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Giorni di gloria: Gioventù eretica
Giorni di gloria: Gioventù eretica
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E-book233 pagine3 ore

Giorni di gloria: Gioventù eretica

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Info su questo ebook

Giorni di gloria è la storia di una battaglia che incendiò l'estate e l'autunno del 1979. Tutto cominciò l'anno prima, quando i Sangavinacci, un gruppo di ragazzini come noi, ce le suonò di santa ragione. Motivo del contendere, alcuni alberi di castagne situati in una zona al confine tra il nostro e il loro territorio, zona di cui ogni fazione ne reclamava il possesso. E così, attraverso le pagine che ricordano l'organizzazione e lo svolgimento di quella battaglia, si dipana la storia di un quartiere povero e del suo giovane popolo, formato da ragazzini scapestrati e alcuni un po' più grandi ma per questo non meno irresponsabili. E' la celebrazione di una vittoria che illuminò l'animo di quel manipolo di incoscienti, che per qualche tempo, forse, dimenticarono tutte le difficoltà economiche e sociali che quotidianamente riempivano le loro giornate, tra genitori a volte violenti e la vita là fuori affrontata sempre in modo scriteriato.
LinguaItaliano
Data di uscita5 gen 2024
ISBN9791222712901
Giorni di gloria: Gioventù eretica

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    Anteprima del libro

    Giorni di gloria - Gavino Tedde

    Prefazione

    Ci sono luoghi che abitano dentro di noi: San Leonardo, la Piazzetta, il Boschetto, Punta Idda, ci sono rimasti addosso. Chissà il perché! Forse perché li abbiamo percorsi nelle lunghe ed assolate giornate estive o in quelle ventose invernali, quando la tramontana screpolava la pelle delle mani e delle labbra nei nostri visi.

    Quelle strade impolverate del quartiere popolare di Ozieri, hanno misurato l'energia e l'esuberanza della generazione che è nata in quei piccoli appartamenti di pochi metri quadri, formatasi in una piccola scuola di periferia che aveva di fronte, per tanti anni, la discarica pubblica e, successivamente, un campo di calcio e un palazzetto dello sport, intitolati a due giovani di Punta Idda, mancati prematuramente.

    Prevedibile ed inevitabile quindi, che tutto ciò che era all'esterno delle minuscole case rappresentasse il mondo dove imparare a giocare, conoscere, sperimentare le emozioni, inconsapevoli che ciò si chiama vivere. Quel mondo aveva precisi confini, ben raccontati in questo libro, che Gavino ha saputo descrivere, nei minimi particolari. Un microcosmo dove la spensieratezza, l'incoscienza e il rischio erano elementi costanti del vivere quotidiano. La sua narrazione, minuziosa e dettagliata nella descrizione fisica e caratteriale di ogni suo compagno di giochi e avventure, ti porta lì, accanto ad essi e quasi avverti la loro sana e pulsante energia.

    Leggere questo libro è stato come viaggiare sulle montagne russe, poiché da una parte, abbiamo rivissuto le intense emozioni provate dai ragazzi in quella magica estate del '79, dall’altra, come adulti di oggi, con sgomento ci siamo rese conto di quanto, tanta spregiudicatezza ed imprudenza in quei giochi, potesse costare cara.

    Altresì emerge il forte senso di lealtà e amicizia, il sentimento di appartenenza ad un gruppo di coraggiosi ed impavidi adolescenti che, in poco tempo, sarebbero diventati uomini, lasciando i confini del loro quartiere-mondo, per percorrere ed incrociare strade diverse. Si intuisce una periferia con situazioni economico sociali difficili, nuclei familiari numerosi e a basso reddito, scuola poco inclusiva (nonostante alcuni maestri illuminati sperimentassero in quegli anni metodi innovativi). Le fragilità individuali sono raccontate da Gavino con delicatezza e sensibilità, quasi come lo schizzo di un ritratto fatto da un pittore con le matite colorate.

