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Oltre il fuoco
Oltre il fuoco
Oltre il fuoco
E-book192 pagine2 ore

Oltre il fuoco

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Info su questo ebook

«Le cupe vampe di un incendio, a tarda sera, avvolgono una scuola alla periferia di Rosario insieme alle misere carni di una donna, custode per necessità. Un fosco atto vandalico commesso per vendetta contro l’istituzione scolastica da due ragazzi cresciuti tra solitudine, disagio e irrispetto si trasforma così in un cammino di redenzione per un orfano-che-viene-da-un-altro-posto-e-non-ha-nessun-amico o, più poeticamente, Pessoa. La punizione è duplice: alle sbarre dell’istituto minorile si aggiungono le scudisciate della propria coscienza. Se c’è chi rincorre il perdono per tutta la vita senza mai trovarlo, la vittima delle fiamme offre inconsapevolmente al ragazzo un’immediata occasione di riscatto e vita nuova, in una sorta di contrappasso dantesco. Nel caos di un paese, l’Argentina di fine anni ’80, divorata da inflazione e violenza, rottami d´uomini e donne si rifugiano in pensioni-topaie e strade lastricate di disincanto, alla ricerca di poesia e tenerezza».
LinguaItaliano
Data di uscita13 mag 2020
ISBN9789874721983
Oltre il fuoco

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    Anteprima del libro

    Oltre il fuoco - Javier Ernesto Núñez

    Braci.

    1. L’uomo che ha perduto le proprie illusioni

    es que el mundo ha golpeado con fiereza

    y ha matado de a poco su ilusión.¹

    «El hombre que perdió sus ilusiones». Del álbum Sandro, 1969.

    Volevo ricominciare. Avevo trascorso diciassette mesi chiuso in un istituto per minori e la mattina che ne uscii, giurai a me stesso due cose: che avrei ucciso il vero responsabile e che non sarei mai più tornato in un posto del genere. In quel momento non sapevo ancora che la vita aveva dei progetti per me e che parte di essi si erano già messi in moto. Non avevo letto molto di Borges e non sapevo che preesiste un futuro, che dal momento in cui Paride s’innamora di Elena, Troia è già in fiamme. Anche se, forse, non mi sarebbe importato granché. La soddisfazione di lasciarmi alle spalle quelle mura una volta per tutte mi emozionava al punto che nulla avrebbe annebbiato quell’allegria. Ero giovane e crescevo invulnerabile. Volevo vivere come mi pareva, correre dei rischi e non dover pagare mai più un prezzo così alto. Ora che sono trascorsi oltre vent’anni penso che, per come andarono le cose, fui a malapena capace di uscire vivo da quello stato di trance. Aver incontrato Mara mi salvò da un percorso che mi avrebbe condotto al disastro. E tutte le persone che ho conosciuto in quella tappa —Mujica, la custode, la signora del ferramenta, Sánchez con le sue benedette canzoni di Sandro— hanno giocato un piccolo ruolo nel favorire il destino che mi ha portato a oggi, al momento in cui guardo indietro e scrivo per ricordare quei giorni. Gli anni sono passati come l’acqua scorre vertiginosamente sotto i ponti. Ho ricordi vividi, proprio come restano incisi gli inizi di qualcosa d’indimenticabile o come se il tempo precedente fosse appartenuto a un altro e quel periodo segnasse, invece, il vero inizio della mia vita.

    Tuttavia, quel tempo ha fatto parte della mia storia e alcuni aspetti meritano di essere ricordati. Rimasi orfano a dieci anni, per esempio. Non è una giustificazione, è un fatto che non si può ignorare. Per spiegare il perché fossi appena uscito da un istituto di rieducazione per minori —se così può essere definito— dovrei raccontare una serie di episodi, e anche se questo non è il più significativo, è però un fattore indispensabile perché le cose andassero come poi sono andate.

    Era una mattina di aprile. Io schieravo le mie truppe di soldatini tra i vasi del cortile: tentavano di circondare il gigante con la mandibola di ferro che al posto di un braccio aveva un’arma infallibile attaccata alla spalla. Era una missione difficile, il gigante dominava dalla cima di una felce e le truppe dovevano avvicinarsi con attenzione per non rimanere esposte al fuoco del suo braccio meccanico. Ricordo il colore verde intenso delle foglie raggiunte dal sole, le piastrelle di terracotta, il vaso con il nastrino e l’aiuola da dove i soldatini si disponevano per iniziare l’assalto. Dentro, mamma lavava i piatti mentre Laura faceva i compiti. Fuori, si sentì il rumore di un motore, poi il silenzio.

