparendo pian piano alla vista. Mi fermai e notai che sull’ultimo muro c’era una targa in pietra con scolpito il nome della via. Peculiare: di solito si trovano all’inizio sulle prime case, qui invece era stata appesa all’ultima. La cosa mi piacque. Così come mi piacque constatare che era intestata a nientepopodimeno che Mendel, il noto frate agostiniano che, a ragion veduta, si può considerare a tutti gli effetti il primo genetista dell’umanità. Ho sempre apprezzato la scienza, in particolare quella votata allo studio degli esseri viventi. Il cancello a rete era aperto, completamente arrugginito e avvolto da rampicanti, con ogni probabilità non veniva chiuso da anni.

    Il cortile interno, anch’esso in terra battuta con qualche chiazza di erba selvatica e qualche isola di ghiaia, era il classico cortile da cascina, ampio e disordinato. C’erano un paio di bici appoggiate al muro e una vecchia Panda 30 amaranto messa di traverso.

    C’erano tre possibili porte da cui entrare, tutte chiuse in quel momento. Andai verso quella centrale in legno scrostato dove una vernice verde cercava disperatamente di resistere all’incedere del tempo e all’incuria, spinsi la maniglia e si aprì senza sforzi.

    Quattro teste si voltarono verso di me. Una apparteneva al mio compagno Adam, le altre tre ad illustri sconosciuti. O meglio, una l’avevo già vista più volte a scuola, in una sezione diversa dalla mia con cui non avevamo molti rapporti, così anche se di vista sapevo chi era a tutti gli effetti non potevo certo dire di conoscerlo, tuttavia era impossibile non notare quel ragazzo, capelli lunghi e ricci dal colore biondo ramato, una criniera fatta e completa, un bel viso e un paio di occhi azzurri come raramente se ne vedevano. Molte ragazze della scuola, forse quasi tutte, si sarebbero probabilmente fatte tagliare un dito per poterne essere la fidanzata ufficiale, ma sembrava che a lui proprio non importasse. Non importava nemmeno a me del suo credo in questioni sentimentali, ciò nonostante e, pur non conoscendolo, provavo una sorta di invidiosa ammirazione nei suoi confronti, avrei voluto io avere un ventaglio di scelta così ampia, io l’avrei davvero voluta una fidanzata ufficiale in quel periodo, ma le poche su cui avrei avuto gioco facile non destavano in me alcun interesse. Insomma, la solita vecchia storia. Lui era Kurt. Kurt Cobain, per essere precisi.

    Gli altri due invece proprio non sapevo chi fossero. Uno era basso e vagamente pingue con i capelli scuri di media lunghezza e dall’aspetto unto. L’altra era una ragazza dalla chioma corvina e dallo sguardo folle e famelico. In quel momento Kurt era seduto su un divano scassato di pelle marrone e lei era a cavalcioni su di lui. Forse era lei la spiegazione dell’apparente disinteresse di Kurt alle liceali. Il mio ingresso aveva sicuramente interrotto un loro bacio appassionato. Adam e l’altro ragazzo stavano bevendo qualcosa seduti a un tavolino poco più in là e nel mentre giocavano a carte. Anche sul divano c’era una bottiglia incastrata tra un cuscino e l’altro.

    «Ce l’hai fatta a trovare ’sto buco alla fine, bella storia. Lui è Vex.» Così disse Adam rivolgendosi al contempo a me e agli altri. Vex, mi chiamava così, anche se quasi tutti gli altri della mia classe mi chiamavano Vecio. Aveva modificato il mio soprannome da pochi giorni, da quando gli avevo scritto i miei auguri. Durante l’ora di filosofia aveva iniziato a circolare tra i banchi un foglio con su scritto Auguri di buon compleanno Adam, avevamo questa usanza. Chissà come c’era sempre qualcuno che conosceva le date di compleanno di tutti. Guardai fuori, pioveva e il vento strappava le residue foglie gialle agli alberi. Immaginai di vederlo lì fuori col suo strumento a tracolla e scrissi: l’autunno piange i suoi pensieri su capelli spettinati / l’acqua scivola sulle corde di un basso e gioca distratta creando nuove melodie e antiche dissonanze.

