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Alibi di ferro
Alibi di ferro
Alibi di ferro
E-book639 pagine9 ore

Alibi di ferro

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Info su questo ebook

Autrice del bestseller La ragazza N°9

Un grande thriller

Un'indagine degli investigatori Kate Conlan e John Quinn

C’è un terribile assassino, detto “il crematore”, che esegue oscuri rituali in un bosco nei pressi di Minneapolis. La cerimonia è sempre la stessa: prima unge le sue vittime, poi dà fuoco ai corpi. Ha già mietuto tre vite, e non si fermerà qui. Una donna è sopravvissuta all’ultima carneficina, ma nessuno riesce a farla parlare. Tanto che Kate Conlan, l’agente dell’FBI incaricata del caso, fatica a capire se la testimone sia una potenziale vittima o sia coinvolta in maniera molto più inquietante. I superiori le stanno addosso perché la prossima vittima potrebbe essere la figlia di Peter Bondurant, un miliardario molto potente. E proprio a causa delle pressioni del facoltoso imprenditore viene convocato l’agente speciale John Quinn. Ma nonostante sia uno tra i più brillanti profiler dell’FBI, John è anche l’ultima persona con cui Kate desidera lavorare, dopo la fine della loro relazione. Non è soltanto il caso più difficile della sua carriera: Kate è anche l’unica in grado di fermare il killer…

Autrice numero 1 del New York Times
Tradotta in 32 Paesi
40 milioni di copie vendute nel mondo

«Un thriller ad alta tensione e una delle coppie di detective meglio riuscite del panorama editoriale.»
Leggendaria

«La prosa di Tami Hoag è rapida e precisa come un colpo di arte marziale, e il ritmo è ad alta tensione. Questo romanzo è il suo capolavoro.»
Booklist

«Senza dubbio una delle più grandi scrittrici di suspense.»
Chicago Tribune

«Tami Hoag dimostra una volta ancora come abbia fatto a diventare uno dei nomi più rilevanti nel panorama del thriller. In sostanza: non c’è gara.»
People

«Ti viene voglia di chiudere la porta a chiave mentre leggi!»
Minneapolis Star Tribune

«Una lettura da notte in bianco.»
The Detroit News
Tami Hoag
Vive in Florida ed è autrice di decine di bestseller. I suoi romanzi sono tradotti in più di 30 Paesi e hanno venduto 40 milioni di copie in tutto il mondo. Con la Newton Compton ha pubblicato La ragazza N°9, Indizio N°1, Vittima senza nome e Alibi di ferro.
LinguaItaliano
Data di uscita3 ago 2017
ISBN9788822713131
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    Anteprima del libro

    Alibi di ferro - Tami Hoag

    Capitolo 1

    Alcuni sono assassini nati. Altri lo diventano. E a volte l’origine del desiderio di omicidio si perde nel groviglio di radici che costituisce una brutta infanzia e un’adolescenza pericolosa, così che nessuno può sapere con certezza se quella spinta fosse innata o indotta.

    Solleva il corpo dal retro della Blazer come un tappeto vecchio arrotolato di cui disfarsi. Le suole dei suoi stivali sfregano contro l’asfalto del parcheggio, e poi cadono in silenzio sull’erba secca e sul terreno duro. La notte è mite per essere novembre a Minneapolis. Un vento vorticoso solleva le foglie cadute. I rami nudi degli alberi sbattono l’uno contro l’altro come una sacca di ossa.

    Sa di ricadere nella seconda categoria di assassini. Ha passato così tante ore, giorni, mesi, anni a studiare questa sua pulsione e la sua origine. Sa che cosa è, e accetta la verità. Non ha mai conosciuto il senso di colpa o il rimorso. Crede che la coscienza, le regole, le leggi non abbiano alcuno scopo pratico per l’individuo, e limitino solamente le potenzialità umane.

    «L’uomo entra nel mondo etico attraverso la paura e non attraverso l’amore». Paul Ricœur, La symbolique du mal.

    Il suo vero sé aderisce solamente al suo codice: la dominazione, la manipolazione, il controllo.

    Una scheggia infranta di luna osserva la scena dall’alto, la luce debole sotto la rete di arti. Sistema meglio il corpo e traccia due X intersecate sul petto a sinistra. Con un senso di cerimonia, versa l’accelerante. L’estrema unzione. Simbolismo del male. Il suo vero sé accetta il concetto di male come potere. Combustibile per il fuoco interiore.

    «Cenere alla cenere».

    I suoni sono ordinati e specifici, amplificati dalla sua eccitazione. Il raschiare del fiammifero sulla striscia di carta abrasiva, il sibilo della fiamma che prende vita e distrugge. Mentre il fuoco brucia, lui ricorda i suoni di dolore e paura di poc’anzi. Ricorda il tremore nella voce di lei quando implorava per la sua vita, i toni unici e la qualità di ogni grido mentre la torturava. La musica squisita della vita e della morte.

    Si concede un momento per ammirare il dramma della scena. Si concede di sentire il calore delle fiamme accarezzargli il volto come lingue di desiderio. Chiude gli occhi e ascolta il crepitio e il sibilo del fuoco, inala l’odore della carne che brucia.