    Alcuni rumori diventano inconfondibili. Non saprei dire quale peculiarità li differenzi da altri che possono suonare identici o indefiniti per uditi meno avvezzi, ma ci sono determinati suoni che sono etichettati con precisione dalla nostra memoria. Lo schiarimento di voce, il rumore di un motore, il ticchettio dei tacchi alti sul marciapiede, possono somigliare a tutti gli altri schiarimenti di voce, rumori e ticchettii. Eppure, quando li ascoltiamo, sappiamo perfettamente a chi appartengono. Io sapevo, senza bisogno di entrare in casa, che l’auto che si era appena fermata davanti la porta era di mio padre. E strinsi così forte il comandante dei soldatini che, alla base, i piedi affondarono nel terreno umido del vaso.

    Anche se erano separati da tempo, papà ogni tanto tornava e finivano sempre per urlare. Avevano liti rabbiose, incontri pieni di tensione, tempeste che devastavano la calma della siesta e le stoviglie, fino a che papà se ne andava avvolto nelle minacce o i vicini chiamavano la polizia. Quel giorno ci fu un silenzio denso, spesso, come se, aprendo la porta, dalla strada fosse entrata una nebbia solida che smorzasse tutti i suoni della casa. O forse è solo l’impressione che mi restò dopo, in contrasto con il fracasso degli spari.

    Uno, due, tre spari risuonarono e parvero estendersi all’infinito.

    Poi si avvertì l’urlo acuto di Laura fino a quando un nuovo sparo lo divorò, come se dalla bocca dell’arma —invisibile per me, che ero rimasto immobile nel cortile e riuscivo solo a tremare a ogni rumore— fosse fuoriuscito un animale e avesse inghiottito l’urlo in un boccone.

    Poco dopo papà —o quello che era stato mio padre— venne verso il cortile. Aveva schizzi di sangue ovunque —a una delle due aveva sparato da vicino— e gli occhi si riconoscevano appena, erano rossi, gonfi, infuocati. Credo piangesse. Ma non ne sono sicuro.

    Sollevò l’arma nella mia direzione —ero ancora seduto, incapace di muovermi o di aprire bocca— e me la puntò contro per una breve eternità. Ricordo bene il buco nero della canna della pistola: volevo guardare mio padre, ma il mio sguardo si orientava da solo verso la minaccia di quella canna che gli tremava tra le mani. Alla fine, abbassò l’arma quasi obbedendo a un impulso.

    —Dì a dio che mi perdoni —disse—. Digli di perdonarmi.

    Mi voltò le spalle e si perse nuovamente all’interno della casa. L’ultimo sparo, a differenza dei precedenti, fu un rumore prevedibile, atteso. Eppure, a volte, di notte mi sembra di risentirlo ancora e mi sveglio. Ma è sempre meno frequente e quando accade il suono sembra distante, forse il tempo che mi separa da quella mattina è diventato più denso e si sta lentamente attenuando.

    Non saprò mai perché non sparò quando venne verso il cortile. Perché mi condannò a sopravvivere. Forse perché aveva bisogno di qualcuno che parlasse per lui, che intercedesse per il suo perdono, un messaggero che potesse salvare la sua anima. Forse mi lasciò vivere solo per questo.

    Ma io smisi di parlare con dio per sempre.


    ¹«È che il mondo ha colpito con fierezza e ha ucciso a poco a poco le illusioni». Estratto del brano L’uomo che ha perso le sue illusioni, dall’album Sandro, 1969.

    2. La vita continua

    pero la realidad es sólo una verdad,

    la vida continúa.²

    «La vida continúa». Sandro, 1969.

    Mi portarono a casa di mia zia che viveva a Rosario. Era una donna solitaria, lesbica, di ferme convinzioni cattoliche che —da quel che avvertivo— si contrapponevano alle sue inclinazioni sessuali. O così mi sembra adesso, perché a ogni sua uscita sporadica seguiva, costantemente, un periodo di religiosità esacerbata che somigliava molto alla colpa o alla penitenza. Si chiamava Mirta. Viveva in una vecchia casa vicino il viadotto Avellaneda. Era la sorella maggiore di mia madre e, anche se c’era una somiglianza innegabile, io la vedevo come una versione incompiuta o imperfetta. Gli occhi erano più spenti, privi della vivacità di quelli di mia mamma, e il volto era popolato da piccole e profonde rughe. Lavorava come segretaria in uno studio, con uno stipendio che le bastava appena a soddisfare le sue spese. E poi arrivai io, con le mie necessità, l’abbigliamento, gli accessori per la scuola e —un po’ di tempo dopo, quando in qualche modo superai la tappa più profonda del dolore— uno stomaco desideroso che non riusciva ad accontentarsi di quella dieta metodica fatta di tortillas, insalate e zuppe.

