Si va in scena: Un viaggio nelle emozioni
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Laura Ferrari, libera pensatrice
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Anteprima del libro
Si va in scena - Laura Ferrari
SCENA
SI VA IN SCENA
Un viaggio nelle emozioni
Una storia apparentemente leggera, quattro sorelle apparentemente legatissime, un pettegolezzo, rancori soffocati e trascinati nel tempo, sospetti e tradimenti. Si sa sempre così poco gli uni degli altri, anche quando si tratta di famiglie a prima vista unite. Finché non si va in scena, naturalmente.
Come attori esperti fingiamo ovunque, tra le mura domestiche e sul posto di lavoro, con amici o sconosciuti non fa alcuna differenza perché è il palcoscenico della vita.
A volte fingiamo per proteggere, altre per nascondere oppure per compiacere o più semplicemente per non far soffrire.
Quante volte abbiamo finto di non sapere o di sapere, di lavorare, di dormire, di non conoscerla o di essere sorpresi, di perdonare e di apprezzare, abbiamo saputo fingere anche di essere felici e a volte di godere. Per non pensare a tutte quelle volte che abbiamo finto per evitare. Per evitare discussioni, un'interrogazione, per evitare di fare sesso col marito o magari lo sguardo indiscreto di qualcuno. Ebbene, stavamo recitando.
Perché la vita è come un teatro e ognuno di noi recita la sua parte a volte lo fa consapevolmente, a volte no.
Lo sceneggiatore scrive la storia, i dialoghi e il regista dirige gli attori. Uno è il protagonista principale, molti sono semplici attori e alcuni addirittura solo comparse, la maggior parte paga un biglietto e assiste allo spettacolo. L’imbeccata di un suggeritore lascia sempre tutti più sereni. I tecnici delle luci aiutano a muovere le emozioni negli spettatori, lo scenografo con i truccatori e gli stilisti contestualizzano rendendo tutto più vivido e reale. Ma dietro c’è molto di più. Il teatro va affittato, lo spettacolo va finanziato, gli attori vanno selezionati e la critica a fine serata va pagata.
Un mondo dove ognuno ha il suo ruolo, mille ingranaggi che muovono la macchina e qualunque cosa accada lo spettacolo va in scena tutti i giorni.
Siamo nel 2020, siamo già ad aprile! Sembra di vivere in un film surreale. La fantascienza del grande schermo è scesa nella realtà quotidiana di chiunque, indistintamente. Il copione è universale ma noi siamo i semplici spettatori paganti.
Il calendario ha perso la sua funzione, i giorni della settimana sono tutti uguali, l’orologio è diventato praticamente inutile perché si parla solo più di mattina, pomeriggio e sera ed è curioso come il tempo scorra inesorabile e veloce anche quando tutto si è fermato. Quando la sveglia la mattina non serve più, quando le foglie e la polvere si accumulano sulle auto e nonostante il passare dei giorni i serbatoi sono sempre pieni, quando accompagnare tuo figlio da suo padre con il quale hai rotto da poco ti fa sentire come se fossi una delinquente, temi la polizia come se avessi il baule pieno di droga.
Ed è stato proprio in uno di questi eterni pomeriggi di introspezione, isolamento, ricerca e cucina adrenalinica che facendo pulizia nella posta elettronica del mio vecchio Mac portatile trovai questo file del 2006 Dobbiamo dirlo a Sabrina
.
Aprire quel documento fu come aprire una breccia nel passato.
In un attimo mi trovai catapultata sul palcoscenico del Teatro delle 10, una storica scuola di teatro nella malfamata barriera Nord di Torino. Di fronte a me c’era il regista e amico Massimo Scaglione che con la sua flemma tagliente mi diceva: "Laura, voglio che mi rappresenti lo stato d’animo che le chiedo e ogni volta che batto le mani dovrà cambiare in base a quello che le dirò ". L'ora di improvvisazione era la mia passione ma questa volta mi ci volle un po' per capire realmente cosa avrei dovuto fare e inutile sarebbe stato chiedere spiegazioni. Presi qualche secondo di concentrazione per cercare di dare un senso alle sue parole e, lasciando da parte ogni esitazione, eccomi pronta per la mia prova.
In un attimo vidi dentro di me tutte le emozioni del mio passato schierate su un’immaginaria linea di partenza pronte a scattare al via. Finalmente potevano uscire tutte perché non ero costretta a soffocarle o a dissimulare come inconsciamente facevo nel mio quotidiano per cercare di accontentare tutti.
Per assurdo, potevo essere la vera me stessa proprio dove, invece, avrei dovuto fingere.
In pochi secondi dovevo pescare nel mio vissuto le situazioni in cui avevo provato le emozioni che mi venivano richieste per poterle rivivere, era l'unico modo che avevo per rappresentarle in modo autentico
In un batter d’occhio nella sala si sentì rimbombare il suono del ciak potente delle sue vecchie e minute mani e dalla sua bocca, come un macigno, uscì la prima parola Dolore
.
L’immagine che mi balenò davanti agli occhi fu quella di mio padre morente sul divano di casa. Quel divano rifoderato verde oliva con braccioli in legno era stato per molti anni l’unico posto dove riposavo quando stavo male. Ero al suo fianco inginocchiata sul freddo pavimento in marmo. Vent’anni di tempo per dirgli anche solo una volta Ti voglio bene erano scaduti in quel preciso istante.
Mia madre, sfinita da quei lunghi mesi di sofferenza durante i quali il cancro lo aveva lentamente divorato, sospirando profondamente aveva pronunciato le fatidiche parole " E’ andato ".
I suoi occhi erano ancora aperti e il suo corpo faceva ancora dei piccoli scatti, però aveva ragione lei. Lei che aveva scelto di accompagnarlo in questo suo ultimo viaggio, nonostante fossero divorziati da molti anni.
Era la prima volta, ma non sarebbe stata l’ultima, che qualcuno moriva tra le mie braccia. Il mio viso si contorse dal dolore e i miei occhi come trafitti da minuscoli aghi incominciarono a bruciare come il fuoco riempiendosi di lacrime, deglutivo a fatica e lo stomaco era come stretto in una morsa.
Fu questione di un attimo, perché un nuovo ciak resettò tutto come con il tasto on-off di un interruttore.
Sorpresa
era la nuova emozione da tirar fuori.
Immediatamente mi venne in mente il volto di mio fratello quando alcuni mesi prima si trovò vittima di una festa di compleanno a sorpresa.
Sua moglie aveva