    Penso che gli piacque. Quando lo lesse mi indirizzò uno sguardo ammirato e annuì lievemente un paio di volte. Da allora mi promosse a Vex.

    Che il mio vero nome fosse Mark e il mio cognome Knopfler non interessava praticamente a nessuno.

    Dissi ciao e gli altri fecero eco.

    «Un capellone biondo ci mancava. Vuoi?» disse la ragazza fissandomi senza muoversi dal grembo di Kurt e porgendomi a distanza la bottiglia. Vodka.

    «No grazie, magari dopo» risposi senza specificare che ero praticamente astemio, qualcosa mi suggeriva di mantenere quel mio piccolo segreto per me. Anche la bottiglia sul tavolino era un alcolico, rum. Entrambe quasi vuote.

    «Anche perché è praticamente vuota! Cazzo offri bottiglie vuote? Sei proprio rincoglionita. Dai, levati dalle palle che vado a prendergli una birra.» Così si espresse Kurt spostando in malo modo la ragazza dalle sue gambe e quasi facendola cadere a terra mentre si alzava con un guizzo insospettabile per uno che si è appena scolato mezza bottiglia. Nemmeno in un universo parallelo avrei potuto rivolgermi così a una ragazza. Mi raggiunse e mi strinse la mano. «Io sono Kurt, ti ho già visto al liceo, benvenuto in ciabotta, Fax mi ha detto che vuoi fare il chitarrista. Ottima scelta ma prima fatti un goccio. E chiamami Simo.» Ciò detto si diresse in un angolo della stanza e da un vecchio e ingiallito Kelvinator tirò fuori due bottiglie ambrate.

    Ognuno i suoi soprannomi. Kurt si faceva chiamare Simo. E Fax? Con ogni probabilità doveva essere Adam. Ma non domandai nulla in proposito, la mia mente era impegnata in un’altra più urgente considerazione: cazzarola, la birra no, se c’era una cosa che mi faceva schifo era proprio la birra. Mi raggiunse con due bottiglie e le aprì usando un accendino come cavatappi, con la disinvoltura di chi esegue quell’operazione più e più volte al giorno.

    Non potei esimermi dal sorseggiare quello che per lui doveva essere un nettare degli dei e per me una maledetta bevanda dal sapore nauseante. Un angolo remoto del mio cervello arrivò addirittura a protestare per l’assenza di un bicchiere, ma lo misi a tacere. Era più che ovvio che una bottiglia apparteneva a una persona, anche se io l’avrei condivisa volentieri con altre cinque o sei.

    «Alla tua» disse lui tracannandone metà d’un fiato.

    «Alla tua. Alla vostra» replicai estendendo il brindisi agli altri e bevendone un sorso appena. Se ne avessi ingollata di più probabilmente l’avrei vomitata, un simile imbarazzo non avrei potuto permettermelo. Ad ogni modo, un sorso alla volta, da lì a una mezz’ora riuscii a finirla, con mio sommo stupore. In quella mezz’ora accaddero parecchie cose. Una mezz’ora un po’ dilatata, in realtà.

    «Io sono Remigio, se preferisci Remy, ma mi chiamano tutti Calino» si presentò anche l’altro ragazzo.

    «E io Fulvia» disse infine l’unica femmina, senza proporre altri soprannomi alternativi, appena ebbe finito la birra di Simo senza alzarsi dal divano e tirando un rutto degno di un camionista di lungo corso. «Avvicinati un po’» mi disse.

    Riluttante la raggiunsi, mi metteva un tantino a disagio. Appena le fui a tiro agguantò le mie collane, roba semplice fatta di lunghi cordini neri in tessuto e due pendagli in argento, uno rappresentava una spada avvolta da un serpente, l’altro, a cui tenevo veramente, una croce ankh, tutti e due racchiudibili comodamente in un piccolo palmo. «Passabili. Perché questo accostamento?»

    Se ne intendeva o era giusto per parlare? Le fornii comunque la mia spiegazione.

    «La croce ankh è un antico simbolo sacro egizio che simboleggia la vita, la spada ovviamente il suo opposto.»

    «Alfa e omega, bella storia» osservò Adam alle mie spalle.

