Memorie di Fernanda
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Grazia Deledda
Grazia Deledda (Nuoro, Cerdeña, 1871 - Roma, 1936). Novelista italiana perteneciente al movimiento naturalista. Después de haber realizado sus estudios de educación primaria, recibió clases particulares de un profesor huésped de un familiar suyo, ya que las costumbres de la época no permitían que las jóvenes recibieran una instrucción que fuera más allá de la escuela primaria. Posteriormente, profundizó como autodidacta sus estudios literarios. Desde su matrimonio, vivió en Roma. Escritora prolífica, produjo muchas novelas y narraciones cortas que evocan la dureza de la vida y los conflictos emocionales de los habitantes de su isla natal. La narrativa de Grazia Deledda se basa en vivencias poderosas de amor, de dolor y de muerte sobre las que planea el sentido del pecado, de la culpa, y la conciencia de una inevitable fatalidad. Sus principales obras son Elías Portolu, La madre y Cósima. En 1926 recibió el Premio Nobel de Literatura.
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Memorie di Fernanda - Grazia Deledda
Memorie di Fernanda
Immagine di copertina: Shutterstock
Copyright © 1888, 2022 SAGA Egmont
All rights reserved
ISBN: 9788728411070
1st ebook edition
Format: EPUB 3.0
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This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.
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Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.
MEMORIE DI FERNANDA
Oh! fu il fatto più atroce... il fatto più
empio di cui mai si udisse.
Shakespeare, Il re Riccardo III
I
...Allorché mi svegliai vidi ch’io era in un’angusta cameretta, se così potevasi chiamare quella bruna e fetida muda.
Il suolo, le pareti, la volta scomparivano sotto uno strato di musco verde linfatico e causato dall’eccessiva umidità; da un lato v’era una porta di ferro con catenacci arrugginiti, dall’altro una finestra con grossa inferriata.
Il letticciuolo di legno ove ero stesa io, una sedia di paglia, vecchia e tarlata, un tavolino dello stesso genere e stato, un’anfora e una tazza ne erano i mobili.
Quel bugigattolo conteneva un solo bene: l’abbondante luce che si precipitava dalla gran finestra di stile gotico.
Dapprima credetti di continuare a dormire e sognare, ma mi accorsi che era realtà dalla troppa lunga durata di quella specie di sonno.
Non ostante non mi mossi se non dopo molto tempo.
Ma quando m’inchinai per cercare nella sedia la mia veste bianca, gettai un grido.
Avevo trovato una sottana di tela azzurra con una cintura di cuoio nero, da cui pendeva un cordonetto al quale era attaccata una piastra rotonda col numero 17.
Calze di lana azzurra e scarpette di cuoio nero completavano quell’abbigliamento che mi aveva strappato un grido.
Perché?
Avevo riconosciuto la toeletta prescritta alle prigioniere di San Makao... E che cos’era questo San Makao?
Era una torre nera, alta e merlata che sporgeva tra due orribili rupi e guardava sul mare.
Là si custodivano i prigionieri dei dintorni.
Una leggenda diceva che una volta, nel medio evo (?!.) là v’era un castello abitato da misteriosi personaggi.
Ma un nebuloso e terribile delitto vi era stato commesso, e d’allora il castello fu abbandonato.
Gli anni, i secoli avevano distrutti i giardini e resi ruderi le altre torri.
Ma un giorno il governo poco superstizioso in fatto di leggende e molto in fatto di quattrini, aveva fatto esplorare l’unica e ancora forte torre che restava, e vedendo che ciò procurava una piccola economia ne aveva fatto una prigione.
Stuzzicata dalla strana leggenda, una volta io avevo voluto visitare da cima a fondo la torre di San Makao, e certo, mi trovai un po’ delusa nel trovarvi umidi e malsane celle ammobigliate sullo stesso stampo di quelle dove allora mi trovavo...
Mi vestii silenziosamente. Avevo fame.
Mangiai con ribrezzo un tozzo di pane nero che trovavasi sopra la tavola, e bevetti una tazza d’acqua.
