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Oltre l'odio
Oltre l'odio
Oltre l'odio
E-book409 pagine5 ore

Oltre l'odio

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Info su questo ebook

Nell'Appennino umbro-marchigiano, alle falde del monte Catria, si stende la valle del Metauro, dove da secoli regnano le grandi famiglie dei conti Galluri e dei marchesi Fabiani: i primi hanno la loro residenza nell'Assolata, un bel castello che si trova a pochi chilometri dalla Dranga, residenza dei Fabiani. È il 1845 e da qui prende le mosse il grande romanzo di Flavia Steno – pubblicato nel 1916 – per poi abbracciare gli ultimi decenni dell'Ottocento. Anni di forti cambiamenti, dall'Unità d'Italia alla costruzione delle prime ferrovie. Sullo sfondo di un mondo antico che muore sotto l'effetto centrifugo della modernità, sopravvivono tuttavia antichi intrighi e vecchie discordie che proiettano i lettori in un universo di vendetta... -
LinguaItaliano
Data di uscita8 giu 2022
ISBN9788728195307
Oltre l'odio

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    Anteprima del libro

    Oltre l'odio - Flavia Steno

    Oltre l'odio

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1916, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728195307

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    PROLOGO.

    Il castello dei G alluri in una gola dell’Appennino Umbro-Toscano, dal versante dello Marche, proprio sotto la bocca Trabaria, il famoso valico che Garibaldi passò seguendo la Via Flaminia da Roma a Gastelfidardo; dietro il castello, su verso la montagna, nessun villaggio più, solo la macchia fitta, cupa, sino alla vetta del valico: di là dal versante, San Giustino d’Umbria; in lontananza, Città di Castello e tutta l'ampia valle tiberina ancora alla sorgente; davanti al castello dei Galluri verso oriente, la melanconica valle del Metauro che da I,amoli d’Urbino sino a Sant’Angelo in Vado corre triste e stretta chiusa da due enormi muraglioni granitici: l’Appennino Toscano a sinistra e i monti delle Marche a destra.

    All’orizzonte, le vette del Catria, poetico.

    È una serata deliziosa d’agosto: nel 1815: la data equivale a una spiegazione storica.

    Vale a dire che il paese era retto ancora a sistema feudale: il governo pontificio fiacco e incurante, trovava comodissimo il sistema: sopra la turba dei servi prostrati e avviliti regnava il padrone delle terre e delle macchie dominante dalle finestre ogivali di qualche vecchia bicocca in ruina, e sopra il signorotto imperavano ancora i briganti, re della macchia quelli, e a volte giustizieri "del vizio, rivendicatori del debole, e terrore dei baldanzosi.

    Così in quell’anno 1815, in tutta l’alta valle del Metauro, regnavano due famiglie ugualmente rispettate: quella dei conti Galluri e quella dei marchesi Fabiani.

    L’« Assolata», il castello dei Galluri, distava appena tre chilometri dalla «Dranga», la casa dei Fabiani.

    All’epoca in cui incomincia il nostro racconto, la «Dranga.» era chiusa e disabitata da circa due anni: i vecchi marchesi Fabiani eran morti, e dei duo figli, Guido e Giulia, limasti soli, nessuno sapeva più nulla.

    Anche 1’« Assolata » era rimasta chiusa per circa due anni: e anche qui i vecchi conti eran morti: dei tre figli rimasti, Roberto, il secondogenito, correva il mondo, la contessina Vera era andata in sposa al marchese Spano da Gubbio, ed Enzo, l'erede del titolo e della fortuna patema, era tornato da pochi giorni appena dopo un’assenza di quasi due anni.

    Il suo ritorno era stato un avvenimento di cui s’era parlato a dieci leghe intorno, molto più ch’egli aveva portato con sè la spasa, una fanciulla bionda e bianca bella come una madonna.

    — Si adorano, — diceva la gente del villaggio, e nessuno stentava a crederlo.

    Nella sera in cui incomincia il nostro racconto, la contessa Clara, la moglie di Enzo, soffriva il primo e più gran dolore di sua vita. Essa aveva dovuto Separarsi per ventiquattr’orc dallo sposo adorato e, tutta sola per la prima volta dopo il matrimonio recente, non sapeva darsene pace. Pure, bisognava rassegnarsi.

