Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Le sette chiavi
Le sette chiavi
Le sette chiavi
E-book484 pagine7 ore

Le sette chiavi

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Walter e Aaron sono due uomini molto diversi ma anche molto simili. Il primo è un appassionato archeologo alla ricerca di antichi tesori; il secondo è un influente personaggio facente capo a una misteriosa e potente casta. Ciò che li accomuna è la sete di conoscenza, e sono entrambi disposti a tutto pur di soddisfarla. Tra inseguimenti, depistaggi, fraterne amicizie e tradimenti, la lotta per il raggiungimento del comune obiettivo sarà aspra e non priva di colpi di scena.
Chi dei due avrà la meglio, nell’eterno conflitto tra bene e male?

Alessandro Fazio nasce a Roma il 30 luglio1991.
Data la sua passione per il cinema e la sceneggiatura, si diploma all’Istituto professionale per il cinema e la televisione “R. Rossellini”. 
Dall’età di due anni cresce in ambienti spirituali, a contatto con maestri di diverse filosofie e provenienti da varie parti del mondo. Appassionato di storia non ufficiale e di esoterismo, convoglia le proprie esperienze e gli studi nella stesura di testi scritti in forma quasi automatica, nei quali però risaltano caratteristiche cinematografiche date dai dialoghi e dai cambi di scena, che li rendono simili a sceneggiature. 
LinguaItaliano
Data di uscita21 nov 2023
ISBN9788830689732
Le sette chiavi

Correlato a Le sette chiavi

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Le sette chiavi

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Le sette chiavi - Alessandro Fazio

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    CAPITOLO 1 - Walter

    Era spassoso per quei figli di puttana ridere di me tenendomi su quella cazzo di sedia girevole che, a ogni mio minimo movimento, cigolava come le molle del letto di casa mia dopo notti in compagnia del gentil sesso.

    Io li ascoltavo guardando la ventola attaccata al soffitto che girava, con la paura, per quanto era vecchia e logora, che prima o poi mi potesse cadere in testa. Continuavano a starnazzare come le leggendarie oche del Campidoglio e mi fissavano – idioti! – conviti che non capissi una sola parola, senza immaginare che, oltre l’arabo, ne parlassi altre sette, di lingue.

    Inutile dirlo, la situazione mi divertiva. In quel momento passavo per un turista perso nella fitta nebbia delle loro parole; non si rendevano conto, però, di quanto in realtà capissi ogni loro insulto e imprecazione. La massa vive di convinzioni apparentemente proprie, di prospettive ampie quanto una visuale percepita con paraocchi indossati, di pregiudizi e credenze tramandate. Come quei laureati convinti che il pezzo di carta – in molti casi preso per convenzione grazie ai soldi di papà e molto spesso buono solo per pulircisi il culo – dia loro il diritto di criticare un altro essere che non ha avuto le loro stesse possibilità. Conosco persone con la terza media più colte di un professore universitario… la vera conoscenza nasce dalla consapevolezza dei propri talenti e dalla costante passione che li nutre. Sorrisi pensando al film Genio ribelle. Fantastica pellicola, quella, nella quale si dà risalto al fatto che il valore di una persona non si plasma grazie alla fantomatica preparazione accademica, quanto all’apertura mentale e alla fame di sapere, cose di cui, sicuramente, questi individui erano sprovvisti… due poveri diavoli meramente identificati nella divisa che indossavano!

    Si sentivano immortali e intoccabili, con quell’uniforme incollata addosso; in realtà erano amebe allineate all’illusione di una società ben organizzata che crea persone, ossia maschere, pronte a vivere aspirando al necessario, fino al momento di passare a miglior vita, mentre rigurgitano fantasmi di sogni mai realizzati. No, non è la vita a essere crudele, siamo noi a non avere il coraggio di scegliere la felicità.

    Credo nel fatto che un uomo debba affrontare la vita con coraggio e determinazione per manifestare il proprio daimon, anziché scegliere la via più facile, assoggettandosi agli stereotipi dettati dalle mode del momento. Sono pochi i folli che perseguono i propri sogni e decidono di vivere da veri patrioti. Non servono divise… Poveri diavoli! Li compatisco…

    Ideali… Alla fine cosa sono? Non sono, forse, pensieri creati ad hoc, utili per dare false speranze agli uomini deboli di pensiero e per convincerli che le loro idee sono migliori di quelle degli altri? Posso solo essere triste per loro, che vivono l’esistenza aggrappati a dogmi concepiti da altri uomini che manipolano, così, intere comunità per i propri esclusivi interessi.