Il mio pensiero ancora confuso non si posava in nessun luogo, sentivo come una folla di idee indistinte ballare la ridda del caos nel mio cervello.
Ebbi un sorriso amaro.
Barcollando mi avvicinai alla finestra e cercai di aprirla. Essa cedette ai miei sforzi.
Allora mi appoggiai al davanzale di mattoni corrosi e alle sbarre di ferro, e mi strinsi la fronte fra le mani agghiacciate.
Disotto a me il mare delle coste orientali di Spagna si stendeva limpido, azzurro, colle sue onde brillanti, colle sue lunghe striscie di spuma argentea.
E al di sopra, nel cielo turchino, il sole, d’autunno, un po’ pallido, vibrava i suoi raggi d’oro sul mare infinito...
Un alito fresco di vento, impregnato di profumi marini, passò sulla mia arida fronte, fra i ricci dei miei capelli biondi.
Fu come un soffio divino.
Le idee mi tornarono; mi ricordai di tutto e fremetti.
Sorrisi ancora amaramente.
Stesi ambe le mani verso il mare, verso il cielo, nello infinito, poi col pugno chiuso mi battei la fronte: la fronte pallida, ardente, ove era passato un pensiero sanguinoso, terribile.
Ma per spiegarvi quel pensiero bisogna che io ritorni indietro e vi narri una storia di orrore...
II
Ero nata a Berlino.
Mio padre era protestante e si chiamava Fritz Guëzmburg.
Io non avevo conosciuta mia madre, ma sapevo che era ebrea e si chiamava Sarah von Mark.
Sino ai dieci anni risiedetti a Berlino.
Ho pochi ed indistinti ricordi circa la mia infanzia.
Mi ricordo solamente che mio padre era giovanissimo; si era ammogliato a venti anni, nobile, straricco ed aristocratico. Percorreva la carriera diplomatica.
Abitavamo in uno stupendo palazzo di marmo, dietro cui si stendevano magnifici giardini.
Non andavo a scuola. Una bella signora che abitava un appartamento del nostro palazzo, m’insegnò a scrivere, a leggere, a suonare e a ballare.
Quella stessa signora mi conduceva a chiesa, a passeggiare e a visitare le mie piccole amiche, sempre in bella carozza di seta a due cavalli.
Avevo cameriere e abiti di velluto: era a mia disposizione un grande appartamento mobiliato con lusso.
Facevo colazione e pranzo con mio padre, che non invitava mai nessuno ai nostri pasti luculliani.
Fritz Guëzmburg era, come ho detto, giovinissimo, e aristocratico sino all’estremità delle unghie.
Aveva capelli e baffi morbidi e biondi, la pelle bianca, pallida, il profilo regolare, e grandi occhi verdi grigi, contorniati da ciglia brune, e da un cerchio leggermente lucido.
Quei grandi occhi mi mettevano un brivido ogni volta che si volgevano su me. Si è che avevano una strana impressione, un’impronta di cupa tristezza; un raggio delle passioni di Guëzmburg, che passava traverso le ciglia semi-chiuse continuamente.
Egli parlava poco, non rideva mai, e una strana linea si disegnava nella sua fronte pallida, fra le sopraciglia nere e aggrottate. Era sempre vestito di nero.
Io l’amavo poco, mi pareva di amare di più la mia amica Edvige Scoël, e il mio pappagallo Giove: e del resto anche Fritz mi mostrava poca affezione, benché mi facesse dare una educazione brillante.
A dieci anni cominciavo ad avere del chic.
Suonavo e ballavo maravigliosamente, dipingevo e balbettavo qualche poco di francese, di inglese e italiano. Ordinavo le mie toelette e leggevo giornali colle loro rispettive appendici.
Guëzmburg diceva che avevo dell’ingegno precoce, e la mia institutrice (mi pare che si chiamasse Lena Wintorg) lo affermava...
Infine io vivevo felice nella mia solitudine, in mezzo al lusso delle sale del mio palazzo e dei domestici in livrea, colle mie bambole più alte di me e coi fiori.
Io amavo i fiori dall’acre odore, dalle foglie color sangue, specialmente i geranii e i cactus.