    Enzo era andato a San Giustino d’Umbria, di là dalla montagna, a ricevere due cavalli portatigli dalla Maremma da un colono che s’era ammalato a mezza via.

    Cosi diceva almeno il biglietto ch’egli aveva ricevuto due giorni prima e in seguito al quale avrebbe dovuto partire.

    Sarebbe tornato l’indomani. Ventdquattr’ore di assenza soltanto, un nulla, ma un nulla che alla contessa Clara sembrava l’eternità.

    L’assenza di Enzo significava per lei la solitudine, e la solitudine lassù, nel triste castello cupo perduto nella macchia, era cosa da dare i brividi.

    Enzo era partito da due ore soltanto, imbruniva e colla notte era calato un temporale terribile.

    Bitta, presso una delle grandi finestre che rischiaravano la sala, la contessa, aspettava immobile la fine della bufera: il suo viso pallido e angosciato invelava tutto lo strazio dell’anima inquieta, le mani istintivamente congiunte in atto di preghiera tremavano un poco come le labbra della povera sola.

    Fuori la pioggia continuava a battere furiosamente sui vetri.

    I servi sparecchiavano silenziosi osservando tratto Itratto l’incpiictudine della loro signora.

    — Accendete le lampade, Pietro, — osservò Fanny, la fida cameriera della contessali avvicinandosi poi a Clotilde, una vecchia domestica della casa:

    — Che ne dite? — susurrò.

    La donna alzò gli occhi interrogando.

    — Del tempo? Brutto. Il padrone passerà un cattivo quarto d’ora.

    — Pensate che non troverà nessun asilo sulla montagna?

    — Eh, dipendo! — continuò la Clotilde senza mostrarsi troppo inquieta. — Se il tempo li ha presi passato il valico sì, ma altrimenti….

    Scosse il capo con una smorfia significante, ma mentre Fanny si sentiva gelare il sangue d’orrore all’idea d’una disgrazia possibile, Clotilde non pareva troppo commossa.

    II suo freddo occhio azzurro guardava calmo e pungente con una punta di crudeltà che la giovane cameriera rilevò:

    — Povera la mia signora! — susurrò soltanto guardandola.

    — Fanny, — chiamò in quel momento la contessa volgendosi verso le duo donne, — ho paura, Fanny.

    Pareva una dolce bambina invocante pietà.

    — Si faccia coraggio, signora, non sarà nulla. Anche la Clotilde dice ohe non o’è da spaventarsi.

    La contessa si rivolse alla governante:

    — Davvero?

    — Eh signora! — fece questa leggermente sprezzante, — bisogna aver coraggio. Vuol vederne altre in questi posti se si fermerà!

    Poi, malgrado i cernii disperati di ‘Fanny perchè stesse zitta, cominciò a narrare episodi su episodi, uno più truce dell’altro, con uno scilinguagnolo tanto inesauribile ebe la contessa doveva a momenti socchiudere gli occhi sotto quella tempesta di parole.

    Pure i racconti di Clotilde la interessavano assai perchè si riferivano quasi tutti al suo Enzo, di cui la donna narrava il coraggio e lo avventure.

    Poi narrava bene; era romana, aveva la parola facile ed abbondante, la pittura riva, la fantasia pronta.

    A volte diceva cose orribili che invece di tranquillizzare la contessa riuscivano a darle brividi di spavento e visioni atroci.

    Così quando raccontò d'uu certo viaggio del conte Enzo da Crosio a Canoscio: in una macchia cupa di briganti gli avevano sparato contro parecchie fucilate secche andate tutte a vuoto; egli s’era salvato cacciando gli sproni nel ventre del cavallo, eccitandolo colla voce, colla mano, colle grida ad una fuga disperata, sempre inseguiti dai banditi, sempre accompagnati dalle fucilato. E alla uscita della macchia il cavallo era caduto morto.

    — Basta! per carità, — susurrò la contessa alla fine del racconto.

    — Eh, non bisogna pensarci, signora! Dapprima si capisce che fa un po’ impressione, poi ci s’abitua o non ci si bada più. Nessuno ci pensa qui.

    Un furioso latrar di cani fuori nel cortile l’interruppe.

    Le tre donne si guardarono.

    — Enzo! — esclamò istintivamente la contessa balzando in piedi.

    Ma Clotilde più pronta l’aveva già prevenuta.