    Sinceramente, se dovessi sottostare a questo tipo di società preferirei essere il manipolatore; lo so, sarebbe sbagliato, ma spesso mi trovo ad ammirare il genio di questi individui, che tirano i fili di tutte queste marionette. Poter essere quell’uomo talmente geniale da far vivere le persone in un mondo fittizio e falso, ma talmente idealizzato da diventare reale, sarebbe un lavoro davvero gratificante, sicuramente per il portafogli! Mi si potrebbe giudicare come una cattiva persona… ma alla fine chi decide cos’è giusto e cosa sbagliato? La vita è composta da un’infinita scala di colori e sfaccettature, che a volte non percepiamo, come quando, allo stesso modo, non riusciamo ad ascoltare la nostra anima, vivendo in un mondo monocromatico.

    I giudizi, a mio parere, sono solo schemi mentali programmati dalla società che ci vuole in un certo modo e guardando queste due perfette marionette pensavo: Beata ignoranza!

    Credo che per capire come agire in ogni situazione sia sufficiente porsi una sola domanda: Questa azione che vado a compiere come mi fa sentire?. Il problema è che non siamo abituati ad ascoltarci, e se un’emozione ci riporta a un sentimento di paura e di dolore la prima reazione è soffocare tale sentire… è così che si fanno le cazzate!

    Sembrava che a dividerci ci fosse una parete trasparente e che io, dall’esterno, stessi lì ad ammirare una razza in via di estinzione segregata in un piccolo spazio adibito al loro habitat naturale.

    Il telefono squillò un paio di volte e il grassone seduto al lato opposto della scrivania rispose. Mi ricordava il sergente Garcia di Zorro; mi guardò con aria di sufficienza e mi passò la cornetta dicendo in italiano: «Ambasciata italiana, ambasciata italiana.»

    Allungai il braccio e risposi divertito: «Pronto!»

    Dall’altro capo del telefono una vocina rispose: «Salve, signor Falco, sono il segretario dell’ambasciatore. La polizia egiziana mi ha chiamato per farle da interprete in modo da poter risolvere questo problema così increscioso.»

    La mia risposta fu diretta e di sicuro inaspettata, con un pizzico di ironia e sfrontata arroganza esclamai: «Io non ho bisogno di un interprete, lo parlo benissimo l’arabo!»

    Ne seguì un silenzio di una decina di secondi che a me parve lunghissimo, ma per quanto fossi curioso di sentire una replica, non lo biasimai: con una risposta del genere, anche io sarei rimasto senza parole.

    «Ma signore, i due poliziotti mi hanno riferito di aver provato a parlarle in arabo, inglese e francese! E lei non ha saputo rispondere!»

    Feci un sorrisino rivolto a quei due individui che mi guardavano incuriositi sperando di capirci qualcosa, e risposi: «Non è che non ho saputo rispondere, ho capito benissimo quando mi hanno parlato in tutte e tre le lingue. Semplicemente non ho voluto rispondere. Questo perché era mio interesse parlare con l’ambasciatore al telefono, o anche con lei. Mi hanno arrestato e di sicuro non ho alcuna possibilità di cavarmela facilmente senza il vostro aiuto!»

    La risposta del segretario fu un po’ balbettante e incerta: «Ma… ma signor Walter, noi dell’ambasciata la conosciamo e sappiamo il motivo per cui si trova qui in Egitto da molto tempo, lei è comunque sul suolo egiziano e le leggi di questo Paese vanno rispettate, noi possiamo fare ben poco.»

    Sapevo che avrei ricevuto una risposta del genere, ma non mi preoccupai.

    Appoggiai i gomiti su quella scrivania traballante, piena di fogli e foglietti. Solo a vedere quel caos mi venne l’impulso di prendere e buttare tutto per terra. La confusione mi ha sempre infastidito, pur non essendo un maniaco dell’ordine.

    Dissi al segretario: «Lo so! Ma sono certo che se le dicessi che ho delle grandi notizie a livello storico e conseguentemente economico, crede che l’ambasciatore lascerebbe che io andassi in galera? Anche perché a quel punto queste informazioni le terrei per me.»

    «Mi scusi, cosa dovrebbe fare l’ambasciatore? Sa bene che la burocrazia è quella che è, in più lei i permessi per il sito dove l’hanno arrestata non li aveva.»

    Non so proprio spiegarmi come facciano a volte degli imbecilli incompetenti ad avere incarichi del genere, era lui che lavorava in ambasciata, non io, sono loro che vengono pagati per trovare scappatoie in questi casi. Anche perché cosa sono le ambasciate se non delle basi di altri Stati per spiare un altro Paese direttamente dall’interno?

