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Il mare dentro
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E-book360 pagine4 ore

Il mare dentro

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Info su questo ebook

“Il mare dentro” di Syraka è un libro che si legge piacevolmente e che riesce a ben coniugare tra loro la corposità del testo e una lettura interessante.

Luoghi, aneddoti, incontri, avvenimenti, ricordi sono illustrati dall’autore con sensibilità e grande efficacia, dando luogo ad una sorta di autobiografia sotto la spinta, quasi, di un debito memoriale.

E’ un libro scritto con passione, sincerità, ironia e stile talvolta corrosivo; è la storia di una vita intera trascorsa tra la mitica Ortigia degli anni giovanili e, lontano dal suo mare tanto amato, il Piemonte del primo impiego e poi della libera professione.

Una dopo l’altra, le pagine rivelano una scrittura sull’onda dell’entusiasmo e del bisogno dominante della memoria, dal cui fluire sgorga una fresca e dolcissima vena di poesia.

Non solo un libro, insomma, ma una sorta di diario di bordo e di resa dei conti, fatti di ricordi ed esperienze cui l’autore ha ritenuto di aggiungere un corollario finale di riflessioni su un mondo che non c’è più.
LinguaItaliano
Data di uscita16 feb 2018
ISBN9788827810910
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    Anteprima del libro

    Il mare dentro - Syraka

    nonno

    I

    Dei primi vent’anni e poco oltre

    Sfollati

    Una montagna di caramelle, colori e luccichii.

    Un camion con la sponda finale rovesciata e la grande croce rossa sui teloni ai lati.

    Un’immagine ferma nel tempo e immutata nei particolari.

    Un via vai di persone e di strani veicoli, a metà strada tra il gippone e il comune trattore.

    Un campo e un’ampia distesa di tende. Fusti e taniche ovunque. Militari, militari e ancora militari, in divisa o in braghette e torso nudo nel tiepido declinare dell’estate, quasi automi nel loro muoversi rapido da una parte all’altra del campo.

    La conoscenza ai suoi primi albori, sussulti finali dell’estate ’43 e cinque anni ancora da compiere.

    Osservo curioso la scena. Una realtà nuova tutta da scoprire per un bambino fin lì abituato a luoghi ben certi: il cortile di casa, la vicina piazzetta del Carmine, i giardinetti, lo slargo delle Orsoline in fondo alla strada che guarda all’ampia distesa di mare.

    È uno dei campi allestiti dalle forze alleate dopo lo sbarco in Sicilia, sulla costa orientale tra Fontane Bianche e Avola.

    Nella stessa località e in un modesto casale dell’entroterra, papà Rosario aveva trovato rifugio per la sua famigliola, con ciò ritenendo di porla al riparo dai bombardamenti che, con frequenza ormai quotidiana, martellano l’intera area del siracusano.

    Non ho grande memoria del casale. Ne ricordo solo il corpo povero e massiccio, allungato e a un solo piano, la forma a elle e la facciata principale sull’aia, con evidenti i segni impietosi del tempo e dell’incuria. In simbiosi i tetti, con i coppi di cotto in parte decimati, gli scuri, pregni di umidità, di porte e finestre.

    Piante e alberi tutt’intorno, un agrumeto mutilato selvaggiamente, la strada ferrata poco distante, a traversare il fondo, una donna già avanti negli anni col grembiule lungo fin quasi ai piedi e le mani nodose ai fianchi. La padrona di casa, nelle parole di papà.

    Ho invece ben presente il camion con i teloni laterali a riva e quello sul retro raccolto in cima, la sponda rovesciata e, per l’appunto, quella cascata di caramelle che declina dal fondo.

    Rivedo l’avvicendarsi dei militari nel raccoglierle a piene mani, nel riporle in capaci borse portate a tracolla e nel loro allontanarsi frettoloso per la quotidiana distribuzione ai nuovi amici dei casali vicini. E rivedo l’abbondante manciata offerta ai pochi e increduli bambini, accompagnando il gesto con parole incomprensibili che vorrebbero solo essere rassicuranti.

    Nel ricordare la scena, ancora anni dopo, il mio pensiero andrà spesso alle popolazioni indigene dell’America appena scoperta e ai doni degli occupanti europei.

    Non caramelle allora ma collane, monili e chincaglierie quale segno manifesto di amicizia e di fratellanza.