    La piazza San Leonardo è stato il punto d'incontro di tutti i protagonisti del libro, centro di snodo tra bisogni silenti e desideri di rivalsa; luogo dove iniziare a costruirsi un'identità, punto di partenza per l'età adulta.

    A nostro avviso, nonostante la povertà delle risorse, la mancanza e la carenza di istituzioni socio educative, quel quartiere povero e popolare, ha contribuito notevolmente alla crescita e al consolidamento di valori quali amicizia, condivisione, accettazione e solidarietà.

    Con lo stesso spirito dello scrittore, nell'estate del 2009, un gruppo di amici d’infanzia, si è ritrovato nella Piazzetta e, un po' per gioco un po' per nostalgia, in una serata dove il ricordo di quel luogo così caro era particolarmente struggente, ha iniziato a ragionare per cercare di recuperare e dare una nuova vita al quartiere.

    E’ nata così l’Associazione San Leonardo Bidda Noa che, chiamando a raccolta i ragazzi nati e cresciuti nel quartiere, negli anni è arrivata ad avere più di 150 soci. Da allora, ogni anno nel mese di agosto, la Piazzetta si anima per una festa, dove vengono chiamati a raccolta i ragazzi di ieri e quelli di oggi.

    Quella periferia popolare e vivace, ha davvero lasciato impronte indelebili nel cuore di quanti vi sono cresciuti, poveri, liberi, sprezzanti del pericolo ed...eretici.

    Sentirsi raccontare i ricordi e le emozioni per molti non ha nessun significato, ma noi leggendo le parole di Gavino, ci siamo rispecchiati, rivedendo la nostra storia.

    Onorate ed orgogliose ti ringraziamo per questo dono di grande amicizia.

    Beatrice Chessa e Lea Corrias

    Associazione San Leonardo Bidda Noa

    Introduzione

    Giorni di gloria: è il titolo giusto per questa piccola opera, frutto della voglia di un gruppo di vecchi amici di raccontare, attraverso queste pagine, la storia di un periodo, quello che va dai 10 fino ai 15 anni, vissuti da noi in un mondo che purtroppo non esiste più, di un tempo trascorso troppo in fretta, in cui abbiamo maturato tutte quelle esperienze che ci sono servite nel resto della vita, esperienze che sono state tante e spesso vissute senza la paura che avrebbero comportato qualche schiaffo di troppo. Un viaggio mnemonico fondato essenzialmente su ricordi ancora vivissimi, a dispetto del trascorrere del tempo, conservati nella memoria di tutti i protagonisti. Perché aggiungere al titolo, pur se tra parentesi, le parole Gioventù eretica? Perché rappresentano in maniera assiomatica quei ragazzi che fummo. Perché l’eretico è, per definizione, una persona libera, che rifiuta il pensiero unico e non accetta ciò che viene spacciato come dogma o verità assoluta. Deriva dal greco hairetikós, colui che ha fatto la sua scelta, e noi, inconsapevolmente, scegliemmo, con libero atto di volontà, di essere dei giovani eretici; agivamo spesso sprezzanti del rischio e la presuntuosità che le nostre azioni avrebbero avuto sempre successo. Eravamo costantemente alla ricerca di qualcosa: perennemente disobbedienti, quasi orgogliosi del nostro autolesionismo, in quanto consapevoli che il nostro modo di agire avrebbe portato a una sicura punizione, come se quel modo di fare fosse imposto da una inevitabile necessità. Parlavamo quando cercavano di zittirci, agivamo spesso in contrapposizione ai divieti imposti o dalla famiglia o dall’ordine costituito, avremmo comunque fatto buche per terra anche se ci avessero detto che non c’era nulla da scavare. Ci saremmo svegliati un’ora prima, se fosse stato possibile, per poter giocare venticinque ore al giorno; avevamo un senso di onnipotenza mentale che ci faceva credere di poter essere tutto ciò che avremmo voluto essere. Forse vedevamo questo percorso esistenziale come un valido riparo e lo usavamo come difesa di fronte alle avversità umane e sociali che riempivano le nostre vite, in quanto convinti di rafforzare la nostra ambizione nel voler modificare e migliorare la nostra realtà. E probabilmente non fummo capaci di cogliere tutte le opportunità che anche la scuola avrebbe potuto fornirci, o forse fu la scuola, intesa come istituzione, che non fu capace di afferrare i nostri bisogni e fornirci una visione prospettica di come quelle attività didattiche avrebbero potuto trasformare i nostri sogni e le nostre ambizioni in atti pratici. Questi erano i tempi, e tutti noi, chi prima e chi dopo, abbiamo avuto a che fare con questo tipo di realtà scolastica, un sistema che forse non ha tenuto conto del bagaglio personale di ciascuno di noi, con un destino quasi indissolubilmente legato alla società nella quale ci siamo trovati a venire al mondo, con la quale subito ci siamo relazionati attraverso rapporti materiali ed emozionali con genitori, amici e persone del quartiere, società nella quale, poi, abbiamo cercato di raggiungere il nostro ruolo di protagonista, qualunque fosse il nostro retaggio culturale. Forse, ma è un mio pensiero, se quella scuola si fosse messa umilmente al servizio soprattutto di quelli che sempre si sono sentiti esclusi per circostanze avverse della vita sia umana che sociale, consentendo loro di sviluppare e incontrare, nel suo esplicarsi, gli interessi di ciascuno, beh penso che tanti di quei ragazzi terribili avrebbero percorso strade diverse della loro esistenza.