    Sospirai in segno di rassegnazione e gli risposi: «Lei sa il motivo per cui mi hanno arrestato e sa che sono un ricercatore, quindi se lei confermasse che lavoro per conto dell’ambasciatore e per lo Stato italiano, mi rilascerebbero e riceverei solo un avvertimento, al massimo una multa! Comunque sono un archeologo, non un turista che voleva rubare qualche souvenir da riportare a casa. Una volta uscito vi raggiungerò e comunicherò a lei e all’ambasciatore le mie nuove scoperte, in seguito informeremo il museo de Il Cairo e potremo dare, come è giusto che sia, tutto a loro, ma sarà stato un italiano insieme al supporto dell’ambasciata ad aver scoperto tutto.»

    Ci fu un secondo, lungo silenzio, ma la risposta questa volta arrivò molto più tardi: «E lei pensa davvero che l’ambasciatore abbia tempo da perdere con queste sue fantasie?»

    «Beh, credo proprio di sì, l’ambasciatore ha scelto l’Egitto proprio perché è un grande amante dell’antichità di questo Paese e poi, diciamocelo, non è che io abbia fatto chissà che, mi trovavo in un sito archeologico senza permessi, e se dite che lavoro per voi si risolve tutto in maniera più semplice.»

    Questa volta mi rispose subito, il mio discorso non faceva una piega.

    «Ok, si può fare! Mi passi il sergente e gli spiego tutto.»

    Passai la cornetta a quel barilotto di fronte a me e aspettai con totale tranquillità.

    Dopo un paio di minuti di discussione il poliziotto mi ripassò la cornetta, era abbastanza indispettito, probabilmente per ciò che gli era stato riferito.

    Risposi Sììììì, rivolgendo alla guardia un grande sorriso compiaciuto.

    «Signor Walter, è tutto a posto, può uscire e raggiungerci. Naturalmente per nostra sicurezza la farò scortare fino all’ambasciata!»

    Io, con tono cortese ma che nascondeva una punta di sarcasmo: «No, non vorrei disturbare ulteriormente le cortesi autorità egiziane. Esco da qui, prendo un taxi e al massimo una mezz’oretta sarò lì da voi.»

    Agganciai senza neanche attendere una risposta, mi alzai e feci un cenno di commiato alquanto provocatorio ai due poliziotti, salutandoli in arabo, e lasciai la stanza.

    Appena fuori la caserma, mi accesi una sigaretta e sedetti su un gradino della scalinata, le macchine sfrecciavano sotto il cielo cocente. Quanto amo questo caldo africano! ripetevo tra me e me. La mattina sopra i quaranta gradi e la sera decisamente più fresca ma afosa. Strano ma vero.

    Finita la sigaretta mi alzai, scesi gli ultimi gradini che mi separavano dal marciapiede e fermai il primo taxi che passava.

    Aprii la portiera guardandomi intorno, ultimamente avevo la comprensibile sensazione che mi seguissero, e una volta controllato salii a bordo. Il tassista mi guardò dallo specchietto retrovisore e mi chiese in inglese: «Dove la porto, signore?»

    Senza pensarci più di tanto, risposi velocemente Kuriat Motel, e altrettanto velocemente il tassista partì.

    L’ambasciata! Ma chi se la incula! Gente così tarda da pensare che io vada lì da loro a raccontare ciò che ho scoperto dopo tanto lavoro e senza mai aver avuto alcun supporto dalle autorità.

    Ambasciatori, uomini di Stato, politici, sono per loro natura burattini di un potere superiore, e la cosa buffa è che credono di essere i padroni del mondo.

    Il caldo si faceva sentire e, come il 90% dei taxi egiziani, neanche questo aveva l’aria condizionata, ma solo un semplice ventilatorino attaccato con lo sputo sopra il cruscotto e buono solo a far circolare aria calda in faccia al tassista. C’erano poi vari specchietti posizionati in tutte le angolazioni per vedere sotto le gonne delle turiste ignare.

    Per fortuna il viaggio durò solo una quindicina di minuti.

    Scesi da quel forno con le ruote ed entrai nel motel senza neanche considerare l’uomo seduto dietro il bancone che fumava davanti a un piccolo televisore con il segnale che andava e veniva. Sbraitava muovendo l’antenna, più rattoppata dei pantaloni che indossava, cercando la posizione migliore per vedere quegli strani programmi che piacciono al mondo arabo.

    Ma Jamal, era così che si chiamava, preferiva sbraitare ogni dieci minuti che comprare una nuova. Una volta gli dissi che gliel’avrei regalata io pur di non sentire le sue urla anche la notte. Ma niente, ormai quell’antenna faceva parte di lui e non se ne voleva separare!