    Estatico, euforico, eccitato, tira fuori la sua erezione dai pantaloni e comincia a masturbarsi. Arriva quasi al limite, ma sta attento a non eiaculare. Riprenderà più tardi, quando può celebrare liberamente.

    La sua meta è in vista. Ha un piano, concepito meticolosamente, che deve essere eseguito alla perfezione. Il suo nome vivrà nell’infamia fra tutti quelli dei più grandi – Bundy, Kemper, lo Strangolatore di Boston, l’Assassino di Green River. La stampa qui gli ha già dato un soprannome: il Crematore.

    Lo fa sorridere. Lo rende orgoglioso. Accende un altro fiammifero e lo tiene di fronte a sé, studia la fiamma, apprezzandone il movimento sinuoso e sensuale. La avvicina al volto, apre la bocca, e la ingoia.

    Poi si gira e si allontana. Pensa già alla prossima volta.

    Omicidio.

    La vista si impresse a fuoco nelle profondità dei suoi ricordi, sul retro delle sue orbite così a fondo che riusciva a vederla quando chiudeva gli occhi per fermare le lacrime. Il corpo contorto in una lenta agonia contro il suo destino orribile. La fiamma arancione come sfondo all’immagine da incubo.

    In fiamme.

    Lei corse via, i polmoni infuocati, le gambe infuocate, gli occhi infuocati, la gola infuocata. In un angolo astratto della sua mente, era lei il cadavere. Forse questa era la morte. Forse quello era il suo corpo che arrostiva, e questa consapevolezza era la sua anima che cercava di scappare dal fuoco dell’inferno. Le avevano detto diverse volte che sarebbe finita lì.

    In lontananza sentiva una sirena e vedeva lo strano bagliore di luci blu e rosse che si stagliava nella notte. Corse verso la strada, singhiozzando e inciampando. Con il ginocchio destro colpì il suolo gelato, ma si costrinse a continuare a muovere i piedi.

    Corri corri corri corri corri corri…

    «Ferma! Polizia!».

    La volante dondolava ancora accanto al marciapiede. La portiera era aperta. Il poliziotto era sul viale, la pistola in mano e puntata su di lei.

    «Aiuto!». Le parole le raschiavano la gola.

    «Aiuto!», disse a fatica, la vista offuscata dalle lacrime.

    Le gambe le cedettero sotto il peso del suo corpo, della paura, del suo cuore che batteva come una cosa enorme e rigonfia nel petto.

    Il poliziotto la raggiunse in un istante, rimettendo la pistola nella fondina e inginocchiandosi per aiutarla. Deve essere un novellino, pensò debolmente. Conosceva quattordicenni con un migliore istinto della strada. Avrebbe potuto prendergli l’arma. Se avesse avuto un coltello, si sarebbe potuta alzare e avrebbe potuto pugnalarlo.

    Lui la tirò su a sedere tenendole le mani sulle spalle. Le sirene gemevano in lontananza.

    «Che cosa è successo? Sta bene?», domandò. Aveva la faccia di un angelo.

    «L’ho visto», disse lei senza fiato, tremante, con la bile che le risaliva in gola. «Ero lì. Oh… Cristo. Oh… merda. L’ho visto!».

    «Chi ha visto?»

    «Il Crematore».

    Capitolo 2

    «Perché sono sempre io quella al posto sbagliato nel momento sbagliato?», mormorò Kate Conlan fra sé e sé.

    Il primo giorno di ritorno da quella che tecnicamente poteva definirsi una vacanza – un viaggio intrapreso a causa del senso di colpa, per andare a trovare i suoi genitori nel parco divertimenti infernale (Las Vegas) – era in ritardo al lavoro, aveva mal di testa, voleva strangolare un certo sergente dei reati sessuali per aver spaventato una delle sue clienti – un casino per cui lei avrebbe dovuto pagare con il pubblico ministero. E oltre a tutto ciò, un tacco delle scarpe scamosciate nuove di zecca si stava staccando, grazie alle scale della rampa del parcheggio sulla Quarta Avenue.

    E ora questo. Un tizio con dei tic.

    Nessun altro sembrava averlo notato aggirarsi furtivamente lungo il perimetro dell’atrio spazioso del Centro governativo della Contea di Hennepin come un gatto nervoso. Kate gli dava una trentina d’anni, non più di qualche centimetro oltre il suo metro e ottanta, e una corporatura che tendeva al magro. Fin troppo nervoso. Molto probabilmente aveva attraversato un qualche momento di crisi personale o emotiva di recente – aveva perso il lavoro o la ragazza. Era divorziato o separato; viveva da solo, ma non era un senzatetto. I vestiti erano stropicciati, ma non rovinati, e le scarpe erano troppo immacolate per un barbone. Sudava come un uomo grasso in una sauna, ma teneva il cappotto addosso mentre girava e rigirava intorno alla nuova scultura che riempiva la sala – un’opera simbolica di presunzione creata dal metallo delle pistole fuse. Borbottava fra sé e sé, con una mano aggrappata su un lembo della giacca di tela pesante. Il cappotto di un cacciatore. La sua lotta emotiva interiore gli faceva contrarre i muscoli della faccia.