    La nostra vita giovane si intrecciò in un quartiere estremamente popolare, accompagnata da una colonna sonora fatta di urla e schiamazzi, di rimproveri, pianti e risate fragorose, voci stridule di mamme spesso esasperate, e profumi. Profumi di bucato steso al sole e di prelibatezze che si cucinavano in ogni casa. Ancora oggi, a distanza di anni, al solo parlarne, sembra quasi di risentire quei profumi così intensi, come quando torniamo nelle nostre vecchie case e pensiamo che siano loro a mancarci veramente, ma non è così: ciò che ci manca è il tempo giovane che abbiamo trascorso tra quelle mura popolari, perché quelli sono i luoghi in cui siamo cresciuti felici. In effetti un posto non è fatato in quanto tale, o dotato di poteri insoliti o soprannaturali, ma può diventare capace di trasformare gli aspetti e le dimensioni del reale se noi lo vogliamo, e noi, che in questi luoghi ci abbiamo vissuto per tanto tempo, alla fine siamo diventati noi stessi quei luoghi, perché qui abbiamo riso tanto, e altrettanto abbiamo pianto, abbiamo goduto e sofferto e abbiamo costruito le fondamenta interne che in quegli anni hanno riempito i nostri cuori di poderose speranze e ci hanno dato quella forza e quella capacità di sopportazione di fronte alle condizioni avverse. E, oltre alle cose belle, alcuni di noi, ancora giovanissimi, hanno dovuto sperimentare sulla propria pelle la perdita di un padre o una madre, di un fratello o di una sorella, provare cosa significhi tornare a casa e non trovare più una persona amata, e se non è mai facile farsene una ragione da adulti, figuriamoci per un ragazzino, il cui concetto di morte non è ancora chiarissimo, e le bruciature più pericolose sono proprio quelle che abbiamo subìto da piccoli, poiché induriscono il carattere e lasciano nel cuore un segno indelebile di malinconia che ci portiamo addosso per tutta la vita, condizionando le nostre azioni e le nostre reazioni nel corso di tutta la nostra esistenza.

    Senza omologazioni o distinzioni di classe, uniti nel nostro non avere niente e avere tutto, fondando la nostra amicizia e il nostro modo di agire non sulle contrapposizioni ma sul riconoscimento e il rispetto delle differenze. Vivendo con l’illusione di essere quasi immortali, vestiti di una corazza, astrattamente indossata nella convinzione di sembrare quasi dei duri agli occhi di altri coetanei che vivevano in altre zone; ma sempre bisognosi, una volta tornati nelle nostre case, di ricevere una carezza da chi ci amava incondizionatamente qualunque cosa facessimo.