    Presi le scale, dovevo salire solo un piano e, anche volendo, non avrei mai rischiato di prendere l’ascensore, viste le sue condizioni – un cesso chimico dei cantieri era più pulito! – e con le portiere che non si chiudevano del tutto. Infilai la chiave nella toppa ed entrai.

    Mi sedetti sul letto e presi la bottiglia di rum sopra il comodino. Me l’ero fatto spedire dall’Italia e, senza starci troppo a pensare, me ne scolai una considerevole quantità prima di accendermi una sigaretta.

    Rimasi una decina di minuti così, senza dare spazio ai pensieri.

    Dopo di che, mi feci coraggio e andai in bagno per una doccia veloce, misi un paio di jeans leggeri e puliti, una canottiera e gli stivali. Raccolsi tutto ciò che era in giro per la stanza, che per mesi era stata casa mia: documenti, soldi, un coltellino, la pistola e la mia borsa a tracolla dove avevo tutto quello che mi occorreva per le ricerche.

    La valigia con i vestiti? Sì, ‘sti cazzi, non sapevo quando sarei tornato e non sarebbe stata una borsa in più a complicare il viaggio.

    Indossai i Ray-Ban e uscii con barba e capelli ancora bagnati, li avevo giusto tamponati appena con l’asciugamano.

    Andai alla porta di fronte la mia e cominciai a bussare insistentemente fino a quando non mi fu aperta.

    «A Mustafa, te devi da sveja’!»

    L’uomo mi guardò con gli occhi tutti arrossati e uno sguardo perso nel vuoto: «Dove sei stato? È da ieri che sei sparito, ero preoccupato!»

    Delle volte mi veniva da ridere solo a sentirlo parlare in italiano, aveva un suo strano modo di blaterare, era un vero spettacolo. La sua prima lingua era il francese e le regole grammaticali se le giostrava un po’ come voleva.

    «Sì, certo, lo vedo come ti stavi preoccupando! Mi stavi cercando nei tuoi sogni? Sbrigati, dobbiamo andare di corsa!»

    Lo spinsi dentro e chiusi la porta.

    «Ma che pazzo sei! Così mi dici? Io non so! Sempre ordini… cosa hai combinato adesso?»

    Gli tirai il suo borsone, notando che per fortuna era già vestito. Gli mancavano solo le scarpe.

    «Poche domande, più azione! Sono stato al sito e indovina? Mi hanno arrestato. Con una scusa del cazzo sono riuscito ad andarmene, però adesso di sicuro alla Setta dell’Occhio sarà arrivata questa voce, potrebbero pensare che abbiamo trovato qualcosa, dobbiamo andare il prima possibile alla sorgente del Nilo senza farci notare, e alla svelta! In più, adesso mi starà cercando anche l’ambasciata, quindi veloce!»

    Mi guardò rassegnato: «Tu pazzo sei! Ti avevo detto di non ritornare lì, che pericoloso era!»

    Lo guardai, mi inchinai e risposi: «Chiedo venia, Maestro Yoda.»

    Delle volte, più che un africano naturalizzato belga, sembrava fosse uscito da Star Wars, per come parlava. Una volta gli chiesi se in un’altra vita fosse stato giapponese e se per caso volesse ancora usare la grammatica del Sol levante.

    «Non fare spiritoso!» e così dicendo mi seguì fuori della camera con le scarpe ancora slacciate. «Puttana troia, neanche le scarpe mi dai il tempo di allacciare, fottuto asino! Colpa tua è se per le scale casco!»

    Uscimmo dal motel e cominciammo a camminare per le viuzze della città fino a raggiungere un nostro amico che affittava veicoli ai turisti.

    «Ehi, Said, ci serve una jeep!»

    La risposta era scontata: «No, Walter! Io ci lavoro, già una me l’hai distrutta!»

    «Sì, ma te l’ho anche ricomprata, e di sicuro era meglio del catorcio che mi avevi prestato. Dai, è solo per qualche giorno!»

    Così dicendo presi un mazzo di chiavi appoggiato lì sul tavolo e con un sorriso beffardo esclamai: «Grazie, Said!»

    Mentre mi avviavo, lo sentivo imprecare in arabo, così gli urlai: «Dai, su, non mettere in mezzo Dio, ora!»

    Mustafa era lì fuori che aspettava, e le urla lo raggiunsero: «L’hai fatto incazzare di nuovo?!»

    «Sì, ma adesso sappiamo come andare ad Assuan, dove ci aspetta l’aereo!»

    Mi rispose divertito: «Bene, è un po’ che i coglioni non rompiamo ad Alì.»