    «E la serpe?» chiese Fulvia.

    «Beh, in quanto donna dovresti saperlo: il peccato» le spiegai cercando di darmi un tono.

    Fino a quel momento aveva tenuto gli occhi fissi sui ciondoli, a quel punto li sollevò verso di me e con fare languido avvicinò la testa alle collane, dischiuse le labbra e fece scivolare tra esse la spada per poi sfilarla lentamente. Una volta estratta le passò la lingua sulla punta mettendo bene in evidenza il piercing e facendolo abilmente tintinnare contro il monile.

    «Intendi un peccato come questo?» mi chiese infine con voce melliflua.

    Sorrisi e mi sentii arrossire, mi spiazzò completamente. Però mi divertì.

    «Che gran zoccola che sei!» le disse ridendo Simo. «Dai, lascialo in pace, è appena arrivato e già lo assalti.»

    L’idea non mi sarebbe poi dispiaciuta. Anche se non ero assolutamente avvezzo a trattare con simili creature. Si apriva, per me, un nuovo spaccato di universo.

    «Non è il mio tipo, troppo sano» troncò lei il discorso ributtandosi sul divano e ignorandomi completamente.

    «Proviamo a suonare qualcosa?» propose Adam alzandosi e facendo scendere dalle sue gambe un gatto che evidentemente si era accoccolato lì sopra. «Mi perseguitano» mi spiegò sorridendo notando il mio interesse per il felino. Non mentiva, fu il primo di molti che ebbi modo di vedere, ogni volta che Adam arrivava in ciabotta, prima o dopo arrivava anche un gatto a ronzargli intorno, li attraeva senza sapersene spiegare il motivo, ma non se ne dispiaceva affatto.

    «Sì. Vieni anche tu Vex, non possiamo lasciarti solo con quella assatanata» aggiunse Calino. Un po’ mi dispiacque, ma fui più che d’accordo. Lei non diede segno di aver sentito, aprì un album e iniziò a disegnarci sopra. Diedi un’occhiata, disegni in stile gotico, non molto stilosi, ma nell’insieme affascinanti.

    Abbandonammo la stanza e passammo in un’altra molto più piccola dove la prima cosa che saltava all’occhio era la batteria. Semplice ma quanto bastava a far casino. E le uova. O meglio, le scatole di uova, appese su tutte le pareti e perfino sul retro della porta per insonorizzare. E dove le scatole di uova un po’ si staccavano sotto di esse si vedeva uno spesso strato di gommapiuma blu.

    «L’avete insonorizzata voi?» chiesi.

    «Tutto quello che vedi qui dentro l’abbiamo fatto noi. La cascina è del nonno di Simo ma non ci vive più da anni. Per l’insonorizzazione il test l’han fatto Simo e Fulvia.»

    «Vale a dire?» domandai.

    «Noi eravamo dall’altra parte in silenzio e loro erano qui dentro che scopavano. Lei grida. Però non si è sentito nulla. Funziona.» Così disse Adam.

    Guardai Kurt (o Simo che fosse) che era appena tornato dalla terza stanza, era ancora più in là e per accedervi si doveva per forza passare dalla sala strumenti, più tardi scoprii che era la stanza del mixer, per vedere se rideva e capire se mi stessero prendendo per il culo. Sorrideva, ma era un sorriso compiaciuto: era vero. In che razza di manicomio ero finito?

    Ma non era niente male, no davvero. Dovevo solo aprire un po’ le mie vedute. In quel momento non lo sapevo, ma ci sarei riuscito molto più velocemente di quanto pensassi.

    Finita la spiegazione, Adam imbracciò il suo basso nero, Kurt si mise al microfono e Calino alla chitarra elettrica. Fecero un paio di prove tecniche, gli amplificatori risposero.

    La sensazione fu simile a quella che si prova perdendo la verginità. Non che all’epoca fossi esperto in materia, ma più avanti realizzai che quell’associazione funzionava alla perfezione. Nonostante la mia passione per la musica non avevo mai assistito a un concerto live. Trovarsi chiuso in una piccola saletta prove a due passi dai musicisti e sentire le vibrazioni grezze e vive trasmesse dalle casse, chitarre, bassi e voci era come immergersi in un elisir delle meraviglie. Per me fu così. In quell’istante realizzai che quella poteva essere la mia ragione di vita. Doveva esserlo. Un fremito mi attraversò il corpo.