    Kate si sfilò la scarpa dal tacco ballerino e si tolse anche l’altra, senza mai distogliere lo sguardo dal tizio. Infilò una mano nella borsa e tirò fuori il cellulare. Nello stesso istante, il tizio pieno di tic catturò l’attenzione della donna che lavorava al banco informazioni a qualche metro di distanza.

    Dannazione.

    Kate si raddrizzò lentamente, premendo il tasto di chiamata rapida. Non poteva chiamare la sicurezza da un telefono esterno. La guardia più vicina era dall’altra parte della distesa enorme dell’atrio, sorrideva e rideva chiacchierando con un postino. La signora delle informazioni si avvicinò al tizio pieno di tic con la testa inclinata, come se il cono di capelli biondi simili a zucchero filato fosse troppo pesante.

    Cazzo.

    Il telefono dell’ufficio squillò una volta… due volte. Kate cominciò a camminare lentamente, il telefono in mano, le scarpe nell’altra.

    «Posso aiutarla, signore?», chiese la donna delle informazioni, a due metri di distanza da lui. Il sangue avrebbe completamente rovinato la sua camicetta di seta color avorio.

    Lui si voltò.

    «Posso aiutarla?», chiese di nuovo la donna.

    …Il quarto squillo…

    Una donna latinoamericana con un bambino al seguito passò fra Kate e l’uomo. Kate lo vide iniziare a tremare – il suo corpo contrastava la rabbia o la disperazione o qualunque cosa lo avesse spinto fin lì o lo stesse mangiando vivo.

    …Quinto squillo. «Ufficio del procuratore della Contea di Hennepin…».

    «Cazzo!».

    Il movimento era inconfondibile – i piedi piantati a terra, la mano allungata sotto la giacca, gli occhi spalancati.

    «A terra!», gridò Kate, gettando il telefono.

    La donna delle informazioni si immobilizzò.

    «Qualcuno la pagherà!», gridò il tizio, fiondandosi verso la donna, afferrandole il braccio con la mano libera. La strattonò a sé, puntando la pistola davanti a lei. L’esplosione dello sparo riecheggiò nell’atrio dai soffitti alti, e rese tutti sordi alle urla di panico che causò. Lo notarono tutti, ora.

    Kate si fiondò su di lui da dietro, colpendogli la tempia con il tacco della scarpa, come se fosse un martello. Lui gridò dallo stupore, poi contraccambiò con il gomito destro, colpendo Kate nelle costole.

    La donna delle informazioni urlava e urlava. Poi le cedettero le ginocchia o svenne, e il peso del suo corpo strattonò l’assalitore. Lui si abbassò su un ginocchio, strillando oscenità, sparò un altro colpo, che stavolta rimbalzò sul pavimento in pietra e finì chissà dove.

    Kate cadde con lui, stringendo con la mano sinistra il colletto del cappotto. Non poteva perderlo. Qualsiasi mostro fosse intrappolato in lui ora era libero. Se le fosse sfuggito, ci sarebbero state molte più cose di cui preoccuparsi oltre ai proiettili vaganti.

    Con i collant di nylon che non le facevano presa sul pavimento liscio, si dimenò per sistemare i piedi e aggrapparsi a lui mentre cercava di tirarsi in piedi. Lo colpì di nuovo con la scarpa sull’orecchio. Lui si girò, provando a colpirla di rovescio con la pistola. Kate gli afferrò il braccio e lo spinse in alto, consapevole della presenza di più di venti piani di uffici e aule di giustizia sopra di loro quando la pistola sparò di nuovo.

    Mentre combattevano per prendere il controllo della pistola, lei gli mise una gamba attorno alla sua e si gettò di peso contro di lui, e all’improvviso cominciarono a cadere, sempre più giù, ruzzolando l’uno sopra all’altra sui duri gradini di metallo della scala mobile che portava al piano terra – dove furono accolti da un mucchio di: «Fermi! Polizia!».

    Kate guardò quelle espressioni serie attraverso lo stordimento del dolore e mormorò: «Be’, era ora, cazzo».

    «Ehi, guardate!», esclamò uno degli assistenti procuratori dal suo ufficio. «È arrivata Dirty Harriet!».

    «Molto divertente, Logan», disse Kate, facendosi strada nel corridoio verso l’ufficio del procuratore distrettuale. «L’hai letto in un libro, non è vero?»

    «Dovrebbero prendere Rene Russo per fare la tua parte nel film».

    «Riferirò».

    Il dolore le mordeva la schiena e il fianco. Si era rifiutata di andare al pronto soccorso. Piuttosto, era andata zoppicando nel bagno delle donne, aveva domato la criniera biondo rossiccia in una coda, lavato via il sangue, abbandonato le calze nere rovinate, ed era tornata nel suo ufficio. Non aveva ferite per cui valesse la pena fare una radiografia o mettere dei punti, e già metà della mattinata era andata via. Era il prezzo di essere una dura: quella sera si sarebbe accontentata di un’aspirina, un gin freddo e un bagno caldo, invece di un antidolorifico vero. Sapeva già che se ne sarebbe pentita.