    — Impossibile, signora, — disse avviandosi per aprire.

    — Mandate Pietro a vedere.

    — Esco io, signora.

    La sala aveva due uscite: una sul corridoio, l’altra in cucina.

    Clotilde prose la prima; nell’atrio incontrò Pietro che con una lampada in mano s’avviava già per vedere.

    — Vado io, Pietro, — disse la donna respingendolo.

    — Come, voi?

    Era strano ch’essa uscisse sola con quel tempo d’inferno.

    — Sì, la signora sarà più persuasa.

    Il garzone l’osservò un attimo, tentennando il capo: gli parve certo un po’ sospetta quella premura così umile, ma non disse parola e rientra') in cucina lieto d’essersi risparmiata una doccia fresca.

    Clotilde depose in terra la lampada che si spense appena aperta la porta: una raffica di vento furioso la investì respingendola un momento, poi s’avanzò di nuovo e gettò un’occhiata nel cortile deserto; i due cani legati alLa catena erano però sempre in piedi colla testa alzata, le orecchie tese e brontolavano sordamente.

    Verso il muro di cinta, un’ombra nera strisciò un istante rasente terra, poi scomparve sotto unatettoia che serviva di ripostiglio e di legnaia.

    Clotilde vide distintamente l’ombra: un attimo il cuore le battè fortemente e forte ebbe anche l’idea di gridare. Poi brontolò una frasaccia e, acquetati i cani con una carezza, raccolse la lampada e rientrò in salotto.

    Era tutta fradicia.

    — Nulla, — disse, — sforzandosi di sorridere. Ma era pallidissima e tremava un poco.

    — Povera Clotilde! avete avuto paura, vero? — domandò la contessa premurosamente.

    — Chò! o lo pare? paura d’un po’ di acqua?

    — Cosa avevano dunque i cani?

    — E chi lo sa? A volte un nonnulla basta per inquietarli: un gatto, l’ombra d’una pianta che si muova, un rumore lontano, sono tanto attenti i barboni del signor conte! — disse tutto nervosamente coll’occhio più vivo e l’accento socco.

    Intanto il temporale s’cra calmato un po’: fuori, al campanile lontano del paese, batterono le nove.

    Anche la contessa pareva più calma.

    — Come sono lento questo serate, — susurrò, come parlando a sè stessa.

    — Eh tutto dipende d’abituarcisi, — replicò ancora Clotilde.

    — Sicuro! Voi ci siete abituata, vero? Ci siete da tanti anni qui.

    Era strana la domanda: strano clic la contessa non sapesse da quanto tempo una donna, era nella casa di suo marito.

    Enzo le aveva bensì detto clic all'«Assolata» ella avrebbe trovato una donna fida, cresciuta colà e affezionatissima, ma, tutta assorbita dalla sua felicità recente, non si era mai troppo occupata della servitù.

    Clotilde aveva arrossito violentemente:

    — Ci sono dai quindici anni, — mormorò.

    E per la prima volta la contessa l’osservò bone: era ancor giovine la Clotilde, poteva avere trentanni al più, e bella, di quella bellezza sana e rigogliosa propria delle donno romane. Alta, forte di petto e di fianchi, bionda e colorita, vero ritratto di donna fiorente.

    E quella donna da quindici anni stara nella casa di suo marito, lo aveva conosciuto quasi ancora bambino, ne sapeva lo abitudini, le prodezze, il passato tutto, giorno per giorno.

    — Da quindici anni! — ripetè piano quasi pensando. — Ë molto.

    Clotilde tacque.

    — Avete conosciuto allora i parenti del conte?

    — Se libo conosciuti? Credo bene! la contessa mi voleva bene come a una figliola; la contessimi Vera mi teneva come una sorella. E il sor Roberto dunque! Era piccino piccino come un frugolo quando io venni qua. Me lo davano perchè lo custodissi e lo so dire che ce n'aveva dcH’aqjento vivo indosso! Tutto il giorno quant’ò lungo era un correre e gridare su pei greppi, nella macchia, pei fossi! Non si poteva tenerlo quel figliolo!

    La contessa sorrise.

    — Gli vorrete bene allora, eh?

    — Come a un mio figliolo! — sospirò la Clotilde. — Quando parti le so dire che ne feci del piangere I

    Davvero pareva commoversi ancorali la contessa sembrava interessarsi a quel cognato lontano, solo pel mondo.