    «Dai Fax, attacca» disse Simo.

    Fax? Ah già, Fax. Quando il basso iniziò a suonare capii in via definitiva che era Adam. Giusto, ognuno il suo soprannome.

    Il giro di basso mi ipnotizzò. E una volta per tutte compresi a fondo l’importanza di quello strumento spesso così sottovalutato, il suo suono riempiva tutto e sosteneva l’intero brano, di fatto rendendo quasi insignificante l’assenza della batteria. Avete mai ascoltato Hotel California? Intendo ascoltata bene. A prima vista sembra un brano studiato apposta per le chitarre, ma provate ad ascoltare il lavoro del basso e poi provate a immaginarne l’assenza, metà del brano, forse più, scomparirebbe. Dopo qualche battuta entrò la chitarra, una serie di accordi all’apparenza semplici ma efficaci, nessun virtuosismo ma suono completo. Infine la voce. Roca e un po’ sguaiata, forse per la troppa vodka, ma decisamente graffiante. Era un brano rock semplice ma dritto al punto, mai sentito prima ma davvero notevole. Quando finirono tutti e tre mi fissarono. Era evidente che si aspettavano un responso, anche se ero il meno indicato per fornirlo, non sapevo nemmeno strimpellare una chitarra per bambini, cosa potevo saperne? Il fatto è che però mi piacque un sacco, era emozione allo stato puro.

    «Grandioso! Semplicemente strafigo!» non mi venne in mente altro, lo show della banalità.

    «Lo stiamo ancora mettendo a punto» mi spiegò Simo. «Però se già ti piace è un buon segno. Ne abbiamo altri in cantiere, prima o poi li incidiamo sul serio, dobbiamo solo comprare un mixer giusto e un registratore all’altezza.»

    «Se vuoi registrare, meglio affittare una sala seria» consigliò Fax.

    «Sì ma costa un fottio» ribatté Simo.

    «Certo, ma anche l’attrezzatura che dici tu costa. E poi qui l’insonorizzazione è buona ma fino a un certo punto.»

    «Ma va’ che è ottima, se copre le urla di Fulvia vuol dire che va bene.»

    Risero.

    «Quindi… l’avete scritta voi?» chiesi incredulo interrompendo la loro discussione.

    «Io. Questa io» precisò Simo. «Ma ne ha scritte di fighe anche Fax.»

    «Ah» replicai scioccato. Non solo suonavano, ma componevano. Fenomeni.

    «Guarda che è più semplice di quanto credi, basta provare, puoi farlo anche tu» disse Adam.

    «Sì tu la fai facile, prima dovrei imparare a suonare uno strumento, ti pare?»

    «Può tornare utile, però i testi puoi già scriverli, quello lo sai fare ne sono certo, poi in qualche modo si adattano alla musica.»

    Non faceva una grinza. Poi proseguì. «A proposito, di là in sala mixer c’è la chitarra per te, vai ad accordarla, poi torni qui e improvvisi.»

    Fuori di testa completo, non c’era altra spiegazione. «Accordarla? E come diavolo si fa?» domandai sentendomi un perfetto idiota.

    «Calino…»

    Calino staccò il jack e mi accompagnò di là, mi fece sedere e mi mise la chitarra in braccio. Fu una sensazione strana: era un contatto naturale, come se lo avessi fatto da sempre. Passai la tracolla sulla schiena istintivamente e iniziai ad accarezzarne manico e corde. Era una Yamaha blu, niente di che, ma in quel momento era la più bella chitarra del mondo.

    «Infila qui il jack» mi disse Calino porgendomi un piccolo strumento che non avevo mai visto. Era un accordatore elettronico di tipo analogico, mi spiegò, e corda per corda ti dice se la frequenza è quella giusta. Bastava girare le chiavette di qua o di là e prima o poi si sistemava. Mi raccomandò di non tendere troppo o si sarebbero spezzate le corde. La prima era davvero sottile, sembrava dovesse rompersi da un momento all’altro. Mi osservò finché riuscii a far posizionare l’ago sulla frequenza del MI, poi tornò di là a suonare mentre io finivo. Era abbastanza intuitivo.