    Le venne in mente che era troppo vecchia per affrontare gente lunatica e cadere insieme giù dalle scale mobili, ma si opponeva testardamente all’idea che quarantadue anni fossero troppi per fare qualsiasi cosa. E inoltre, era entrata solamente da cinque anni in quella che definiva la sua seconda età adulta. La seconda carriera, il secondo tentativo di avere stabilità e routine.

    L’unica cosa che aveva desiderato fin da quando era rientrata a casa da Las Vegas era tornare alla vita bella, normale, e relativamente sensata che si era fatta. Pace e tranquillità. Gli intrighi familiari del suo lavoro da avvocato difensore della vittima e del testimone. Le lezioni di cucina a cui non voleva assolutamente mancare.

    Ma no, doveva essere lei a notare l’uomo con i tic. Era sempre lei quella a dover notare i tipi allarmanti.

    Avvertito dalla segretaria, il procuratore distrettuale le andò ad aprire la porta lui stesso. Un uomo alto e di bell’aspetto, Ted Sabin aveva una presenza imponente e una spruzzata di capelli grigi, che teneva tirati indietro da un’attaccatura prominente. Un paio di occhiali dalla montatura in acciaio appollaiati sul naso adunco gli conferivano un aspetto studioso e lo aiutavano a camuffare il fatto che gli occhi azzurri erano troppo profondi e ravvicinati.

    Anche se una volta era stato lui stesso un procuratore anti-droga, ora accettava occasionalmente soltanto i casi di rilievo. Il suo lavoro da grande capo era per lo più amministrativo e politico. Sopraintendeva un ufficio animato da avvocati che provavano a gestire il carico di lavoro sempre maggiore del sistema giudiziario della Contea di Hennepin. Dedicava le pause pranzo e le serate barcamenandosi tra l’élite al potere di Minneapolis, per trovare agganci e ingraziarsi favori. Era risaputo che aveva preso d’occhio un seggio nel Senato americano.

    «Kate, entri pure», la invitò, le rughe sul volto rese più profonde dalla preoccupazione. Le appoggiò una mano sulla spalla e la guidò nell’ufficio verso una sedia. «Come sta? Mi hanno aggiornato su ciò che è accaduto questa mattina al piano di sotto. Mio Dio, poteva morire! Che atto di coraggio incredibile!».

    «No, non lo è stato», protestò Kate, provando a divincolarsi dalla sua presa. Si sedette sulla sedia dei visitatori e incrociando le gambe sentì immediatamente il suo sguardo sulle cosce nude. Tirò giù con discrezione l’orlo della camicia nera, desiderando ardentemente di avere quel paio di collant che pensava fossero nel cassetto della scrivania. «Ho solo reagito, tutto qui. Come sta la signora Sabin?»

    «Bene». La risposta era priva di sentimento. Si concentrò su di lei tirandosi su i pantaloni per appoggiarsi all’angolo della scrivania con un fianco. «Ha solo reagito? Proprio come le hanno insegnato all’fbi».

    Era ossessionato dal fatto che lei era stata un’agente, in quella che ora considerava una vita passata. Kate poteva solo immaginare le fantasie oscene che gli strisciavano come lumache nella mente. Giochi da dominatrice, pelle nera, manette, sculacciate. Bleeehhhh.

    Spostò l’attenzione sul suo capo immediato, il direttore dell’Unità servizi legali, il quale occupava la sedia accanto alla sua. Rob Marshall era l’opposto di Sabin – morbido, tarchiato, sgualcito. Aveva una testa tonda come una zucca, coperta da uno strato sempre più rado di capelli tagliati così corti da sembrare più una macchia di ruggine che altro. Aveva la faccia arrossata e devastata da vecchie cicatrici di acne, e il naso troppo corto.

    Era il suo capo da circa diciotto mesi, arrivato a Minneapolis da una posizione simile a Madison, nel Wisconsin. In quel periodo, avevano provato con un successo limitato a trovare un equilibrio fra le loro personalità e gli stili lavorativi. A Kate proprio non piaceva. Rob era un leccaculo vigliacco e aveva una tendenza a controllare tutto che cozzava contro il suo senso di autonomia. Lui la trovava autoritaria, supponente e impertinente. Lei lo prendeva come un complimento. Ma provava a controbilanciare i difetti di lui con la preoccupazione che dimostrava per le vittime. Oltre ai doveri amministrativi, di solito teneva colloqui e passava del tempo con un gruppo di supporto per le vittime.

    Ora la guardava con gli occhi stretti da dietro un paio di occhiali senza montatura, con la bocca storta come se si fosse appena morso la lingua. «Rischiavi di morire. Perché non hai chiamato la sicurezza?»

    «Non c’è stato tempo».

    «Istinto, Rob!», disse Sabin, con un sorriso a trentadue denti. «Sono sicuro che noi due non potremmo mai sperare di comprendere il tipo di istinti affilati che qualcuno con il passato di Kate ha affinato».

    Kate si astenne dal ricordargli ancora una volta che aveva passato gran parte dei suoi anni all’fbi dietro una scrivania nell’Unità di scienze comportamentali al Centro nazionale per l’analisi dei crimini violenti. I giorni che aveva passato sul campo erano più lontani di quanto volesse ricordare.

    «La sindaca vorrà darle un riconoscimento», disse raggiante Sabin, sapendo che sarebbe stato ritratto nelle foto.