    Era naturalo che la governante lo conoscesse meno: maggiore di quasi dieci anni del fratello Enzo, non aveva certo diviso con lui e la piccola bambinaia d’allora i giuochi dell’infanzia.

    Però un desiderio ardente la prendeva di conoscere un po’ l’intimo passato del marito, ma non sapeva come prendersi per interrogare.

    Finalmente trovò:

    — Quando andò sposa la contessimi Vera, — disse, — rimaneste sola qua?

    — Oh no; — disse la donna corruscando la fronte, — e’era pure il conte Enzo.

    — E non s’annoiava solo quassù?

    — Eh, — replicò la Clotilde, — allora c’era il marchesino Fabiani elio gli teneva compagnia; erano sempre insieme su per la macchia a caccia, facevano molte gite a cavallo, sovente andavano insieme a Vallalba o vi restavano delle settimane.

    La contessa sorrideva.

    Sì, essa, conosceva tutto quel passato: così le aveva pur narrato il suo Enzo,; di una gioventù austera trascorsa tutta nella rude e sana vita dei monti, vergine di cuore e di spirito, altero e coraggioso come un eroe di leggende antiche.

    Così le era apparso un giorno negli splendidi saloni di una delle prime case fiorentine, conquistandola subito colla franchezza dello sguardo, quasi audace sotto le ciglia folte, ool largo sorriso sempre fiorente sotto i lini baffi nerissimi.

    La dolcezza dei ricordi l’assorbì un poco e abbancìonandovisi tutta finì quasi per sopirsi nell’ampia poltrona antica.

    Un’altra volta la vasta sala, ricadde nel silenzio.

    Uun’altra volta suonarono lontano le ore: le undici.

    Le due domestiche lavoravano silenziose accanto al tavolo sotto la raccolta luce del paralume. Nessun ramore più ncppur fuori. Tratto tratto un colpo sordo e forte veniva dalla rimessa: una zampata di cavallo, ohe tutti conoscevano, che non spaventava più nessuno.

    Però a un tratto s’udì distintamente uno scricchiolìo secco ed improvviso.

    La contessa, destata di soprassalto dalle sue dolci fantasticherie, trasalì.

    — Che è? — domandò affannata tendendo l’orecchio.

    Fanny guardò la governante inquietissima» Anche questa era impallidita, ma con gran calma umile:

    — Perdoni, signora contessa, sono stata io colla sedia.

    — Ah! m’era parso fuori! Ilio clic spavento!

    — Anche a me era parso fuori, — disse Fanny.

    — Si rassicurino, fu proprio la sedia.

    — Che oro sono"! — chiose ancora la contessa.

    — Le undici suonate, signora, — s’affrettò a soggiungere Fanny clic cascava dal sonno.

    — Le undici? F ora d’andar a dormire allora. Passerà più presto la notte.

    — Come crede la signora, — susurré Clotilde. F tutta premurosa: — Ira signora non ha bisogno di nulla? — domandò.

    — No, grazie, Clotilde; Fanny m’aiuterà a spogliarmi. Voi date un’occhiata, agii usci che sieno tutti ben chiusi e poi andatevene pur a dormire.

    — Non dubiti la signora.

    Stette a vederla uscire, s’avvicinò anche alla porta per udirla salire le scalo seguita, dalla sua fida cameriera e solo quando ebbe la certezza clic l'uscio dell’appartamento sopra era stato chiuso, ritornò nel mezzo della sala.. Il suo viso s’era trasformato: pallida come una morta aveva tutta, la vita e la forza concentrata negli occhi. Le tremavamo non poco le mani e pareva inquietissima.

    Stette un poco come dubbiosa pensando, poi andò in cucina: da un armadio fisso nel muro che serviva di rastrelliera ai molti fucili del conto, trasse ima rivoltella, la caricò, la pose nella tasca del grembiulone ampio da massaia: accese una lanterna cieca, ritornò in salotto, spense il lume sopra la tavola, poi molto cautamente uscì nel corridoio che metteva nel cortile. Prima d'aprire l’uscio di questo s’accertò che tutti, garzoni, servo o giardiniere dormissero. Stette un momento in ascolto.

    Attraverso l’uscio massimo che metteva nelle stanze a terreno occupate dagli uomini, si sentiva russare sonoramente. Respirò.