    Tra dolciumi e mortai, navi e aerei, cannoni e carri armati, la seconda grande guerra del secolo, di lì a poco meno di due anni, si sarebbe conclusa anche in ogni altra parte del Paese, con tanti, tanti morti nell’orrido carniere.

    La marina

    Immediato dopoguerra e una giornata come può capitare anche in Sicilia, con un cielo grigio e uno scirocco soffocante.

    Solo percezioni in compagnia di papà, badante improvvisato per guadagnare al pargolo, e ai suoi polmoni, adeguata scorta di iodio, scirocco permettendo.

    La marina si presenta come una enorme, lunga spianata spoglia dei suoi alberi, sterrata in buona parte e con tracce sparse di quello che un tempo doveva essere un uniforme manto d’asfalto.

    Le poche costruzioni, in origine piccoli chioschi per la vendita di gelati e bevande, portano evidenti i segni della guerra da poco finita.

    Camion e veicoli vari, militari e civili, transitano lentamente, sollevando nuvole di polvere e attentando in tal modo alla salute dei miei polmoni.

    Ovunque, gruppi di soldati e marinai.

    L’immagine scolpita nella memoria e che connota il giorno è quella di un espianto brutale, della ferita a morte di un luogo ricco di fascino e del suo assurdo stravolgimento. Alberi grandi e rigogliosi, nel ricordo di vecchie foto, sono stati distrutti allo scopo presumibile di consentire ai veicoli comodi spazi di manovra. In realtà, lavoro mal fatto e tale probabilmente per incuria o per la fretta contingente o per voluto spregio degli occupanti. Vistose ferite al suolo, dossi di terriccio e crepe, crepe ovunque, radici divelte e portate alla luce, danno dell’insieme uno spettacolo triste, grigio e assai avvilente anche per l’imberbe osservatore.

    Oggi come ieri. Pur col ripristino dell’intera passeggiata a mare e il rifacimento dei chioschi, pur con il nuovo impianto di alberi e l’arricchimento dell’arredo urbano, pur con le luci delle barche pigramente rollanti e beccheggianti all’ormeggio, il ricordo di quel lontano e malinconico mattino si ripropone immutato al pargolo di un tempo.

    Il Nettuno e Don Severino

    Via Maestranza o delle Maestranze, in Ortigia, conclude il suo percorso in Piazza Belvedere San Giacomo, meglio nota come facci dispirata ovvero, senza grandi sforzi, faccia disperata.

    Perché facci dispirata?

    Leggenda vuole fosse un luogo da cui le donne, sfidando il vento nei giorni di tempesta, con la disperazione negli occhi e il cuore in tumulto, scrutavano l’orizzonte e il mare in burrasca, aspettandone e temendone il responso.

    L’attesa era per il marito, il figlio, il padre, l’amante, usciti a pesca e ancora non tornati.

    Un grande slargo a strapiombo sul mare, una quindicina di metri più in basso, ideale anche e largamente frequentato nel tempo quale pensatoio per le ragioni più varie, dalle paturnie amorose a quelle finanziarie o di lavoro o di famiglia o di quant’altro potesse indurre meditazione.

    Facci dispirata o della disperazione ieri, piazza Belvedere e gaudente, sin dai primi anni del dopo guerra.

    Con un sistema che oggi farebbe impallidire un ingegnere o un architetto, l’intera parete a strapiombo sul mare era coperta da una ragnatela di tavole e travi che, partendo dalla sommità e zigzagando a mo’ di scala verso il basso, consentiva di scendere agevolmente e portarsi al primo dei grandi scogli piatti.

    Una struttura di identica fattura collegava poi scoglio a scoglio, dando così vita a un piccolo arcipelago.

    Il corpo principale, eretto su palafitte, consisteva in una doppia filiera di spogliatoi dal cui interno, attraverso una botola e una scala di pochi gradini, si poteva raggiungere una sorta di vasca la cui base era formata da longheroni di legno affiancati e tenuti fermi tra loro, a poco meno di un metro sotto il livello dell’acqua.

    All’estremità di questa piscina sui generis, destinata ai più piccoli, ai loro accompagnatori e comunque a chi non era ancora in grado di nuotare, l’apertura verso il mare già profondo.

    Don Severino, l’esercente, aveva pensato a tutto.