Ma un giorno la mia felicità fu turbata.
Guëzmburg mi disse:
– Fernanda, tra un mese dovremo lasciare Berlino.
Guardai stupefatta mio padre.
– Perché? – domandai.
Fritz mi guardò anch’egli coi suoi occhi grigi, privi d’ogni raggio di gioia, ma non rispose.
– Perché? – ripetei.
– Andremo in Ispagna, – seguitò poi – sono stato addetto all’ambasciata germanica presso la Corte di Sua Maestà Cattolica.
– A Madrid?
Fritz non rispose. Uscì stringendosi nelle spalle.
Io mi sdraiai più comodamente sul divano del mio salotto e seguitai a leggere le notizie del Wossische Zeitung.
In verità, poco mi premeva l’andare in Ispagna o rimanere a Berlino, purché avessi dei vestiti, delle bambole, dei giornali e dei fiori rossi...
La nostalgia per la mia fulva patria non sarebbe di certo passata nella mia anima.
Che volete?
Avevo dieci anni e leggevo le appendici dei giornali!...
III
Due mesi dopo, io e Fritz eravamo a bordo della Marie, una stupenda nave che viaggiava da Marsiglia ad Alicante.
Prima eravamo passati a Parigi, dove mio padre aveva affari da sistemare.
Non ho nessun ricordo della gran città, perché l’attraversai in carrozza, e il giorno che vi stetti, stetti rinchiusa nell’albergo, in una camera le cui pareti mi moltiplicavano all’infinito colle loro grandi specchiere di St. Gobain a cornici di bronzo.
Poi andammo a Marsiglia e partimmo sulla Marie.
Annottava.
S’era in alto mare vicini alle coste orientali della Spagna.
Ci trovavamo sul ponte: Fritz seduto su una panchetta, io appoggiata al parapetto di legno della Marie; ci godevamo il fresco di una bella notte dopo gli ardori di una giornata di luglio.
Le stelle splendevano nel cielo turchino, la Marie si lasciava dietro un solco fosforescente, e all’oriente una striscia color d’argento indicava che la luna non tarderebbe ad alzarsi.
Ero piccola ancora, tuttavia sentivo qualche cosa di poetico nella mia anima non ancora sbocciata; non potevo pensare all’amore; pensai a mia madre...
Strisciai sul parapetto e mi sedetti vicino a Fritz.
Non se ne accorse perché rimase immobile, cogli occhi grigi semichiusi rivolti alle onde.
Mi rizzai sulla panchetta, e accostai la mia bocca al suo orecchio. Volevo parlargli di mia madre.
Io non gliene avevo mai parlato, ma in quel momento, sotto i tremuli raggi delle stelle, sentivo tale un trasporto d’affetto per la defunta, che volevo sapere... che cosa? cento cose!...
Sicché all’orecchio di Guëzmburg mormorai con voce tremula:
– Sarah von Marck...
Non potei proseguire... Mi strinsi al petto le piccole braccia nude e sentii come un alito di ghiaccio passare sulla mia fronte.
Che cosa era avvenuto?
Qualche cosa di orribile, qualche cosa che io non dimenticai mai più e che in quel momento mi fece una sensazione che non potrei spiegare.
Come dissi, Fritz meditava, e non si accorse di me che pronunziavo al suo orecchio il nome di mia madre...
Se egli avesse ricevuto una potente scossa elettrica, io credo che non avrebbe avuto tanto tremore come quello che gli suscitò la mia voce e quel nome.
Diede un terribile sbalzo che lo gettò a traverso del parapetto due metri distante da me.
E in quella notte oscura, alla sola luce delle stelle, io vidi il corpo di Fritz agitarsi come colto da tremenda nevrosi, vidi il suo viso diventar livido, la sua bocca contrarsi, e i suoi occhi verdi grigi spalancarsi e mandare un raggio color celestegiallo, come la fiamma dei fuochi fatui.
Mandò un grido che mi parve un rantolo...
In quel punto la luna si alzò dal mare, grande, rossa, senza raggi.
Mi parve un’immensa foglia di geranio sanguinante.