    Ne sapevo poco, ma notai che la prima e la sesta corda erano entrambi un MI, a orecchio c’erano un paio di ottave a distanziarle. Come facevo a saperlo? Non lo sapevo, però era davvero così.

    Quel che davvero non sapevo era che ogni tasto corrispondeva a mezzo tono. Avrei dovuto arrivarci, non ero un grande esperto ma che esistessero i diesis e i bemolle non era certo un mistero per me. Me lo spiegarono i tre amici quando li raggiunsi.

    Provai a dare un colpo alle corde, ero collegato anch’io. Verificammo insieme l’accordatura: perfetta.

    Cosa fosse un accordo era per me un mistero assoluto, qualcosa negli anni avevo letto e dai miei pochi studi di musica alle scuole medie sapevo che era composto da almeno tre note e poteva essere maggiore o minore. Stop. Ma come costruirlo era tutta un’altra faccenda. Mi dissero che erano schemi precostituiti e bastava ricordarsi quali posizioni tenere sul manico e che venivano da soli. Sì, era vero. Ma la cosa non mi soddisfece, doveva pur essere in grado un buon strumentista di crearsi gli accordi alla bisogna, no?

    Mi sarei sbattuto per imparare.

    Rifecero il brano che avevo appena sentito. Lo avevano intitolato Come as you are. Da lì a non molto divenne un cult del grunge, ma prima di arrivare a questo punto ci sono ancora parecchie storie da narrare.

    Lì dentro avvenne comunque la mia iniziazione e i tre ragazzi ne furono testimoni.

    Gli lasciai suonare il brano, osservando bene cosa facevano le dita dei due suonatori, specie quelle del bassista, per gli accordi la cosa mi sembrava ancora un po’ troppo complessa. Quando ebbero finito ripetei lo stesso giro di basso con la chitarra. Calino usava il plettro, io non ce lo avevo e usai le dita sentendomi decisamente a mio agio, il contatto era caldo e naturale. Ripetei la sequenza esatta delle note senza sbagliarne una. Tra tutti fui di sicuro io il più stupito.

    «Bella storia!» esclamò Fax.

    «Dai, sapevi già suonare, non cacciar balle» disse Calino.

    «No, giuro, non so nemmeno che note ho suonato se devo dirtelo, le dita… han fatto loro. Ho ascoltato e guardato prima, ho solo copiato, nulla di più» quasi mi giustificai.

    «Beh, sticazzi! Non è che si veda tutti i giorni» esclamò Simo.

    «Convinto tu…» disse Calino. Mi sembrava lui quello poco convinto.

    «Suona qualcosa, vai a braccio, d’istinto» mi spronò Fax.

    Lo accontentai e tirai fuori, usando una corda sola, una specie di melodia che poteva benissimo stare in tema con quella appena suonata. Simo fece due occhi così e mi chiese di ripeterla. Poi disse a Calino di cercare degli accordi che potessero starci dietro e lui lo fece. Andammo avanti per un bel po’ e fu Simo a stabilire ritmi e armonie finché la serie di accordi funzionò. Anche Fax costruì un giro di basso niente male. Si sentiva l’assenza dolorosa di una bella batteria, in questo brano avrebbe fatto la differenza, ma nessuno tra loro era un buon percussionista, l’avrebbero fatta fare al batterista ufficiale appena ne avessero avuto uno, quello che suonava prima con loro se ne era andato dopo che avevano litigato secco lasciando lì la batteria, dicendo che tanto era una merda e che se ne sarebbe comprata una più bella, che se la tenessero pure. Bel modo per ereditare uno strumento.

    Il batterista arrivò mesi dopo e quella canzone trovò il suo vero compimento. Venne intitolata Smells like teen spirit ed ebbe un successo esagerato.

    Ma ogni cosa a suo tempo.

    La saletta era isolata non solo acusticamente ma anche otticamente, completamente priva di finestre. Fu Fulvia a riportarci alla realtà venendoci a chiamare.