    Ecco: questi sono stati i nostri Giorni di gloria, accompagnati da quel concetto di eresia che ritengo si possa facilmente applicare al modo di vivere di quella banda di ragazzini impertinenti. Con quella voglia di affermare la nostra libertà di contraddire tutto ciò che fino ad allora era ritenuto consacrato, consueto, tramandato, avviandoci sulla strada della vita alla ricerca costante delle nostre ambizioni. In fondo, cosa c’è di più eretico del ritenersi superiori agli dei? E poi perché l’eresia porta sempre in sé la capacità di generare dialettica e confronti talvolta anche violenti, ma tende a favorire quelle relazioni sociali, che, al contrario, l’ortodossia distrugge.

    Gavino Tedde

    Preambolo

    Simon Bolivar diceva che "l'arte di vincere la si impara nelle sconfitte. Mai verità fu più vera come nella storia che mi appresto a raccontare. La vicenda si svolge nel 1979, fine Settembre, e narra le avventure di un manipolo di ragazzini scapestrati, accompagnati, e, soprattutto, guidati, da un gruppetto di ragazzi più grandi, che in quell’anno si presero la loro rivincita nei confronti di una banda di coetanei appartenenti ad un Rione diverso dal nostro, che l’anno prima ce le avevano suonate di santa ragione costringendoci ad una vile ritirata. Ma una sconfitta rimane tale se una resa la rende perenne. Anche quando si ha la certezza di essere sconfitti la cosa importante è prepararsi a combattere. Chi rinuncia per paura di perdere ha già perso prima di iniziare la lotta. E noi non eravamo certo fatti di pane per fare ostie", come ci diceva qualche anziano del posto. Ci preparammo per un anno intero, e, quando giunse il gran giorno, lanciammo le nostre giovani vite in quell’assalto irrefrenabile che ci portò alla vittoria contro un avversario che combatté in maniera dura e leale. Non conoscevamo il sapore dolce del trionfo; la vita che avevamo conosciuto fino a quel momento ci aveva mostrato spesso il suo lato più scuro. Ma da quel giorno ci sembrò di non perdere più.

    Ai Ragazzi di Punta Idda

    Capitolo I

    Si era ancora sull’ 87 a 85 e già alcune mamme reclamavano a gran voce il nostro rientro a casa. Raimondo aveva appena segnato l’ottantasettesimo gol tirando direttamente dalla sua porta e la palla si era infilata con millimetrica e maledetta precisione in uno dei due vuoti della panchina che in quel momento rappresentava la porta avversaria.

    Quel Settembre del 1979 ci donava ancora giornate lunghe e caldissime, e questo era il risultato, ancora provvisorio, di una partita di calcio iniziata diverse ore prima e disputata in un campo che per noi, ragazzini di un Rione chiamato Punta Idda era rappresentato dalla Piazzetta dell’omonimo quartiere.

    Capitolo II

    Non ci fu nemmeno il tempo di esultare per la squadra in vantaggio in quel momento, che la nostra attenzione fu attirata da un lamento che proveniva dalla gradinata che da via Roma rappresentava l’ingresso al nostro piccolo regno.

    – Ma che ti è successo, chi ti ha conciato in questo modo? – chiese con tono perentorio Gesuino.

    – Già, chi ha ridotto in questo stato i tuoi vestiti? – insistettero Angelo e Mario quasi all’unisono.

    Pierpaolo, era lui la vittima, singhiozzava e non riusciva a spiccicar parola; gesticolava e ciondolava la testa indicando con le mani ed il volto sofferente verso una precisa direzione. Angelo cercò di calmarlo con modi piuttosto pratici, ma l’intervento di Gesuino sbloccò la situazione.