Sangue! Sangue!
E una striscia come di fiamme e di sangue mi passò negli occhi.
Guardai Fritz... mi ricordai di mia madre, non vidi più nulla e caddi all’indietro svenuta.
Quando riaprii gli occhi, pochi istanti dopo, ero sempre stesa sulla panchetta.
Fritz era davanti a me, mi faceva odorare una boccetta di non so che cosa.
La luna color d’oro saliva sul cielo; i suoi primi raggi obbliqui illuminavano il volto di mio padre.
Lo guardai: egli era più pallido del solito, ma era impassibile e i suoi occhi erano tornati senza raggi a semichiudersi.
– Fernanda, – mi disse prendendomi le manine fredde, – Fernanda, perché ti sei sentita male?...
– E voi?... – esclamai con stupore.
– Ah! io! È stata la sorpresa... Non mi ero accorto di te, e la tua vocina mi ha spaventato... Come ti senti ora?
– Bene! – dissi rizzandomi a sedere. Ma le ragioni che adduceva Guëzmburg non mi soddisfecero. Quella scena m’aveva gettato innanzi un velo, un’ombra che non si staccò da me se non molto tardi.
Mio padre mi si sedette vicino.
– Ebbene! – disse con una voce che mi sembrò tremasse.
– Fernanda, di che cosa volevi parlarmi?...
Lo guardai di sbieco, e mi strinsi nelle spalle.
– È inutile! – risposi, e volevo aggiungere:
– È anche pericoloso, perché vi reca tanto spavento!...
– ma mi trattenni e alzandomi ritta stesi il dito in avanti.
La luna splendeva bene. Nel mare era cessata ogni fosforescenza, le stelle cominciavano a impallidire sul cielo biancastro, e le onde si frangevano tranquillamente contro gli speroni della Marie.
In lontananza, molto in lontananza, vedevo qualche cosa. Era una immensa linea nera, leggermente semicircolare, frastagliata, e ai cui due punti estremi splendevano punti microscopici di luce.
La additai a mio padre.
Egli montò il suo cannocchiale da viaggio e guardò.
– Fra poche ore – disse – saremo giunti alla nostra meta.
– Come?...
– Quell’immensa linea ricurva sono le coste della penisola Iberica, quei due punti estremi sono due città, credo, quella del nord Villajoyosa, quella del sud Alicante. Non ne sono sicuro però.
Poi porgendomi il cannocchiale soggiunse:
– Guarda, Nanda, vedi qualche cosa agitarsi quasi nel mezzo di quella costa?
– Sì.
– È un fiume, mi pare.
Nel medesimo istante, una troppa fresca brezza marina passò sulle nostre teste.
– Fa freddo, Nanda, scendiamo nelle nostre cabine.
E Fritz ci si incamminò. Io lo seguii.
Pochi istanti dopo ero coricata nel letto della mia cabina di legno grigio lucido.
Spensi il lume e rinchiusi gli occhi. Sentivo la testa pesarmi e affondarsi sui cuscini.
Era un dormi-veglia inebbriante, come quello che si prova quando si ha la febbre.
Mi sembrava che fossi di piombo.
Dei geranii, dei cactus, delle rose gigantesche, purpuree, fiammanti, ballavano una ridda intorno al mio letto.
Dietro v’era una luna color sangue che velava un viso livido dagli occhi grigi e raggianti: Fritz!
Ma a un tratto una figura vestita con uno stupendo costume all’ebrea si alzò avanti di tutto ciò.
Era mia madre. Ell’era quale l’avevo vista in ritratto, bianchissima, cogli occhi ovali neri, e i capelli a grandi trecce.
Una macchia di sangue sporcava il lato sinistro del suo kaso¹ di velluto verde a ricami di oro.
Sentivo la gola stretta, il cuore palpitare ferocemente; non era più un sogno il mio, era un incubo spaventevole. Io non avevo mai sognato di mia madre. Perché essa veniva a turbare i miei sogni, dopo la scena della coperta?
Mistero!
Sarah mi porgeva un pugnale con una mano, mentre con l’altra mi indicava la macchia di sangue del kaso.