    La struttura balneare, sin da subito chiamata Nettuno dal Dio del Mare, era dotata pure di un piccolo bar con paninoteca ante litteram, di una veranda attrezzata per le consumazioni e le chiacchiere, di un solarium per l’esposizione di chiappe ancor pallide ai caldi raggi di un altro Dio, quello del Sole.

    Il Don aveva pensato proprio a tutto. Anche a sfruttare al meglio l’incavo meno profondo dello scoglio o isolotto maggiore, per ricavarvi un embrione di spiaggia con tanto di sabbia riportata.

    Don Severino! Certamente tra i personaggi più noti nella Ortigia del dopo guerra e senz’altro uno dei più pittoreschi.

    Detto culitruscia che, fuor di trivio, sta a significare culo di truscia, fagotto di stracci, e che, sempre più volendo acculturare, sta a significare e connotare un fondo schiena fuori dal comune, imponente e mal rapportato alla figura intera, portato a spasso, per l’appunto, come un fagotto.

    Il vero nome era caduto in disuso, se non addirittura nel totale oblio, e poteva anche capitare che qualcuno gli si rivolgesse chiamandolo, con sincera convinzione, signor culitruscia.

    Così almeno ricorda l’amico Giovanni, anziano collega, depositario incontrastato di aneddoti e dicerie locali.

    Rare le occasioni di vedere Don Severino sulle proprie gambe fuori dal Nettuno o dalla sala biliardo, anche questa di sua proprietà nell’isola.

    In effetti, la sua figura era di norma associata alla vespa, lo scooter nazional popolare con il quale da casa si portava al Nettuno, da questo alla sala biliardo e di nuovo al Nettuno, poi ancora alla sala e infine a casa.

    La vista anteriore del don non è che si prestasse a commenti o considerazioni particolari. Quella posteriore invece …

    In parte, per la conformazione del corpo ad arancino, dalle natiche in su, in parte per quel culo e per quelle enormi e strabordanti chiappe che nascondevano, avvolgendolo e quasi risucchiandolo, il sellino dello scooter sul quale poggiavano, sfidando equilibrio e legge di gravità.

    Per molti anni, il Nettuno è stato l’unica struttura balneare esistente in città.

    Raggiungibile facilmente da ogni parte dell’isola, era frequentatissimo, luogo anche solo di incontri e di chiacchiere a tinchitè, in un dopo guerra con tanta voglia, per giovani e meno giovani, di ritrovarsi e di tornare finalmente al sorriso.

    Via Mirabella, la strada di casa, era poi a tiro di schioppo ed è proprio al Nettuno che ho provato le prime bracciate.

    Quando? L’ho chiesto spesso a casa, senza ricevere risposta diversa da quella del tutto banale e inverosimile: subito.

    In realtà, consuetudine voleva che, a parte rare eccezioni, il pranzo vedesse l’intera famiglia riunita al desco. Per cui, in attesa del babbo con i suoi orari un po’ strambi, già ai primi tepori ci si portava da scuola a casa e da qui al Nettuno, fosse anche per una manciata di minuti.

    Ci si tornava poi, e spesso, nel pomeriggio dopo lo studio, ferma restando l’ubriacatura di mare e di sole nei giorni di festa e ovviamente in estate.

    In sintesi, una postazione del tutto abitudinaria per buona parte dell’anno e sin dalla prima adolescenza. Pertanto, come non aver nuotato sin da subito?

    Sono convinto che tanto l’età quanto il luogo abbiano contribuito non poco a formare il primo nucleo di aggregazione, dato inizialmente dalle infantili, reciproche sfide all’ultimo temerario tuffo e arricchito, anno dopo anno, da uno scambio di idee e di esperienze assai prezioso per una generazione figlia della guerra e vittima incolpevole delle sue limitazioni.

    Quasi un Conte Ugolino, sarà lo stesso Don a recitare il de profundis per la sua creatura.

    Con il continuo e sciagurato abbandono dell’isola sin dai primi anni cinquanta, con il benessere economico in arrivo, con l’incremento della motorizzazione e la fuga dei siracusani verso spiagge e lidi lontani ma più alla moda, Don Severino diede vita all’Arenella, tutt’altra cosa rispetto al Nettuno e di questo è rimasto solo il ricordo nostalgico di un bel tempo che fu.

    La merenda

    Collegio Santa Maria, fucina di nuove leve e anche scuola di vita.

    Le medie.