    Aperse pianissimo la porta assicurata da due sbarro di ferro incrociate, poi richiuse. Accarezzò i due cani che pronti s’erano alzati al suo comparire, li acquetò, depose la lampada presso l'uscio e impugnata la rivoltella si avvicinò cautamente verso la legnaia dove, due ore prima, aveva veduto strisciare l’ombra sospetta.

    Non udì il minimo rumore.

    Quando rientrò dopo pochi minuti e raccolta la lampada s'avviò vèrso la sua stanza da letto, il suo volto, già pallido, era divenuto cadaverico: gli occhi fissi, sbarrati, avevano una strana luce crudele, e le mani tremanti ebbero appena, la forza di togliere lentamente le capsule della rivoltella e di rimetterla al posto dove l’aveva presa.

    Ciò fatto, si spogliò nervosamente e si cacciò sotto le coltri.

    Intanto sopra nell’appartamento della contessa, Fanny finiva la toletta notturna della sua signora.. Bellissima nel ricco accappatoio azzurro coi biondi capelli raccolti in treccia copiosa e abbandonati sulle spalle, la giovane sposa, pareva più una bimba che una donna.

    Quand’ebbe finito, vedendo che la contessa non si alzava dalla poltroncina, la cameriera, rimase un momento immobile in mezzo alla camera aspettando gli ordini.

    Ma gli ordini non venivano od ossa cascava dal sonno.

    — La signora desidera clic io la spogli? — osò chiedere.

    — No, mia buona Fanny, non ho sonno e non dormirò così subito. Vai pure a coricarti: farò da me. Addio.

    — Buon riposo alla signora, — disse rispettosamente la fanciulla, o felice di potersi riposare se ne andò.

    Dieci minuti dopo essa dormiva già profondamente e tutta la casa era, immersa nel silenzio e ncll’oscurità più profonda.

    La contessa rimase ancora un poco immobile, poi s’inginocchiò sul suo inginocchiatoio o piamente cominciò lo preghiere.

    Era triste sempre o un po’ inquieta in fondo pici suo Enzo adorato.

    Quella, camera nuziale, ampia e severa, col ginn letto tutto nascosto dalle cortine cupe, le dava una impressione strana, assai turbante.

    Si stava così bene in due in quella camera, ma sola, sola, oh quanto era triste.

    — Non potrò dormire, — pensò.

    S’avvicinò un istante all’ampia finestra, che metteva su d’un balcone, ma mentre stava per aprirla e uscire un po’, un lampo solcò l’azzurro del cielo e la, foce rabbrividire.

    — Ricomincia il temporale, — mormorò, — sarà meglio ch’io vada a letto; se non potrò dormire, leggerò.

    Da una piccola biblioteca, appesa nell’angolo, trasse una Bibbia finemente rilegata e la depose sul tavolino accanto al lotto.

    Ciò fatto, slacciò lentamente hi vestaglia azzurra e apparve bianca, fino come un giglio flessuoso nell’onda candida della camicia vaporosa.

    Mentre si chinava per raccogliere l’accappatoio caduto, un colpo aspro, stecco, di vetro spezzato, la fece trasalire.

    Si volse palpitante, e il terrore, che la paralizzò tutta, le strozzò in gola un grido terribile.

    La finestra del balcone s’era spalancata e di fronte a lei, ritto, nel vano buio stava un uomo mascherato.

    — Una sola parola, un grido, e siete perduta! — disse lo sconosciuto avvicinandosi e puntando verso il suo petto la canna lucida d’una rivoltella.

    La contessa non pensava certo a gridare: pallida o tremante, orribilmente spaventata, ella si sentiva perduta. Non sarebbe stata neppur capace di muoversi o d'articolare parola. Tutte le orribili e truci storie di assassini, di rapimenti, di briganti le si affollarono a un tratto confusamente nel cervello come una vertigine.

    E nell’atroce spavento di quell’apparizione un’idea sola chiara o viva:

    — Un bandito!

    — Guardatemi, — riprese lo sconosciuto, — non voglio farvi alcun male.

    E suo malgrado, colpita dallo strano tono di quella voce quasi gentile, tanto diversa da quella imperiosa e terribile di pochi istanti prima, la povera smarrita osò alzare gli occhi.