    Salimmo sulla jeep: era del classico color sabbia da safari, così sbiadito dal Sole da essere diventato opaco; il tettino era di tela e gli sportelli erano piccoli e senza finestrini. I sedili erano rattoppati e pieni di sabbia. Provai ad accenderla… almeno partì subito.

    «Allora, direi di andare a fare benzina e a darle una bella pulita. Nel frattempo ci mangiamo una cosa, ho un certo languore!»

    Mustafa rimase sconcertato: «Ma come, dici che sanno che stiamo qui e perdi tempo per lavare macchina e mangiare?! Tu pazzo sei!»

    Mi misi a ridere e lo guardai con un’espressione che, se avessi avuto uno specchio davanti, mi sarei preso a schiaffi da solo.

    «Lo so… Ma io viaggio con stile e soprattutto a pancia piena, se no mi comincio a innervosire e non mi concentro sul da farsi.»

    Non rispose, si limitò a scuotere la testa.

    Durante il tragitto verso la periferia sud della città, durato una ventina di minuti o poco più, non parlammo. Era incredibile come cambiasse Il Cairo dal centro ai sobborghi. Ci fermammo a un benzinaio che lavava macchine e che di fronte aveva un piccolo bar. Guardai il ragazzo che lavorava lì e gli dissi in arabo: «Allora, fammi il pieno e lavala per bene, compresi i sedili… ok? Noi stiamo qui di fronte al bar, chiamaci quando hai finito!»

    Il ragazzino, che avrà avuto al massimo quindici anni, si limitò ad annuire e si mise subito al lavoro.

    Il locale era una semplice stanza bianca con tavoli e sedie di legno, un televisore in un angolo e, sul lato opposto, un bancone di finto marmo con dietro delle mensole. Sigarette, vari tipi di tabacchi per narghilè e barattoli di tè erano esposti senza un preciso ordine.

    Ci sedemmo a un tavolo posto sotto la finestra da dove riuscivamo a vedere la strada e il benzinaio. Mi misi a sedere con le spalle verso il muro, non so il perché ma è una mia fissazione, proprio non riesco a stare a mio agio con le persone che mi passano dietro la schiena. In questo modo, probabilmente, sento di poter controllare meglio ogni situazione.

    Ordinammo un paio di piatti di cous cous e del tè.

    Era bello l’Egitto, ma quanto odiavo il fatto che non bevessero alcolici, era sempre difficile rimediarne, come se a Dio poi importasse cosa mangi e bevi. Non sono mai riuscito a concepire la mentalità di alcuni islamici, così attenti a piccole regole come l’alcool, il cibo e il digiuno, per poi interpretare a loro modo cose più importanti per giustificare terribili atti di terrorismo.

    Credo che Dio permetterebbe più di bere vino che progettare e mettere in atto un attentato per falciare vite, ma è inutile cercare di entrare nella mente dei fanatici religiosi… di qualsiasi confessione, per questo le considero il male del mondo. Sempre per la solita teoria della cattiva interpretazione, come può Allah punire chi mangia carne di maiale? Semplice, non lo fa! Per quanto ne possa sapere io, questa regola nasce dal fatto che, con le alte temperature del Mondo Orientale, la carne di maiale si rovinava più facilmente, creando un habitat ideale per batteri e parassiti, diventando in molte occasioni causa di morte se ingerita cruda o poco cotta.

    Nell’antichità, il modo migliore per imporre certe abitudini sia alimentari che sanitarie era semplicemente dire: ‘‘L’ha detto Dio" o perlomeno era una delle motivazioni più veloci senza dare troppe spiegazioni alla massa agropastorale dell’antichità.

    Le religioni! Dogmi su dogmi per attuare il controllo sulle marionette e, perché no, anche sui burattinai.

    Arrivò il cameriere con i due piatti e iniziai a mangiare subito con tale gusto e beatitudine che Mustafa, sbalordito, mi disse: «Come fai a essere così tranquillo? Di sicuro ci stanno cercando e tu beato mangi? E poi spiegare mi devi, perché sei tornato al sito?".

    Non mi curai troppo delle sue parole, ingoiai il boccone, un paio di sorsi di tè e risposi: «Devi stare calmo, la fretta non aiuta. E poi lo sai che a stomaco pieno ragiono meglio. Già te l’ho detto! Adesso ci serve essere molto cauti e non fare cazzate! Sono tornato al sito perché non avevamo controllato una cosa, e infatti…»

    Tirai fuori dalla tasca un sacchettino: «Ho trovato questo! E possiamo dire che adesso siamo molto vicini al traguardo!» Feci scivolare il contenuto nelle sue possenti mani.

    Mustafa era tra il curioso e lo scettico: «Un anello? Sei tornato indietro per questo?»