    In ogni famiglia italiana del dopo guerra, era del tutto normale per una mamma, reagendo alle privazioni sofferte, industriarsi in ogni modo per poter dotare il proprio pargolo e scolaro di una qualunque cosa da mettere sotto i denti, all’ora di merenda.

    La qualunque cosa poteva avere forma e sostanza diverse per più ragioni, correlate tutte alle condizioni economiche della famiglia, alle sue abitudini, all’appetito e alla voracità del pargolo stesso.

    Poteva pertanto trattarsi di pane nudo e crudo oppure di biscotti anche fatti in casa oppure di un cornetto (già andiamo sul fine e delicato) o di un trancio di focaccia fragrante del mattino oppure ancora di un robusto panino, farcito con poco o tutto quel ben di Dio che una mamma premurosa avesse potuto inventarsi o racimolare per la sana e robusta crescita dell’infante.

    Ero perfettamente allineato e la mia merenda consisteva di norma in qualche biscotto oppure in un panino con buona e abbondante mortadella, quella in particolare dei fratelli Guido di Via delle Maestranze.

    Alla prima sparizione in classe non avevo dato importanza più di tanto (insomma) e anche quando il fatto ebbe a ripetersi non avevo ritenuto opportuno informare l’insegnante o parlarne in casa; forse per quella naturale ritrosia ad ammettere un’ingenuità di fondo o peggio … un tocco di coglioneria.

    La cosa, oltre che pesarmi, mi incuriosiva, avendo rilevato peraltro circostanze ben precise. La prima, che il reato veniva consumato, quasi sempre, durante la breve pausa del mattino e la seconda che a sparire erano mai i biscotti ma solo, quando c’era, il buon panino con mortadella, da ciò potendosi arguire che il mio mantenuto fosse persona di bocca buona, mirante al sodo e al saporito.

    Mossa astuta allora … o tale almeno ritenuta; non quella del cavallo ma qualcosa che potesse assomigliarle. Abolisco i biscotti e adotto, monotematica, la dieta a base di mortadella.

    Per un paio di giorni, nulla di nuovo, con gratificazione della mia pancia. Poi il panino torna a sparire e intempestivo fu il mio intervento per poter cogliere la flagranza.

    Il giorno dopo nessuna novità e infine …

    Un sospetto in verità l’avevo, alimentato da qualche segnale. Strano però e da non crederci! Il tipino in questione era il figlio di un esercente della città vecchia, titolare di una cantina, la classica vineria dotata di cucina. Poteva disporre di quanto avesse voluto. Perché allora?

    A metà pausa, in mattinata, mi allontano quatto quatto dai compagni in cortile e raggiungo la classe, al vicino piano terra.

    Già sull’uscio, proveniente dall’interno, il rumore soffocato di un tramestio mi conferma che quello sarebbe stato il giorno buono.

    Non ho dimenticato e credo che mai dimenticherò la faccia del Pilluccio,così inteso di nome e va a sapere perché il Salvo, al secolo Salvatore.

    La mia cartella giaceva ancora aperta sul tavolo, il boccone in bocca e il panino, amputato di brutto, in mano, la sorpresa e gli occhi strabuzzati.

    Solo una manciata di secondi e poi quel gran buon figlio della Graziella (quartiere assai popolare di Ortigia) assume una maschera che più grottesca non si può, accenna a una risata, mirata nelle intenzioni a volgere il tutto in burla (grande chiavica in realtà), completa il quadro assai penoso con un ghigno da ebete.

    Come finì?

    Lo lasciai al mio e ormai suo panino senza proferire altre parole se non un grande vaffa venuto fuori dal profondo delle viscere, con tutto il disprezzo e la commiserazione che i miei occhi erano in grado di esprimere.

    Perché, con quello che hai o che comunque puoi avere?

    Silenzio, solo silenzio e sempre quel ghigno osceno e disgustoso.

    Una cosa strana, tuttavia, e inspiegabile quella che seguì e … che è poi la ragione di fondo per queste note.

    Disagio personale, imbarazzo, quasi un senso di colpa che mi coglie improvviso. Assurdo! Un senso di colpa per aver dato luogo, certo non a torto, a una situazione squallida e penosa già di suo. Va a capire i profondi meandri della mente umana!

    E però, di lì in avanti, le mie colazioni furono salve.

    E il Pilluccio? Sempre di lì in avanti, come niente fosse! Impareggiabile faccia di culo!