    «Tra poco fa buio, io me ne vado che sono in cazzo di bici» come era entrata così uscì.

    «Vado anch’io sennò in bici da qui a casa mi stirano, ha ragione la pazza» disse Calino.

    Il tempo qui dentro assumeva una dimensione distorta, avrei giurato che fosse passata mezz’ora al massimo invece erano passate quasi due ore. Ne fui estasiato. Fu una giornata memorabile.

    «Direi che allora puoi tornare quando vuoi» mi disse Simo di fatto includendomi nella cricca.

    Poche volte nella vita mi sentii più felice e realizzato.

    «Quella portatela via, tanto qui non la usa nessuno» mi disse Fax indicando la Yamaha che avevo ancora appesa al collo. Mi sembrava troppo, tentai di rifiutare educatamente.

    «Non fare il coglione, ci serve un chitarrista, no? Prendila e impara a suonarla, tanto ci metti poco, visto quello che è successo oggi.»

    Già, non era il caso di rifiutare. Solo un coglione lo avrebbe fatto.

    La sistemai sul pavimento dello scooter tenendola stretta tra le gambe, non c’era una custodia disponibile; parecchi chilometri più in là, ormai al buio, finalmente raggiunsi casa e ringraziai la buona sorte per aver concluso il viaggio senza danni. Mia madre mi chiese dove l’avevo comprata e con quali soldi e da quando in qua avessi deciso di diventare un chitarrista.

    «È in prestito. Non ho deciso, è il mio destino.» Non c’era altro da dire.

    Non avevo un amplificatore, ma dopo una settimana insieme a mio padre, esperto tecnico meccanico ma per passione anche elettronico e dall’estro creativo, ne costruimmo uno. Non era un’opera d’arte ma funzionava a meraviglia. Nel frattempo la suonai così, per quel che mi serviva si sentiva abbastanza. Mi sanguinarono le dita, mi fecero un male porco, ma un po’ alla volta si formarono i calli. Non smisi più, penso che la passione musicale, specie in un periodo post adolescenziale, sia una delle droghe più irrinunciabili che esista. Era diventata una ragione di vita. Non l’ho mai definita ossessione perché il termine ha un’accezione negativa, ma forse sarebbe stato oltremodo corretto.

    DOLORES E ALANIS

    Understand the things I say

    Don’t turn away from me

    ’Cause I spent half my life out there

    You wouldn’t disagree

    (Cranberries)

    «Si sta facendo tardi, mi sa che mamma è già giù che ci aspetta, meglio andare sennò si incavola, sai com’è fatta» dice Dolores a sua sorella dopo aver guardato lo swatch che tiene al polso.

    «Uffa, ma la storia mi piace, non possiamo stare ancora un po’?» si lamenta la più piccola.

    «Se vuoi prenderle resta tu, io vado, quella diventa una serpe.»

    «Beh, per una volta potrebbe salire lei a prenderci, no? Così saluta il nonno, è pur sempre suo padre, che cavolo!»

    «Non parlare così di tua madre» le dico pacatamente. «Se lei non sale, avrà i suoi buoni motivi, credimi.»

    «Ma insomma, non è giusto! Non le hai fatto mica niente di male?!»

    La più grande la guarda come chi la sa lunga ma non può parlare. Poi guarda me allo steso modo. È più che evidente che sappia qualcosa. Ma cosa? E fino a che punto? E quale verità conosce, quella reale o quella di parte? Nel dubbio, rimango in silenzio e ricambio il suo sguardo con un mezzo sorriso.

    «Alanis, ci sono cose che non sei tenuta a sapere. I grandi non sempre vanno d’accordo, a volte ci vogliono anni per capirsi. Per ora sappi che ti voglio un bene dell’anima e che ne voglio anche a tua madre anche se magari lei non lo sa, ma non ha importanza. E uno dei motivi per cui le voglio così bene è che comunque vi lascia venire qui a trovarmi ogni volta che ne avete voglia. Se la fai arrabbiare va a finire che non ti lascia più venire qui. E io ne morirei» le spiego pacatamente. «Vuoi forse uccidermi?» le domando ridendo.

    Mi salta al collo e mi abbraccia. No, non vuole.