    – O ti calmi e ti decidi a parlare oppure ti do il resto di quello che non sono riusciti a darti gli altri! –

    Era meglio non incorrere in un tale rischio, e così Pierpaolo, immagazzinata nella propria mente sufficiente capacità per tirare fuori dalla propria bocca qualcosa, esplose in un fragoroso: – Sono stati i sangavinacci! –

    Pierpaolo è stato il primo amico che ho avuto qui a Ozieri, conosciuto qualche anno prima, quando mia madre, per il periodo estivo, mi spedì in Sardegna da Maranello, per passare del tempo con mia Zia. Aveva due anni più di me, ma la differenza di età era solo una questione puramente numerica. Capelli neri, mossi e quasi ricci, occhi grandi e scuri, naso leggermente più grande della media e perennemente gocciolante, che gli procurava spesso le prese in giro e gli scherzi di tanti tra noi. Pierpaolo era un ragazzo estremamente socievole, dal carattere espansivo ed esuberante, sempre pronto ad ogni nuovo gioco o avventura, e dotato di capacità fisiche ed atletiche notevoli. Come molti altri era scolasticamente indisciplinato, ed era spesso difficile abbatterlo grazie ad un’indole sempre propensa al lato positivo delle cose. E questo nonostante l’avesse colpito un dolore che nessun ragazzino di quell’età dovrebbe provare: la perdita improvvisa dell’amata mamma, che sembrò cancellare per sempre quel suo perenne sorriso che fino ad allora aveva caratterizzato la sua persona. Altri ragazzi della compagnia, purtroppo, avevano dovuto subire la perdita di un loro caro, ma in genere si trattava del padre; e non che si possa sminuire il dolore o misurarlo in relazione al genitore scomparso; ma in quel contesto sociale in cui venimmo al mondo e crescemmo, l’importanza della figura della mamma, prevalentemente casalinga, era di gran lunga più importante rispetto a quella del padre, forse perché sempre presente e comunque capace di amore incondizionato, rifugio quasi sempre sicuro e, spesso, vera diga posta a nostra difesa nelle giornate più turbolente dal punto di vista familiare. C’è probabilmente una ragione nell’ incitamento continuo di una mamma ad essere forti, perché dovrà essere tanta la forza che servirà per affrontare il giorno in cui ci mancherà e la vita che verrà dopo. Non sapremo mai quanto Pierpaolo riuscì veramente a superare quel trauma, però, la nostra vicinanza, la continua ricerca di nuove cose e nuovi interessi, quel suo modo di giocare che sembrava quasi tormentoso, come chi gioca per sfuggire al dolore, ma molto più probabilmente la sua grande forza interiore, fecero in modo che un’apparente normalità si riprendesse i suoi giorni, e noi, quasi colpevoli di noncuranza, cancellammo rapidamente quella tristezza, riprendendo, in maniera quasi spudorata, a comportarci come nulla fosse successo e rifacendo i giochi tipici della nostra quotidianità.

    Comunque, una volta trovata la forza di parlare e aver smesso di piangere, Pierpaolo fu un fiume in piena.

    – Sono andato in perlustrazione proprio come mi avevi detto tu – disse rivolto a Gesuino – ero sopra le rocce, convinto che non mi avrebbero visto. C’erano quasi tutti, anche il loro capo Salvo. Io cercavo di intuire quali fossero le loro intenzioni e cosa stessero preparando per difendere il territorio dai nostri eventuali attacchi, quando, all’improvviso, quattro di loro mi hanno preso alle spalle e mi hanno trascinato giù, fino agli alberi, dove c’erano tutti gli altri. All’inizio volevano solo spaventarmi, hanno tirato fuori dei coltellini per impressionarmi, volevano forse solo umiliarmi un po’ e rispedirmi a casa con qualche calcio nel sedere, visto che mi cagavo addosso dalla paura; ma farmi picchiare dal più piccolo di loro, quel tale Pietro che è una scorreggia vestita, beh questo no. Ho reagito al primo calcio con uno schiaffo niente male, e a quel punto mi sono saltati addosso in parecchi, non saprei dire quanti, e mi hanno ridotto in questo modo… -.

    – Sì, ma quanti erano? –

    – E che

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