    L’attentato

    Al Santa Maria, collegio sui generis allora in auge per figli di genitori assai impegnati, e alla sua scuola, si andava ogni mattina con un bus che, muovendo da Ortigia, raccoglieva gli alunni alle varie fermate e lì li conduceva. Così, al contrario, il ritorno a casa nel tardo pomeriggio.

    Quel giorno di luglio, a scuola ormai finita e in una sorta di moderna estate ragazzi, grande sorpresa. Lo zio di Matteo si era presentato al collegio poco dopo l’ora di pranzo, con il dichiarato scopo di prelevare il nipote e, richiesto da papà, anche me.

    Lo zio in questione, nella versione agiografica che in ogni particolare ne dava Matteo, aveva una marcia in più rispetto ai comuni zii. Alto, bello come un attore, magro senza con ciò essere uno spaventapasseri, di nobile aspetto, elegante, scapolone impenitente, sempre allegro e su di giri, estroverso, sportivo e anzitutto pilota di rally, con una patologica, assatanata propensione a partecipare a ogni gara automobilistica o manifestazione simile avesse a svolgersi in Italia e particolarmente in Sicilia.

    Quel giorno, lo zione ci aveva pertanto prelevati e con aria furtiva, in un silenzio quasi totale, ci aveva imbarcato sulla sua splendida Aprilia cabriolet, avviandosi poi per Via Piave.

    Sempre in silenzio (con Matteo incrociavo sguardi stupiti e colmi di curiosità), osservavo lo zio e ne percepivo, senza coglierne le ragioni, una tensione interiore tanto evidente quanto insolita per il personaggio.

    La via si presenta in una luce strana. Deserta o quasi, solo qualche passante. Auto con sirene urlanti in entrambe le direzioni.

    Silenzio, silenzio e ancora silenzio dello zio. Che cavolo succede?

    Anche l’ultima parte del percorso verso la città vecchia è coperta in un contesto identico e solo quando la nostra auto viene fermata da una pattuglia di militari e da uomini in borghese, il silenzio è rotto dal borbottio incomprensibile del barone nel mostrare i suoi documenti.

    A Piazza del Duomo, la consegna del pacco a papà in evidente trepidazione e il rientro a casa, con l’unico commento, colto al volo da un rapido scambio con mamma, che erano successe cose grosse, che c’era pericolo per le strade e, in definitiva, che era meglio starsene al sicuro della propria casa.

    Era il 14 luglio 1948. Certo Antonio Pallante, studente siciliano, aveva attentato alla vita del segretario nazionale del Partito Comunista Italiano, Palmiro Togliatti, sparandogli e ferendolo gravemente.

    Le reazioni avevano provocato allarme e ansia non da poco in molte città, facendo temere per le sorti della Repubblica appena nata.

    Era anche il primo anno della nuova Costituzione e di elezioni politiche finalmente libere, con la forte contrapposizione delle forze di destra e di centro a quelle di sinistra e con la minaccia, neanche tanto recondita, di una incontrollabile evoluzione.

    Col senno e col sorriso di poi, un po’ del Guareschi cronista serioso e un po’ del Guareschi di mondo piccino con i suoi don Camillo e sindaco Peppone.

    Ma quel giorno, anche lo zio barone, nella sua suprema leggerezza dell’essere tra belle donne e automobili, salotti e carburatori, bei vestiti e marmitte, se n’era reso conto e, fatto persuaso da uomo d’azione qual era, si era subito dato da fare.

    Non si sa mai!

    Era d’estate

    Con genitori impegnati a tutto tondo, alcun’altra possibilità era data se non quella di essere quotidianamente affidati alle cure di una tata tuttofare, nella specie a quelle della Rosa.

    Era costei una procace ragazza non ancor ventenne, bruna con lunghi capelli neri sciolti sulle spalle, belloccia, non alta, appena capace di leggere e scrivere, modi spicci e autoritarismo di facciata da non prendere tanto sul serio.

    La Rosa, in assenza di quella legittima, era la regina della casa o tale almeno riteneva di poter essere.

    Nel periodo scolastico, era presente già di buon mattino.

    Preparava la colazione per mamma e papà, ove non avessero già provveduto loro. Preparava quindi la nostra, assistendoci poi nel complicato rito della vestizione e delle relative scelte, nel riordino di libri e quaderni in cartella. Ci accompagnava infine alla fermata del bus, sul lungomare delle Orsoline.