    Continuai a mangiare, e dopo tre o quattro manciate ripresi a parlare: «Non sapevo certo di trovarlo lì! Diciamo che abbiamo avuto un bel culo! E guardalo bene, non è un semplice anello. È una chiave!»

    Si limitò a un Oooh.

    Non capii se fosse sarcastico o veramente stupito, ma poco mi importava.

    Poi chiese: «E che cosa dovrebbe aprire?»

    Mangiai i rimasugli del piatto, mi pulii la mano e mi accesi una sigaretta: «Cazzo ne so, però guardalo bene, non è un semplice anello.»

    Mustafa non sembrava così convinto, allora con estrema pazienza presi l’oggetto e cominciai a spiegare. «Guarda, oltre a essere un anello d’oro e anche abbastanza grande, c’è incastonata una malachite, e lo sai che pietra è?»

    Non rispose e capii che dovevo proseguire con la spiegazione.

    «La malachite non è una pietra come le altre, è particolare, nonostante ne esistano di molto più preziose. Di certo faraoni e principi utilizzavano zaffiri, rubini, smeraldi, non questo tipo di pietre dure semipreziose, fatto salvo per alcuni impieghi e occasioni. Si dice che i copricapi dei faraoni fossero rivestiti o comunque adornati di malachite, come anche lo scettro, perché sembrerebbe possa conferire saggezza nel governare, oltre a essere sacra ad Afrodite!»

    Notai con estremo piacere che Mustafa cominciava a incuriosirsi, così continuai: «Vuol dire che questo anello veniva usato dal faraone in determinate occasioni molto importanti e sacre; in più, se noti bene, la pietra è incastonata all’interno di una ghiera dentata. Questo mi ha fatto pensare alla frase del manoscritto che abbiamo trovato insieme alla mappa.»

    Vidi la sua faccia diventare sempre più rilassata e raggiante.

    «La saggezza è una delle chiavi per raggiungere il più grande dei tesori!»

    CAPITOLO 2 - Aaron

    «Li avete trovati?» Alla mia domanda non ci fu risposta. «Allora?!»

    Alzai nettamente il tono di voce, e fu solo in quel momento che un piccolo sibilo uscì dalle labbra di uno dei tre babbei che mi stavano davanti.

    «No, signore! Però abbiamo avuto un paio di segnalazioni…» balbettò uno di loro. «Hanno visto Walter Falco uscire da una questura de Il Cairo, per poi prendere un taxi. Ho mandato degli uomini ad accertarsi se fosse veramente lui… Comunque non si preoccupi, abbiamo i satelliti attivi. Se è lui lo troveremo nel giro di un paio d’ore!»

    Ogni tanto una notizia decente la riuscivano a tirare fuori, invece di accampare sempre e soltanto scuse sui propri fallimenti.

    «Mi chiedo, allora, cosa ci facciate qui invece di stare a lavoro! Lo voglio qui entro domani!»

    Si irrigidirono tutti e tre, come presi da una paralisi fulminante. Quello alla destra di chi aveva appena parlato si giustificò: «Ma signore, lui si trova in Egitto, per portarlo fino a Roma ci serve più tempo.»

    Ci fu un lungo silenzio: volevo accrescere la loro inquietudine facendo attendere una mia risposta; poi con molta calma mi alzai dalla poltrona poggiando le mani sulla scrivania e a voce bassissima, fissandoli negli occhi a uno a uno, aggiunsi: «Credo proprio che vi dobbiate sbrigare allora!»

    Uscirono dalla stanza tra inchini e riverenze.

    Il POTERE, così affascinante ma così inefficace! Perché? Semplice: essere bravi, influenti e carismatici è necessario ma non sufficiente a esercitare il potere. È difatti indispensabile che le persone a cui ci si rivolge siano facilmente influenzabili.

    Si riescono a controllare anche milioni di persone, ma di quel milione nessuno è capace di essere all’altezza dei compiti assegnati. Una persona troppo acuta ed efficiente non può essere controllata. Il potere è una maledizione!

    Infatti mi sento tutto tranne che potente. La sensazione che provo è quella di essere una balia circondata da gente bigotta, buona solo per arricchirsi alle loro spalle grazie alla manipolazione. Posso anche avere la fortuna di controllare Stati ed economie, ma il VERO POTERE qual è? pensavo. Credo, in effetti, che sia l’essere rispettato da ogni individuo, dal più ignorante al più sapiente. E il termine ignorante lo intendo per il suo vero significato, cioè una persona che ignora. Io sono soltanto una persona che viene temuta e, come ogni uomo temuto, a tempo debito verrà festeggiata la mia caduta. Alcune volte mi chiedo a cosa serva tutto questo…

    Una vera risposta ancora non mi era arrivata, ma solo giustificazioni che la mia mente trovava per sentirsi a posto con la coscienza.