    «Però la prossima volta continui la storia da subito, senza perdere tempo. Intesi?» mi intima con occhi serissimi.

    «Ai suoi ordini!» rispondo mimando un saluto militare.

    Dolores mi dà un leggerissimo bacio sulla guancia, veloce come se la mia pelle pungesse o scottasse, nessun abbraccio. Quanto son diverse… d’altro canto anche i loro padri lo sono.

    Non si è mai voluta sposare. Ha fatto quelle due splendide figlie e se le è allevate da sola, la prima quando si è trasferita a vivere in Irlanda e l’altra quando è emigrata in Canada. Una femmina con le palle, come si usa dire.

    Da me e da sua madre aveva ereditato il talento musicale, ma non l’ha coltivato più di tanto.

    Ha scritto e interpretato ad alti livelli una sola canzone, quella che divenne a tutti gli effetti il suo inno personale e che fu preso ad esempio da molte altre donne, l’ha intitolata Nobody’s wife.

    Quando nacque, io e la mia amante, la chiamammo Anouk. No, suvvia, siamo onesti, la mia amante e basta, non io. Io a quel punto non è che avessi molti diritti in merito.

    ANGUS/BEPPE/YOUNG

    I’ll give you black sensations up and down your spine

    If you’re into evil you’re a friend of mine

    (AC/DC)

    Ogni venerdì pomeriggio le mie nipotine passavano a trovarmi, puntuali come un treno svizzero. Restavano con me fino a sera, poco prima dell’ora di cena, fin quando Anouk passava a riprenderle, all’incirca verso le diciotto.

    Di solito c’erano entrambe, talvolta una non poteva e allora l’altra veniva da sola, ma capitava di rado. Anche se non si fece mai vedere, credo che la loro madre le portasse volentieri, forse perché poi le raccontavano la storia che io raccontavo a loro, in questo modo avrebbe potuto conoscere qualcosa di me, qualcosa in più di quel quasi nulla che sapeva ma che per niente al mondo si sarebbe mai abbassata a chiedere di persona. Io e sua madre litigammo poco prima della sua nascita, quei litigi senza ritorno, e io scomparvi dalla sua vita. La abbandonai? Sì, lo feci. Non senza vergogna ma lo feci. Ma ora è presto per questa parte della storia.

    Ora devo raccontare loro del mio maestro.

    Quello che incontrai per caso lungo l’isola pedonale del nostro capoluogo.

    Non ero solito passeggiare per le vie del centro, ma quel sabato mattina un istinto a cui non potei sottrarmi mi spinse a prendere l’autobus e a scendere alla grande città. La scusa che accampai con me stesso era di andare nel negozio di dischi a cercare qualche novità degna di interesse, ma in verità non ne avevo alcuna intenzione, prova ne era il fatto che uscii senza portafoglio. Prendere l’autobus senza pagare il biglietto era una cosa che mi creava apprensione, ma non avevo certo voglia di rincasare a prendere i soldi. Nessun controllore quel giorno, mi andò bene, come sempre va quando ti lasci guidare dalla buona sorte.

    A pochi metri dal negozio di dischi trovai lui, ma prima di trovarlo lo udii. Dal suono doveva essere una chitarra elettrica, suonata bene, anzi divinamente. Quando mi avvicinai e vidi come stavano le cose, sentii la mascella staccarsi dal resto del volto, per un attimo temetti di doverla raccogliere da terra. Era un musicista di strada e imbracciava una classica. Ma la suonava come un’elettrica, perfino il timbro era elettrico. Mi spiegò in futuro che non servivano grandi ritrovati elettronici, bastava premere le corde in un certo qual modo; aveva ragione, ma in quel momento mi sembrò stregoneria.

    Aveva qualche anno più di me, ma non poi molti. Era seduto su uno sgabellino pieghevole, accanto a lui un piccolo amplificatore portatile collegato ad una batteria da 24V, di fronte la custodia aperta a mo’ di bussolotto con dentro molte monete e alcune banconote e, sempre dentro l’elmo dello strumento, una piccola pila di dépliant colorati intitolati La chitarra in parole povere.