Lontano vedevo delle fiamme inalzarsi al cielo.
L’Ebrea gettò a terra il pugnale, indicandomelo, poi si scostò, e mi mostrò a dito il viso livido di Fritz Guëzmburg... indi sparì tra le fiamme!...
Mandai un gemito e mi svegliai.
Avevo la testa bagnata di sudore, le mani tremanti.
Avevo paura, perché infine contavo appena dieci anni.
– Perché? Perché? – domandai.
L’eco della cabina mi rispose:
– Mistero! Mistero!...
Sorrisi un poco, poi mi riaddormentai tranquillamente.
IV
Quando poche ore dopo mi svegliai, fui molto sorpresa di trovarmi in una bellissima camera da letto, ferma.
Il sole vi penetrava in abbondanza, indorando le specchiere veneziane e le tappezzerie di Beauvais che coprivano le pareti.
Attraverso le tende di raso azzurro della finestra spalancata, vedevo il mare e il cielo pure azzurri e la Marie ancorata a poca distanza.
Ciò di fronte. A destra, per mezzo di un’altra finestra, vedevo una stupenda campagna verdeggiante, un piccolo villaggio avvolto in una nebbia azzurra, alla cui estremità s’inalzava un bel castello bianco.
Poi più in là, delle montagne coperte di boschi, e una grande striscia argentea che più tardi seppi essere un affluente del fiume Segura.
Era una stupenda mattina di luglio, una di quelle mattine conosciute soltanto in Ispagna e in Italia, coronata di rugiada splendente come il diamante, invasa dall’oro dei raggi del sole... Io sentii una immensa gioia nell’anima, scordai il terribile sogno della notte prima, e sorrisi al creato adorno delle sue più splendide vesti.
La portiera della mia camera si agitò lievemente e fra la stoffa di raso azzurro apparve la testa pallida di Fritz.
– Buon giorno! – gridai.
– Buon giorno, Nanda.
Mio padre rialzò le tende del mio letto e mi domandò se mi sentivo bene.
In verità! Fritz non si era mostrato mai così premuroso e tenero. Pareva che volesse farmi dimenticare qualche cosa di spiacevole.
– Siamo ad Alicante? – domandai. – E perché mi risveglio qui, mentre mi addormentai nella Marie?
– Ah! si è che dormivi così bene, che credetti di farti trasportare a terra senza svegliarti.
– Siamo ad Alicante? – ripetei.
– No, siamo nel castello di Estarêz, in riva al Mediterraneo. Alicante è molto lontano. Quel villaggio lì è Sant’Iosè come pure Sant’Iosè quel castello bianco, e Di Sant’Iosè i signori che vi abitano.
E seguitò a darmi delle spiegazioni.
Il castello d’Estarêz era assolutamente nostro. Aveva intorno dei bei giardini, e un vasto parco di quasi mille jugeri, magnificamente coltivato, per la caccia.
Fritz sarebbe andato a Madrid, ove avrebbe preso in affitto un appartamento, e sarebbe venuto a passare le domeniche e tutti i giorni di festa a Estarêz.
Perché non mi portava a Madrid? Perché?
Ci erano tanti perché, ma non gliene indirizzai nessuno.
I miei dieci anni non mi suggerivano nessun pensiero molesto. Ero contentissima di rimanere lì, in quella solitudine verdeggiante, in riva al mare... sulle rive frastagliate.
– Vuoi levarti? – domandò Guëzmburg.
-Sì.
– Farò venire la tua cameriera.
Altra sorpresa... Non avevamo condotto con noi, da Berlino, nessun domestico e nessuna domestica.
Donde usciva quella cameriera? Mentre mi facevo quella domanda, Fritz mi lasciò.
Poco dopo entrò una bella fanciulla. Poteva avere diciassette anni. Era bruna, rosea... con stupendi occhioni neri e capelli pure neri e arricciati. Vestiva un abbagliante abito di mattina da cameriera che si aderiva meravigliosamente alla sua taglia alta e sottile, e al suo portamento elegantissimo. Pareva una signora. Le sue rosse labbra sorridevano, ma nei suoi grandi occhi passava una striscia di mestizia, di vergogna.