    Presi il calice di vino poggiato sulla scrivania di ebano e lo bevvi tutto d’un fiato, fissando le ipnotizzanti lingue di fuoco nel camino in marmo nero di fronte a me.

    Il fuoco, considerato come il bene o il male, un elemento naturale, un elemento alchemico. Troppo è pericoloso, poco innocuo, giusto è perfetto! Utile in tutti i suoi scopi.

    Accesi il televisore. Il telegiornale come al solito parlava di morti, tasse e politica. Sono così preparati nell’incutere ansia e panico a un intero Paese, da riuscire persino a collegare tre piaghe in un’unica grande notizia: I politici approvano una nuova tassa che spinge al suicidio dipendenti licenziati o imprenditori sull’orlo del fallimento.

    Molti si chiedono a cosa serva tutto questo.

    Ma è semplice, a persone come me. Più una persona vede la realtà come crudele e meschina, più è facile da manipolare perché ha paura, sapendo che l’unica alternativa al pagare è la morte!

    E quanto fa paura ciò che non si conosce, come la morte!

    Sono pochi quelli che decidono di arrivare a perdere la vita, quindi un’occasione, questo grazie al buonismo dato soprattutto dagli estremisti liberali con la solita frase fatta: La vita è il bene più prezioso, prima del denaro e del benessere economico.

    Cazzate! Proteggere la vita sarebbe importante se fosse veramente vita! Lavorare otto ore o più al giorno per sei giorni a settimana e avere uno stipendio di cui il 93% se ne va in tasse e beni di prima necessità, senza poter avere la libertà di fare ciò che si vuole, non è vita, ma schiavitù. Ma meglio non dirlo in giro. Un popolo schiavo rende i pochi sempre più potenti, un popolo libero rende tutti uguali. Si tratta solo di economia e finanza.

    Se una persona lavorasse per il giusto numero di ore e con uno stipendio adeguato al lavoro svolto, si avrebbero tempo libero e più soldi, in questo modo si potrebbero coltivare le proprie passioni, i propri hobby e vivere veramente; meglio ancora se il lavoro coincidesse con le passioni: allora non si lavorerebbe un solo giorno! Neppure questa sarebbe la soluzione al problema, ma io lo capii appieno solo più avanti.

    Ma si sa, il mondo non va così perché i potenti vogliono essere sempre più potenti, non ricchi ma potenti! Padroni di un intero pianeta che sottostà ai loro capricci, come se l’umanità fosse una quantità infinita di giocattoli in mano a pochi bambini viziati.

    Guardai l’ora, erano le 22 e 45. Mi alzai e andai davanti al finestrone alla sinistra della scrivania.

    Era un classico giorno piovoso d’inverno romano, quelli che dopo mezz’ora di precipitazioni la città diventa un marasma ingestibile di ingorghi. Pane quotidiano per i TG pronti a criticare il sindaco di turno per la sua incompetenza nel ricoprire il ruolo di amministratore capitolino. Poveraccio, magari contasse davvero qualcosa! Un semplice politico che pensa di essere arrivato ad alti livelli della società, ma in realtà è soltanto un burattino di buona fattura.

    Guardai il mio riflesso quasi impercettibile sul vetro grondante gocce scure intente a scivolare fino alla base della finestra, quasi a ricordarmi di un passato ormai svanito, di quando credevo che la politica potesse cambiare il mondo e di come sarei stato nullo, se avessi intrapreso quella carriera, ma sicuramente visibile agli occhi di un intero Paese. Adesso sono completamente l’opposto, visibile e influente nei giochi di potere, ma inesistente agli occhi del mondo, come una presenza eterea che pochi privilegiati riescono a percepire.

    Mi guardo e mi ripeto ogni volta, sono Io? Io che per i primi anni della mia vita mi chiedevo cosa ne avrei fatto del futuro e quale fosse il mio scopo. Io che ho dedicato una vita a capire chi fossi veramente. Adesso mi chiedo: se dovessi morire, la mia vita, nel bene o nel male è servita a qualcosa? E veramente ho capito chi sono? O forse dopo tutti questi anni ho scalfito solo la superfice del mio vero essere?

    E pensare che mai avrei immaginato di arrivare dove sono ora, semplicemente perché diventiamo ciò che siamo destinati a essere, non ciò che crediamo di voler diventare.

    Sentii bussare. «Avanti!»

    La porta si aprì delicatamente e sbucò, perfettamente composto, il maggiordomo.

    «Signore, la stanno aspettando nella Sala Grande.»