    La pubblicità era l’ultima cosa che Kate voleva. Da avvocatessa, il suo lavoro era tenere per mano le vittime e i testimoni dei reati, guidarli attraverso il sistema giudiziario, rassicurarli. L’idea di un’avvocatessa rincorsa dai segugi dei media molto probabilmente avrebbe spaventato alcuni dei suoi clienti.

    «Preferirei non lo facesse. Non penso che sia l’idea migliore per qualcuno nella mia posizione. Non è vero, Rob?»

    «Kate ha ragione, signor Sabin», disse lui, sorridendo servilmente – un’espressione che appariva spesso sul suo volto quando era nervoso. Kate lo definiva il sorriso del leccaculo. Gli faceva quasi sparire gli occhi. «Non vogliamo che compaia nei giornali… tutto sommato».

    «Immagino di no», replicò Sabin deluso. «Ad ogni modo, quello che è accaduto questa mattina non è la ragione per cui l’ho chiamata, Kate. Le è stato assegnato un testimone».

    «Perché tutta questa fanfara?».

    La maggior parte dei clienti le venivano assegnati in automatico. Lavorava con sei pubblici ministeri e prendeva tutto quello che le affidavano – eccezion fatta per gli omicidi. Rob assegnava tutti i casi di omicidio, ma un incarico non garantiva niente più di una telefonata o una visita nell’ufficio di Kate. Sabin di certo non si immischiava mai nel processo.

    «Ha presente i due omicidi di prostitute di questo autunno?», chiese Sabin. «Quelli in cui i cadaveri sono stati bruciati?»

    «Sì, certamente».

    «Ce n’è stato un altro. Stanotte».

    Kate guardò prima una faccia seria poi l’altra. Dietro a Sabin c’era la vista panoramica del centro di Minneapolis dall’altezza di ventidue piani.

    «Questa volta non era una prostituta», disse lei.

    «Come fa a saperlo?».

    Perché se così non fosse non ci sprecheresti mai del tempo.

    «Ho tirato a indovinare».

    «Non l’ha sentito per strada?»

    «Per strada?». Come se fosse in un film di gangster. «No. Non sapevo che ci fosse stato un omicidio».

    Sabin girò intorno alla scrivania, improvvisamente irrequieto. «C’è una possibilità che questa vittima sia Jillian Bondurant. Il padre è Peter Bondurant».

    «Oh», disse Kate con enfasi. Oh, no, non si trattava soltanto di un’altra prostituta morta. Poco importava che le prime due vittime avessero dei padri da qualche parte. Il padre di questa era importante.

    Rob si mosse a disagio sulla sedia, sebbene non fosse chiaro se ciò era dovuto al caso o al fatto che indossasse sempre pantaloni troppo stretti in vita. «La sua patente di guida è stata lasciata accanto al corpo».

    «E la sua scomparsa è stata confermata?»

    «Ha cenato a casa del padre venerdì sera. Da allora non è stata più vista».

    «Ciò non vuol dire che sia lei».

    «No, ma per le prime due è andata così», disse Sabin. «I documenti d’identità lasciati con i corpi di tutte e due le prostitute corrispondevano».

    Nella mente di Kate balzarono centinaia di domande, sulla scena del crimine, su quali informazioni aveva rilasciato la polizia riguardo ai primi due omicidi e su quali aveva sorvolato. Era la prima volta che sentiva dei documenti lasciati sulla scena del crimine. Che cosa voleva dire? Perché bruciare i corpi rendendoli irriconoscibili, per poi lasciare l’identità della vittima in bella vista?

    «Presumo che abbiano controllato le impronte dentali», continuò lei.

    Gli uomini si scambiarono uno sguardo.

    «Temo che non sia possibile», disse Rob con cautela. «Abbiamo solo il corpo».

    «Cristo», sospirò Kate, attraversata da un brivido. «Non ha decapitato le altre. Non lo sapevo».

    «No, non l’ha fatto», disse Rob. Strinse di nuovo gli occhi e inclinò un poco la testa di lato. «Che ne pensi, Kate? Hai avuto esperienza con queste cose».

    «Ovviamente, il livello di violenza sta aumentando. Potrebbe voler dire che si sta preparando per qualcosa di grosso. Le altre hanno subito mutilazioni sessuali, giusto?»

    «La causa della morte delle altre due è stata dichiarata per strangolamento con laccio», affermò Sabin. «Sono certo che non ci sia bisogno di dirti, Kate, che mentre lo strangolamento è certamente un metodo d’omicidio abbastanza violento, una decapitazione getterà la città nel panico. In particolare se la vittima è una giovane donna rispettabile e onesta. Dio mio, la figlia di uno degli uomini più importanti dello Stato. Dobbiamo trovare velocemente questo assassino. E possiamo riuscirci. Abbiamo una testimone».

    «Ed è qui che entro in gioco io», disse Kate. «Qual è la sua storia?»

    «Si chiama Angie DiMarco», rispose Rob. «È uscita correndo dal parco proprio quando è arrivata la prima volante».

    «Chi ha chiamato la centrale?»