    L’uomo s’era strappata la maschera e apparve allora qual era — un bellissimo giovane di forse venticinque anni. — Malgrado lo strano e rozzo costumo di fustagno blu e il cappellaccio calato tutto sugli occhi, la posa e il gesto rivelarono in lui qualcosa di fino. Pallido e bruno, aveva gli occhi fosforescenti d’odio e la bocca tumida contratta.

    Un attimo, quando il suo sguardo incontrò quello della contessa tremulo, smarrito, orribilmente pieno ď angoscia, parve esitare; poi, un’ espressione d’odio feroce gli lo’ stringere i denti e raggrinzare la fronte.

    — Contessa Galluri, — disse freddo con voce roca e cupa, stranamente contrastante colle parole che pronunciava, — non v’ucciderò.

    Clara, che questo parole rianimarono un po’, cadde a ginocchi e giungendo le mani verso il bandito:

    — In nome di Dio! che volete adunque?

    L’occhio di lui la percorse tutta da capo a piedi con avidità e la sua bocca pronunciò una sola frase:

    — Siete bella assai!

    Dire lo stupore della contessa è impossibile; troppo innocente ed ingenua per comprendere il significato di quelle parole, credette di non aver ben capito, ma:

    — Siete bella e vi amo! — replicò il bandito.

    — Voi!… voi!… — susurrò sbigottita la contessa.

    — Io! vi amo, — egli ripetè chinandosi verso di lei.

    La terribile verità s’affacciò allora alla mente della povera disgraziata! Orribilmente sgomenta, più spaventata dall'idea di dover appartenere a quell’uomo, che dalla paura della morte, tentò svincolarsi da quell’ abbraccio feroce, e radunando le sue scarse forze:

    — Aiuto! — volle gridare.

    Una mano robusta le chiuse il grido nella gola.

    — Meno scene, contessa Galluri, e sopratutto state tranquilla. La mia rivoltella non sopporta capricci di donne.

    L’infelice rovesciò il capo susurrando ancora:

    — Pietà!… Enzo!… Enzo!…

    A quell’ora il conte Enzo Galluri giungeva a San Giustino.

    Sorpreso dal temporale, egli aveva dovuto fermarsi, poco dopo superato il valico, in una vecchia rimessa lasciata sulla montagna a comodo dei viaggiatori. Così, invcoc di arrivare alla, mèta prima di notte, vi giungeva poco prima dell’alba.

    Ma lo attendeva una sorpresa inaspettata.: l’uomo da lui mandato in Maremma ora giunto nella notte stessa coi cavalli tutti sani e forti, per nulla indisposti dal lungo viaggio, compiuto d’altronde a piccole tappe, appunto per risparmio di fatica.

    Se da una parte gli recava assai piacere la certezza di vedere i suoi cavalli tutti sani, dall’altra, il conte Enzo noli sapeva però spiegarsi come mai e da chi venisse quello scherzo di cattivo genere, il perchè di quel falso messaggio.

    Dopo un inutile fantasticare, si coricò volendo riposare almeno gualche ora prima di riprendere la via di Crosio.

    Ma malgrado la fatica del viaggio non potè addormentarsi.

    Il pensiero deH’ingarmo tesogli lo teneva assai inguieto: gualcuno certo doveva aver avuto interesse ch’egli facesse guel viaggio: ma chi era guesto gualcuno?

    Pensò un tiro da banditi, lo volessero depredare?

    In tal caso come spiegarsi il viaggio fatto tutto senza molestie?

    Avessero intenzione d’aggredirlo nel ritorno per rapirgli i cavalli?

    Anche guesta supposizione non lo persuadeva; i briganti avrebbero anzi fatto meglio il loro giuoco aggredendo solo il garzone che faceva da guida.

    Ad ogni modo però sarebbe stato in guardia nel ritorno.

    Così disposto chiuse gli occhi e passò un paio d’ore in un dormiveglia riposante.

    Quando s'alzò spuntava già il sole lontano dietro le vette del Catria.

    I cavalli furono presto pronti, e siccome nulla di anormale si annunziava, la carovana si mise in moto tiranguilla.

    Fino al valico tutto andò bene.

    Lassù, mentre dinzo ordinava di fare riposare i cavalli, s’udì a uu tratto un fischio lungo e acuto, come di palla tagliante l’aria.

    Non era una palla, ma una piccola freccia che venne a cadere proprio ai piedi del conte.