    Furono anni strani. Mirta non era preparata a farsi carico di un bambino, ancor meno di uno così bisognoso di affetto, così carico di paura, dolore e rancore. Non voglio che suoni come una scusa: quello che è accaduto dopo, gli errori che ho commesso, non sono stati una conseguenza della morte dei miei genitori né della goffaggine e inadeguatezza di mia zia. Non è stata la presunta crudeltà del destino o il caso che mi hanno messo nei guai, ma la mia innegabile stupidità. Considerando però gli eventi fondamentali che hanno preparato il mio cammino verso quella notte a scuola, non posso tralasciare che Mirta, nell’inaspettata funzione di sostituta madre, era abbastanza incapace. Devo dire, a sua discolpa, che per un periodo ci provò. Nonostante lo smarrimento, gli scontri dovuti alla convivenza, l’impazienza inopportuna e le consolazioni tardive, Mirta cercò di offrirmi sostegno e di trovare il modo di sistemarmi nella sua casa e nella sua vita. Non dev’essere stato facile neanche per lei.

    I primi giorni non uscivo dalla mia stanza, non volevo mangiare, serrato in una tristezza che non mi abbandonava né mi consumava. Dormivo poco e male. Mi dimenavo nell’oscurità, intimorendo il sonno che mi minacciava, restio ad arrendermi al silenzio che precedeva gli spari e l’urlo di Laura che, costantemente, mi avrebbero svegliato. A volte, mi arrendevo al pianto, e tra gemiti e singhiozzi percepivo la presenza di Mirta dall’altro lato della porta, impotente e indecisa. Una o due volte si sedette nel corridoio e pianse con me attraverso la porta chiusa. Non so se piangesse per la sorella e la nipote, per il mio dolore, o per la disperazione di essersi resa conto che la sua vita non sarebbe stata più la stessa.

    Il tempo e l’irremovibile affanno di vivere, s’imposero. Cominciai ad avere fame, sete, sonno. In me si combatteva una battaglia tra due fazioni opposte: una che esaltava l’avvilimento e l’apatia —come se una parte di me fosse disposta a restare a letto fino a che il dolore mi consumasse completamente—, mentre l’altra resisteva avvalendosi delle necessità fisiologiche per obbligarmi a scendere dal letto, a guardare in faccia la vita e ad andare avanti a ogni costo.

    Una mattina mi alzai, indossai un giubbotto e un paio di scarpe e, dopo aver aperto la porta con circospezione, m’incamminai verso la cucina. Attraversai il corridoio al buio, tastando le pareti per non inciampare. Arrivato in cucina, accesi la luce. Mi preparai un panino. I profumi stimolarono l’appetito addormentato e appena obbligai me stesso ad assaggiare il primo boccone, il mio corpo recuperò la sensibilità abituale. All’improvviso si era spostato il velo e vedevo di nuovo il mondo, lì, di fronte a me. E proprio in quell’istante, mentre mi rimpinzavo goffamente, decisi di continuare a vivere.

    Quando mi fermai per bere un sorso di Coca Cola vidi Mirta poggiata al telaio della porta. Mi guardava con un misto di affetto e pena.

    —Ho pensato che non avresti più mangiato.

    Restai un istante in silenzio continuando a mordere il panino. Il rumore che facevo quando masticavo riempiva la cucina.

    —Avevo fame —dissi alla fine, con la bocca piena. Qualche mollica di pane mi sfuggì e cadde sulla maglietta.

    Mirta sospirò alleggerita. Poi si avvicinò, mi diede un delicato bacio sulla testa e andò a letto.


    ²«Ma la realtà è solo una verità, la vita continua». Estratto del brano La vita continua, dall’album Sandro, 1969.

    3. Aprendo la porta al diavolo

    Recuerdo aquel disfraz

    con que viniste a mí.³

    «Abriéndole la puerta al diablo». Vengo a ocupar mi lugar, 1984.

    Mi piacerebbe poter dire che a partire da quel giorno le cose si sistemarono, che cominciai ad adattarmi a una città nuova, al rudimentale conforto di Mirta, agli sguardi di compassione dei miei compagni di scuola. Ma non fu così facile. Mi sentivo perso. Mi mancavano i miei genitori, i miei amici, le strade riconoscibili del mio paese. Conclusi le elementari a pezzi e bocconi. Credo che la mia condizione di orfano-che-viene-da-un-altro-posto-e-non-ha-nessun-amico influì sulle maestre. Erano dispiaciute per me, chiudevano un occhio davanti al mio disinteresse e alla mia carenza d’impegno e a fine anno mi promuovevano con il minimo.

    Alla scuola superiore non fu la stessa cosa. Si trattò di un periodo grigio di cui conservo pochi ricordi e che, è inutile raccontare. È sufficiente dire che il primo anno fu un disastro: litigai varie volte, fui sul punto di perdere l’anno per i continui ritardi e le assenze e non riuscii a capire di cosa diavolo si parlasse in classe. Mi rimandarono in undici materie, ne diedi una a dicembre e non mi presentai al recupero a marzo.

    Mujica ebbe la mia stessa sorte. Era il quarto di cinque fratelli in una famiglia in cui ripetere l’anno sembrava quasi un’eredità o un mandato sanguigno. La madre era una donna magra, d’aspetto avvilito, puliva uffici dalle cinque alle dieci del mattino e poi lavorava come domestica fino alle cinque. Il padre dei primi due figli era scappato; quello del

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