    «Mi dicono che è stata una chiamata anonima da un cellulare», continuò Sabin. Strinse le labbra e le storse come se avesse un dente dolorante. «Peter Bondurant è amico della sindaca. Lo conosco anche io. È fuori di sé dal dolore all’idea che questa vittima sia Jillian, e vuole che questo caso sia risolto il prima possibile. Un’unità speciale viene messa insieme proprio mentre parliamo. Hanno chiamato i suoi vecchi amici all’fbi. Manderanno qualcuno dall’Unità di supporto investigativo. È chiaro che abbiamo fra le mani un serial killer».

    E voi avete un imprenditore importante su per il culo.

    «Girano già delle voci», mormorò cupamente Sabin. «Il Dipartimento di polizia fa acqua da tutte le parti tanto da rischiare di prosciugare il Mississippi».

    Il telefono sulla scrivania si illuminò come un centralino durante una maratona televisiva, sebbene fosse in modalità silenziosa.

    «Ho parlato con il commissario Greer e con la sindaca», continuò. «Lo teniamo in pugno ora».

    «È per questo che ti abbiamo chiamato, Kate», disse Rob, spostandosi di nuovo sulla sedia. «Non possiamo aspettare un arresto per assegnare qualcuno a questa testimone. È l’unico collegamento con l’assassino che abbiamo. Vogliamo che qualcuno dell’unità le stia accanto fin da subito. Qualcuno che le stia vicino durante gli interrogatori della polizia. Qualcuno che le dica di non parlare con la stampa. Che mantenga il contatto fra lei e l’ufficio del procuratore distrettuale. Che la tenga d’occhio».

    «Sembra che quello che volete sia una baby sitter. Ho dei casi aperti».

    «Li assegneremo a qualcun altro».

    «Non il caso Willis», ribatté lei, poi fece una smorfia. «Per quanto mi piacerebbe piantarlo. E assolutamente non Melanie Hessler».

    «Hessler potrei prenderla io, Kate», insisté Rob. «Ho assistito all’incontro iniziale. Conosco il caso».

    «No».

    «Ho lavorato con molte vittime di stupro».

    «No», disse come se fosse lei il capo e le spettasse la decisione.

    Sabin sembrava contrariato. «Che caso è?»

    «Melanie Hessler. È stata stuprata da due uomini nel vicolo dietro la libreria per adulti in centro dove lavora», spiegò Kate. «È molto fragile, ed è terrorizzata dal processo. Non reggerebbe il mio abbandono – specialmente non per un uomo. Ha bisogno di me. Non la lascerò».

    Rob fece un sospiro.

    «Va bene», dichiarò impaziente Sabin. «Ma questo caso è la priorità numero uno. A qualunque costo. Voglio questo pazzo fuori dalla circolazione. Ora».

    Ora che la vittima avrebbe ricevuto più di un minuto nei telegiornali delle sei e mezza. Kate si chiese quante prostitute morte ci sarebbero volute perché Ted Sabin sentisse lo stesso livello di urgenza. Ma tenne la domanda per sé e annuì, e provò a ignorare il senso di terrore che le calò nello stomaco come un peso di piombo.

    Solo un’altra testimone, disse a se stessa. Solo un altro caso. Di nuovo nei soliti intrighi familiari del suo lavoro.

    Col cazzo.

    La figlia morta di un miliardario, un caso pieno di politici, un serial killer, e qualcuno che sarebbe intervenuto da Quantico. Qualcuno dall’Unità di supporto investigativo. Qualcuno che non c’era stato cinque anni fa, sperava – ma sapeva che la speranza era uno scudo fragile.

    All’improvviso, Las Vegas non sembrava poi un’idea così brutta.

    Capitolo 3

    «È successo di notte. Era buio. Quanto può aver visto?», chiese Kate.

    I tre camminavano insieme nel sottopassaggio della Quinta Strada che collegava il centro governativo alla mostruosità deprimente in stile gotico che ospitava gli uffici municipali e il Dipartimento di polizia di Minneapolis. Il sottopassaggio era pieno. Nessuno sarebbe uscito in strada di propria spontanea volontà. Il mattino grigio si era incupito, un cielo plumbeo sovrastava la città e la pioggia cadeva fredda e costante. Novembre: un mese incantevole in Minnesota.

    «Ha detto alla polizia di averlo visto», disse Rob, avanzando lentamente accanto a lei. Aveva le gambe corte rispetto al corpo, e quando si sbrigava aveva l’andatura trotterellante di un nano, anche se era di media altezza. «Dobbiamo sperare che l’abbia visto abbastanza bene da poterlo identificare».

    «Vorrei avere un identikit in tempo per la conferenza stampa», annunciò Sabin.

    Kate strinse i denti. Oh, già, sarebbe stato un caso indimenticabile. «Ci vuole tempo per un identikit fatto bene, Ted. Ne vale la pena».

    «Sì, be’, prima rilasciamo una descrizione o un’immagine, meglio è».

    Riusciva a immaginare Sabin che estorceva informazioni dalla testimone, e poi la metteva da parte come uno straccio usato.

    «Faremo tutto il possibile per velocizzare la situazione, signor Sabin», promise Rob. Kate gli lanciò uno sguardo tagliente.