    — Bel colpo! — disse sorridendo il colono che accompagnava le bestie.

    Abituato agli scherzi dei banditi, egli non si lasciava più corto impressionare.

    — Un ricatto, — pensò il conte abbassandosi a raccogliere la freccia a cui era attaccato un foglietto bianco accuratamente piegato in guattro.

    Lo spiegò con abbastanza calma, ma subito impallidì mortalmente, e, gettata una tremenda bestemmia, saltò in sella e cacciando gli sproni nel ventre del cavallo, partì a galoppo giù pel pendio divorando la strada, in una tuga pazza, disperata, lasciando il garzone mezzo stordito da ciucila scena inaspettata.

    Il foglietto non era un ricatto: conteneva solo una frase, ma perfidamente atroce:

    — «Avete una moglie deliziosa, conte Ualluri, ve «ne felicito di cuore».

    Ma quella frase, dietro la quale pareva di vedere un sogghigno infernale, era bastata ad Enzo per prevedere una Sciagura.

    Mentre il cavallo spronato a sangue correra furibondo attraverso i viottoli precipitanti, saltando cespugli, fossati, macchie; nitrendo, sbuffando, coperto di sudore, di schiuma e di polvere, egli si sentiva morire d’impazienza; a un tratto rammentò l’inquietudine profonda della sua diletta che non poteva rassegnarsi a vederlo partile, che certo doveva aver tremato por lui.

    Se la strada fosse stata più lunga, certo non avrebbe potuto resistere e sarebbe impazzito per via a forza, di supposizioni atroci.

    Ma in lontananza spuntavano già i tetti di Crosio e si sentiva scorrere il Meta al di là della, macchia.

    — Hopl Hopl… corri liianca! ci siamo, — gridò il conte per incoraggiare colla voce l’estenuata bestia.

    Giunsero finalmente clic appena il sole indorava il tetto del castello.

    Un silenzio di morte intorno.

    Nulla al di fuori che annunciasse il terribile dramma avvenuto nella notte: nell’ ora serena e dolce, 1’ « Assolata » pareva un paradiso.

    Tutto era come sempre: lungo il viale, l’erba ancora rugiadosa brillava al sole: qualche monotono trillo di cicala e uno stormir di foglie nella macchia turbavano colà il silenzio; nel prato due mucche brucavano tranquille guardando il verde e l'azzurro diffuso coi dolci occhi grandi e bruni.

    Non un’anima viva: una tranquillità profonda, una pace infinita che calmò un poco lo spavento del conte.

    — Forse non èra che una minaccia, — pensò.

    Volse lo sguardo ansioso alle finestre dell’appartamento di Clara: tutte chiuse, anche le griglie del balcone erano ancora accostate, evidentemente la contessa dormiva.

    Saltò a terra ancora tutto convulso, gettò le briglie al garzone che era accorso al galoppo del cavallo, e s’avviò su per la breve scala d’entrata.

    Sull’uscio della cucina incontrò Fanny che gettò un’esclamazione di sorpresa vedendolo in tonto disordine.

    — Mio Dio! che c’è stato?

    — Dov’ò Clara? — chiese ®nzo senza rispondere all’osservazione della cameriera.

    — La signora contessa non m’ha chiamata ancora, deve dormire. E presto.

    — Va bene, — disse il conte respirando: e salì di corsa i gradini della scala.

    Davanti all’uscio che metteva all'appartamento di sua moglie si formò un momento: voleva entrar piano per non destare Clara.

    Attraversò in punta di piedi il salottdno e il piccolo gabinetto di toletta: aperse pianissimo l’uscio della stanza ed entrò.

    Una mezza luce, un silenzio profondo.

    Certo Clara dormiva.

    S’accostò al letto e aperse le cortine, ma gettò un grido di spavento.

    — Dio, la sventura preveduta!

    Clara era là; non nel letto riposante, ma gettata di traverso sulle coperte, coi biondi capelli disfatti, le trino della camicia strappate, il viso cereo, gli occhi chiusi, la bocca semiaperta.

    — Morta?

    Il conto lo credette. Si gettò sulla diletta scoppiando in singhiozzi disperati baciandole le mani, gli occhi, la bocca….

    Allora vide sulle osili spalle di lei, sul petto, sulle braccia dei segni lividi di violenza e ancora…. la piccola mano destra che stringeva

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