    Seguivano, a casa ormai tutta sua, le pulizie, la piccola spesa nel negozio di quartiere - quella importante era appannaggio esclusivo del sempre diffidente papà - la preparazione di pranzo e cena, il lavare e lo stirare quanto la congrega tutta avesse sporcato.

    Al pomeriggio, la Rosa ci seguiva nei compiti, con esiti talvolta tragicomici, come rilevato da mamma al suo rientro oppure il giorno dopo a scuola. E qui poteva scapparci anche il morto.

    Chiuse le scuole, la Rosa alternava alle cure di casa la gestione delle nostre giornate, i compiti delle vacanze, le uscite tutti insieme per acquisti, il curiosare al mercato vecchio, le passeggiate al sole della marina.

    Credo di avere avuto, all’epoca, poco più di una dozzina d’anni.

    Si pensava solo a giocare in casa o nel vicino oratorio e le frequentazioni di appartenenti all’altro sesso erano occasioni del tutto sporadiche, con al massimo innocenti dichiarazioni di reciproco interesse, al cui confronto le poesie e le vignette di Peynet potrebbero ben definirsi di grande pornografia.

    Ciò non toglie tuttavia che il solito figlio di buona donna, compagno di scuola e con famiglia disinibita o aperta che dir si voglia, elargisse spesso al suo auditorium, subito raccolto e in un fiat alimentato, storie, storielle e vicissitudini marcatamente pruriginose che lo avevano visto protagonista o tale millantato o testimone informato dei fatti o quant’altro.

    Ragion per cui non è che poi si fosse tanto citrulli.

    Pomeriggio inoltrato d’estate, con un caldo infernale che ti incolla la camicia sulla pelle e t’invita solo a stare fermo, immobile, alla ricerca di quel poco d’aria che filtra dall’esterno.

    La Rosa, accaldata e scarmigliata, con una vestaglietta tipo velina appiccicata addosso, in piedi su uno sgabello e china sui fornelli, con una mano cerca di tergere il sudore dalla fronte e con l’altra manovra un arnese appuntito, qualcosa tipo spiedo, nel tentativo di sistemare alla meglio quei maledetti cerchi concentrici che, nelle cucine dell’epoca, formano il piano cottura.

    L’urlo mi coglie improvviso, distogliendomi dal solito fumetto.

    Si è fatta male e ora preme sull’inguine con entrambe le mani. Agitando maldestramente l’aggeggio, il puntale le era finito contro.

    Allarmato, mi avvicino alla Rosa che scoppia a piangere, sorpresa e anche spaventata.

    La veste presenta un ampio squarcio. Una manciata di secondi e la libero istintivamente da alcuni bottoni, ne scosto i lembi osservando la ferita e il poco sangue che ne viene fuori.

    Non sembra gran cosa; tampono come posso e pare anche di esserci ben riuscito.

    La Rosa segue con attenzione e in silenzio.

    Con la mano copro delicatamente la ferita come a volerla proteggere; la Rosa soprappone alla mia la sua come a voler controllare.

    Nessuna reazione dalle altre camere e i minuti trascorrono lenti, accompagnati da parole che vogliono solo essere rassicuranti.

    Cingo le spalle della Rosa, che mantiene basso il suo sguardo. Restiamo per un po’ così, vicinissimi.

    Avverto il calore del suo corpo, l’effluvio intenso che ne proviene e ne sono turbato.

    Le carezze, timide all’inizio, si fanno via via meno timide. Diventano audaci ed è come fossero guidate da una forza misteriosa, fin lì sconosciuta.

    La Rosa non si sottrae. Accosta anzi il suo viso al mio e si stringe ancor più contro, accennando a un sorriso apparsomi di maliziosa complicità.

    Seguono momenti di grande emozione e, con il cuore in tumulto, avverto sensazioni nuove di crescente eccitazione; sensazioni forti per entrambi, come sembra evidente.

    Sento il respiro della Rosa farsi affannoso e il mio non è da meno.

    Un minuto o due o tre o quattro, non saprei.

    So solo che, sciogliendoci in un fremito prolungato, fu esplosione di gioia e di benessere.

    U purtau u pani papà?

    L’ha portato il pane papà?

    Non è cosa da poco.

    È domanda e allo stesso tempo aspettativa che si pretende legittima. È voglia e ricerca di sicurezza. È rimozione di una paura antica, quella della fame. È

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