    L’edificio del municipio era stato in precedenza il tribunale della Contea di Hennepin, ed era stato costruito per dare un senso di grandiosità sobria volta a far colpo sui visitatori. L’entrata sulla Quarta Strada, per la quale Kate aveva poche ragioni di passare, era imponente quanto un palazzo, con una scalinata doppia di marmo, delle vetrate incredibili e l’enorme scultura del Padre delle acque. Il corpo principale dell’edificio le ricordava da sempre un vecchio ospedale con i pavimenti di piastrelle e i rivestimenti di marmo bianco. C’era sempre una sensazione di vuoto in quel luogo, sebbene Kate sapesse che era strapieno di poliziotti e criminali, funzionari comunali e giornalisti, e cittadini che cercavano giustizia o favori.

    Il Reparto investigativo criminale del Dipartimento di polizia era stipato in una tana scura piena di stanze in fondo a un corridoio cavernoso, mentre le ristrutturazioni continuavano con i loro scavi. L’area della reception era ritagliata da divisori temporanei. C’erano documenti e scatole impilati ovunque, degli schedari grigi e malmessi erano stati spinti in ogni angolo disponibile. Attaccato al muro accanto alla porta dello stanzino delle scope convertito nell’ufficio degli investigatori di reati sessuali c’era un cartello che proclamava:

    veglia del tacchino!

    27 novembre

    da patrick

    ore 16

    Sabin salutò sbrigativo la segretaria e girò a destra negli uffici della omicidi. La stanza era un labirinto di brutte scrivanie di metallo color stucco sporco. Alcune erano occupate, la maggior parte era libera. Altre erano ordinate, la gran parte coperte di scartoffie. Note, fotografie e vignette erano impilate e attaccate ai muri e agli schedari. Un avviso accanto alla porta ordinava: omicidi – mettete la sicura alle pistole!

    Con la cornetta del telefono premuta all’orecchio, Sam Kovac li notò, fece una smorfia e gli fece cenno di avvicinarsi. Veterano da ventidue anni, Kovac aveva quell’aria universale da poliziotto con i baffi e un taglio di capelli economico, entrambi castani e generosamente striati di grigio.

    «Sì, so che ti stai vedendo con la sorella della mia seconda moglie, Sid». Tirò fuori un pacchetto nuovo di Salem da una scatola sulla scrivania e cominciò a scartare l’involucro di plastica. Si era tolto la giacca del completo marrone sgualcito e si allentò il nodo della cravatta. «Ciò non ti dà il diritto di avere informazioni riservate su questo omicidio. Solo la mia compassione. Sì? Sì? Ha detto così? Be’, perché pensi che l’abbia lasciata? Uh-huh. Uh-huh. È così?».

    Morse la linguetta dell’involucro delle sigarette e aprì il pacchetto con i denti, strappandolo. «Hai sentito, Sid? Quello sono io che ti faccio a pezzi se stampi una sola parola di tutto questo. Hai capito? Vuoi delle informazioni? Vieni alla conferenza stampa con tutti gli altri. Ah sì? Be’, altrettanto».

    Sbatté la cornetta sul telefono e rivolse lo sguardo arrabbiato sul procuratore distrettuale. Aveva gli occhi del verde marrone della corteccia umida, iniettati di sangue, duri e illuminati di intelligenza. «Maledetti giornalisti. Questa faccenda sta per diventare più brutta di mia zia Selma, e lei ha una faccia che farebbe vomitare anche un bulldog».

    «Hanno il nome di Bondurant?», chiese Sabin.

    «Ovvio che ce l’hanno». Tirò fuori una sigaretta dal pacchetto e la lasciò pendere dalle labbra mentre rovistava nel caos sulla scrivania. «Ci stanno col fiato sul collo come le mosche sulla merda», disse, guardandoli da sopra la spalla. «Ciao, Kate… Cristo, che ti è successo?»

    «È una storia lunga. Sono sicura che te la racconteranno da Patrick stasera. Dov’è la nostra testimone?»

    «In fondo al corridoio».

    «È già al lavoro con il ritrattista?», domandò Sabin.

    Kovac sbuffò e fece un suono come un cavallo disgustato. «Non collabora neanche con noi ancora. La nostra cittadina non fa i salti di gioia all’idea di essere al centro dell’attenzione».

    Rob Marshall sembrava allarmato. «Non costituisce un problema, vero?». Fece un sorriso da leccaculo a Sabin. «Immagino che sia solo scossa, signor Sabin. Kate la farà calmare».

    «Che ne pensa della testimone, detective?», chiese Sabin.

    Kovac afferrò un accendino Bic e una cartella disordinata e si diresse verso la porta. Stanco del mondo e ammaccato, la sua corporatura era solida e slanciata allo stesso tempo, funzionale piuttosto che ornamentale. I pantaloni marroni erano un po’ larghi e un po’ troppo lunghi, e gli orli gli si arricciavano sulle scarpe dalle suole consumate.

    «Oh, è un fiorellino», disse sarcastico. «Ci ha dato quella che deve essere una patente di guida rubata di un altro Stato. Ha detto che vive in un appartamento nel quartiere Phillips ma non ha le chiavi e non sa dirci chi le ha. Se non ha precedenti, mi raso il culo e lo coloro di blu».