    Quando terminò il brano la folla radunata dinnanzi a lui si produsse in un caloroso applauso e altre monete piovvero nella custodia. A quel punto ringraziò e salutò dicendo che per quel giorno aveva finito. Alcuni acquistarono gli opuscoli. Io rimasi due passi indietro a osservare finché quasi tutti furono spariti, a quel punto mi avvicinai.

    «Ciao. Purtroppo ho sentito solo un brano ma sei davvero strepitoso. Non è che per caso dai lezioni?»

    «Eh auguri!» disse una voce alle mie spalle ridendo divertita.

    Mi voltai e lo fissai con aria interrogativa. Avrà avuto sì e no 25 anni, capelli neri e ricci in cui teneva immersa una mano come se volesse sorreggere la propria nuca, un paio di occhiali e uno sguardo prossimo alla follia. «Lui dà lezioni solo ai talenti naturali, se dopo due o tre volte non sei all’altezza ti manda a cagare.»

    «Non è vero, è che non voglio i somari perditempo» replicò il chitarrista ridendo a sua volta. «Tu Gigi sei un somaro scansafatiche e io devo salvarti da te stesso. Non voglio che vieni a buttare via soldi per nulla. Più che ai talenti naturali do lezioni ai talenti dell’impegno. E lo sai. E poi al momento il blues non è proprio il mio genere, forse in futuro, ma per ora è meglio se cerchi un maestro più in linea coi tuoi gusti.»

    «Il saggio Beppe. Mi sa tanto che hai ragione, ma sentirti suonare è sempre un piacere.» Si abbracciarono come due buoni amici e si salutarono.

    «Tutti i giovedì sera, l’orario si concorda senza problemi» mi disse.

    «Come?» domandai preso alla sprovvista.

    «Le lezioni. A casa mia. Porta la chitarra. Meglio se hai una classica per iniziare.»

    «Si vede così tanto che parto da zero?»

    «Sesto senso. Ad ogni modo la base è sempre la classica, il resto diventa poi un giochetto.»

    Se lo diceva lui!

    Mi diede indirizzo e telefono, dovetti impararli a memoria. Mi diede anche uno dei suoi opuscoli, il numero uno, dicendomi che glielo avrei pagato una volta a lezione. Sopra c’era il suo nome, Angus Young. Ma si faceva chiamare Beppe.

    Tornai a casa e provai subito il brano del dépliant. Leggevo lo spartito alla velocità di un bradipo in fin di vita, le mie nozioni di teoria musicale erano davvero imbarazzanti, ma in fin dei conti erano solo due facciate e le risolsi in un paio d’ore. C’erano già alcune doppie note, ma non fu un grosso problema, il pollice faceva i bassi e le altre dita il resto. Era perfino indicato quale dito usare per quale nota, a prova di imbecille.

    Pur essendo io figlio unico, se c’era una cosa che proprio non mi mancava erano i cugini, una vasta famiglia circondava la mia quotidianità. Sguinzagliai mia madre al telefono con le sue sorelle e in breve mi trovò una classica usata da uno dei tanti cugini, una Ferrarotti prossima all’autodistruzione, ma con le corde nuove tutto sommato riconquistò una sua dignità strumentale. La accordai usando l’elettrica come riferimento. Qualche tempo dopo, improvvisamente, realizzai che madre natura mi aveva elargito un grande dono, l’orecchio assoluto, ero in grado di distinguere perfettamente un semitono da un altro e individuare la nota corrispondente. Non me ne ero mai reso conto, forse perché non ne avevo mai avuto bisogno, per quanto ne sapevo poteva essere successo da un giorno all’altro. Se non altro non avrei mai avuto bisogno di un accordatore, gran bella fortuna.

    Quando si dice aver tutto sotto casa. Angus viveva a nemmeno un quarto d’ora a piedi da casa mia, eravamo concittadini e non l’avevo mai saputo. Quando arrivai mi fece salire in una specie di mansarda rialzata e mi fece accomodare su una sedia, di fronte a essa leggio e poggiapiede erano già sistemati. Oltre alla mia c’erano altre due sedie allestite alla stessa maniera.

    «Di solito faccio lezioni multiple» mi spiegò. «Tre allievi alla volta, così dividete il prezzo per tre e intanto

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