    Feci semplicemente un cenno di approvazione con la testa, e così com’era entrato se ne andò.

    Andai verso il piano bar, mi versai un altro bicchiere di vino, scolandomelo tutto d’un fiato.

    Cercai di allentare con un paio di respiri profondi la tensione dovuta alle ore seduto alla scrivania.

    Presi una scatolina di legno intagliato accanto al PC e mi diressi con passo sicuro verso la Sala Grande.

    Passai attraverso tre stanzette vuote, arricchite solo da affreschi sulle pareti. Arrivato davanti alla grande porta in legno intarsiata, spalancai le due ante ed entrai.

    Notai le dodici persone, poste sei per lato, che puntuali una volta al mese venivano da tutto il mondo da me, a Roma, per discutere di varie questioni direttamente faccia a faccia.

    Mi misi a capotavola. Il tavolo, visto dalla mia prospettiva, era talmente lungo da poter stare tutti comodamente seduti distando circa un metro l’uno dall’altro.

    Toccai il piano freddo e liscio, un’enorme lastra di marmo nero con incisi disegni geometrici e simboli, al cui centro campeggiava un grande occhio iscritto in una piramide; tutti gli intarsi erano riempiti d’oro, rendendo così anche le incisioni levigate al tatto.

    Oltremodo ipnotizzanti.

    Le tende lunghe e scure dei finestroni, che sfioravano delicatamente il parquet di ebano dalle venature ramate, erano aperte. Aveva smesso di piovere, e tra una nuvola e l’altra spinta dal ponentino, la luna piena risplendeva di una luce argentea e brillante che irradiava tenuamente la stanza e gli affreschi sul soffitto. Meglio non scendere troppo nei dettagli sulla loro natura.

    Tre enormi lampadari illuminavano la stanza, uno posto sopra il tavolo e gli altri due ai lati.

    Cominciai a parlare: «Ave.»

    I dodici risposero a loro volta.

    Ebbene sì, il latino è una lingua morta, ma non per noi. Parlare in latino teneva lontani i curiosi, ed essendo tutti di nazionalità diverse, si utilizzava come lingua franca.

    Uno dei dodici mi guardò e mi chiese: «Aaron, come mai ci hai convocati così frettolosamente? Hai novità?»

    Annuii e risposi: «L’ho trovata! È da tempo in realtà che la custodisco, ma all’epoca il Gran Maestro mi disse di aspettare il momento giusto per comunicarlo. Anche gli Anziani erano d’accordo, ma ormai ci siamo, appena sarò in grado di trovare le giuste coordinate partirò e il Sapere Universale sarà nelle nostre mani!»

    Posi la scatolina sul tavolo, la aprii e la passai alla persona alla mia destra, che fece altrettanto, e così via di mano in mano fino a completare il giro.

    Anch’io ridiedi un’occhiata veloce prima di richiuderla e ripormela in tasca. Emozioni contrastanti mi invasero, troppi eventi erano collegati a questo oggetto, e molti altri se ne sarebbero aggiunti.

    Cos’era? Una piccola bacchetta di ametista lunga 5 centimetri e incastonata in un occhiello d’oro.

    «Perfetto!» esclamò l’uomo alla mia sinistra. «Ora abbiamo la chiave.»

    Annuii accennando un sorrisetto beffardo: «È stato difficile e faticoso venirne in possesso. Ormai i tempi sono maturi e tra non molto la missione sarà compiuta.»

    Seguì un silenzio che venne interrotto da una voce rauca: «Aaron, il cercatore lo avete trovato?»

    Io risposi semplicemente di no, e subito un altro esortò: «Bisogna trovarlo, è una persona scomoda.»

    Lo guardai negli occhi e freddamente tuonai: «Potrà anche essere scomodo, ma non c’è fretta! Continueremo per la nostra strada, non è urgente eliminarlo, per ora non sta intralciando i nostri piani – anzi! – anche se gli sto facendo credere il contrario. Quello che faccio è controllarlo e capire quanto sa; in più potrebbe facilitarmi il lavoro, sta cercando esattamente quello che cerchiamo noi, possiamo così sfruttare le sue capacità e le sue conoscenze.»

    Dal fondo sentii un altro ribattere: «Per la nostra tranquillità sarebbe meglio eliminarlo. È troppo informato, e se scoprisse cose ancora più rilevanti e le divulgasse sarebbe la fine!»

    Posai lo sguardo sul suo viso in penombra: «Di questo non dobbiamo preoccuparci. Sì, è vero, le popolazioni si stanno svegliando sempre di più e sono anche più informate sulle verità del mondo, ma non siamo ancora arrivati a una

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1