– Buon giorno! – mi disse inchinandosi e con cattivo tedesco.
– Buon giorno.
– Qual abito vuole indossare?
Avevo portato da Berlino tutte le mie vesti.
– Uno qual siasi, – dissi.
La spagnuola mi vestì un piccolo accappatojo e mi condusse nello stanzino di teletta, attiguo.
Era piccolissimo, tappezzato con una stoffa di paglia e fili d’argento; v’erano stupende vasche di marmo azzurro, degli specchi, e una gran toeletta di ebano intarsiata.
La fanciulla mi spogliò, mi mise dentro una vasca e mi lavò con acqua tiepida e cold-cream.
Poi mi pettinò alla moda, e mi vestì un abitino di velluto verde, sopra la biancheria ricamata... bianchissima e profumata.
Frattanto discorrevamo.
– Come vi chiamate? – domandai.
– Cruz di Beleador.
Trasalii: quello non era un nome comune.
– E lei?
– Io? non ve lo hanno detto? mi chiamo Fernanda Guymburg – le risposi in ispagnuolo.
A sua volta Cruz trasalì.
– Ah! sa lo spagnuolo lei? – domandò in quella lingua.
– Sì, dacché lo parlo. Un poco!
– Dove lo ha appreso?
– In Berlino. Dal mio professore. E voi il tedesco?...
– Il tedesco?... Ah! lo stesso: da un professore.
– Voi?... – e sorrisi con un sorriso che voleva dire:
– Una cameriera darsi il gusto di imparare le lingue straniere? Puh!... – v’era del disprezzo.
Cruz non mi rispose, ma alzò verso di me i suoi occhi neri e mesti, dove vidi brillare una lacrima.
Compresi ciò che veramente era.
Cruz era di una famiglia ricca e nobile decaduta.
Ne ebbi pietà e rispetto. Da quel giorno fu tenuta più come damigella di compagnia che come cameriera.
Cruz seguitò a vestirmi in silenzio. Quando finì, mi guardai nello specchio. Parevo uscire dalla scatola; sorrisi.
– Faranno colazione alle undici, – disse Cruz. – Per ora che cosa vuol prendere?
– Una tazza di caffè.
Cruz suonò il campanello. Poco dopo ero servita da un piccolo cameriere in livrea.
– E ora, – dissi restituendo la tazza. – Cruz, volete farmi conoscere il castello?
– Naturalmente...
E mi condusse attraverso di Estarêz.
Quel castello non era molto grande, né moderno.
Più tardi, osservando le grandi finestre a sesto acuto, i balconi gotici, il ponte levatoio di ferro, e le gallerie di marmo bruno che davano sul cortile interno, mi convinsi che Estarêz era costruzione medievale.
I suoi fondamenti erano sulla roccia: in alto delle torri che guardavano sul mare, v’erano bei terrazzi fioriti, specie di giardini pensili, e dai merli ricadevano grandi grappoli di edera e di liane di un verde cupo, sui muri tinti d’un giallo rame, imbrunito dal tempo, e davano a Estarêz un bizzarro, poetico aspetto. Del resto, internamente, era ammobiliato elegantemente, alla moderna, con abbondanza di luce.
Ne fui rapita, e lassù, dai terrazzi, mandai un’esclamazione di gioia.
Che stupendo paesaggio!
Erano profili di villaggi, di valli, di monti lontano, che si perdevano in mezzo ad una lussureggiante verzura, avvolti di nebbia azzurra, sotto un cielo limpidissimo. Poi più in qua, delle colline, brune, un po’ sterili, coi soli fianchi coperti di boschi, poi praterie, poi il fiume che si perdeva nel bosco, e ricompariva in lontananza per gettarsi nel Segura.
E poi il villaggio di Sant’Iosè, col suo palazzotto bianco che si ostinavano a chiamarlo castello.
Giù, in riva al mare, sotto gli alberi, vi erano cinque o sei casine nascoste tra il fogliame, con le persiane verdi.