    «Quindi l’avete cercata nel database, e poi?», chiese Kate, sforzandosi di mantenere il passo, così che Sabin e Rob dovettero accodarsi a loro. Aveva imparato da tempo a coltivare le amicizie con i poliziotti che si occupavano dei suoi casi. Averli come alleati piuttosto che come avversari era un punto a suo vantaggio. D’altra parte, le piacevano quelli bravi, come Kovac. Facevano un lavoro duro e ricevevano poche lodi e una paga minima per la sola ragione antiquata che credevano fosse necessario. Lei e Kovac avevano creato un buon rapporto nell’arco di cinque anni.

    «Ho provato a cercare il nome che usa oggi», la corresse. «Quel computer di merda è in panne. Sarà una giornata magnifica. Sono di turno di notte ora, sai. Dovrei essere a casa a letto. La mia squadra ha il turno di notte. Odio questa cazzata dei team. Sai che intendo? Ho una mezza idea di trasferirmi ai reati sessuali».

    «E voltare le spalle a tutta questa fama e celebrità?», lo prese in giro Kate, colpendolo con un gomito.

    Lui la guardò abbassando la testa con fare cospiratorio. Una scintilla d’ironia pungente gli illuminò gli occhi. «Cazzo, Rossa. Lo sai che i cadaveri mi piacciono senza complicazioni».

    «L’ho sentito dire, Sam», scherzò lei, sapendo che era il migliore investigatore nella polizia, una brava persona tutta d’un pezzo che viveva per quel lavoro e ne odiava il risvolto politico.

    Fece una risata e aprì la porta di una stanzetta che guardava in un’altra attraverso il vetro scuro del falso specchio. Al di là del vetro, Nikki Liska, un’altra detective, era appoggiata al muro, lo sguardo fisso sulla ragazza seduta all’estremità del tavolo in finto legno. Un brutto segno. La situazione era già diventata antagonistica. Il tavolo era ricoperto di lattine, bicchieri da caffè di carta, pezzi e briciole di ciambelle.

    Guardando attraverso lo specchio, il senso di terrore nello stomaco di Kate si fece più pesante. Alla ragazza dava più o meno quindici o sedici anni. Pallida e magra, aveva un naso piccolo e le labbra piene e seducenti di una squillo costosa. Il viso era stretto e ovale, il mento un po’ troppo lungo, perciò poteva sembrare sprezzante anche senza sforzarsi. Aveva gli occhi a mandorla, esotici, che sembravano avere vent’anni di troppo.

    «È una ragazzina», dichiarò Kate piattamente, rivolgendo lo sguardo pieno di confusione e accusa a Rob. «Non lavoro con i ragazzini. Lo sapete».

    «Abbiamo bisogno di te in questo caso, Kate».

    «Perché?», domandò. «Avete un intero dipartimento minorile a disposizione. Dio solo sa che si occupano costantemente di omicidi».

    «È diverso. Qui non si tratta di una sparatoria fra gang», disse Rob, relegando in apparenza alcuni dei reati più violenti della città nella stessa categoria del taccheggio e degli incidenti stradali. «Si tratta di un serial killer».

    Anche in una professione che considera l’omicidio un fatto di routine, le parole serial killer hanno una certa risonanza. Kate si chiese se il loro ricercato ne fosse al corrente, se l’idea gli facesse piacere, o se fosse troppo preso dal suo piccolo mondo di caccia e uccisione. Aveva conosciuto entrambi i tipi. Le loro vittime alla fine morivano tutte ugualmente.

    Volse le spalle al suo capo e tornò a guardare la ragazza che si era imbattuta con quest’ultimo predatore. Angie DiMarco stava lanciando occhiatacce allo specchio, ed emanava astio in onde invisibili. Afferrò una penna nera dal tavolo e in maniera provocatoria si strofinò lentamente il cappuccio avanti e indietro lungo il labbro inferiore in un gesto al contempo impaziente e sensuale.

    Sabin si piazzò di profilo accanto a Kate come se stesse posando per un incisore di monete. «Ha lavorato con i minori in casi di questo tipo in passato, Kate. Con l’fbi. Ha un metro di riferimento. Sa cosa aspettarsi dall’indagine e dai media. Potrebbe perfino conoscere l’agente che manderanno dall’Unità di supporto investigativo. Potrebbe esserci d’aiuto. Abbiamo bisogno di ogni vantaggio disponibile».

    «Studiavo le vittime. Mi occupavo di persone morte». Non le piaceva l’ansia che si stava risvegliando in lei. Non le piaceva provarla, non voleva esaminarne la fonte. «C’è una grossa differenza fra lavorare con una persona morta e lavorare con un minore. Che io sappia, i morti collaborano di più degli adolescenti».

    «Sei l’avvocato dei testimoni», disse Rob, il tono di voce che tendeva a un leggero lamento. «Lei è una testimone».

    Kovac, che si era appoggiato al muro per guardare la discussione, le fece un sorriso fiacco. «Non si possono scegliere i genitori o i testimoni, Rossa. Avrei preferito che Madre Teresa fosse corsa via da quel parco ieri sera».

    «No, meglio di no», ribatté Kate. «La difesa avrebbe sostenuto che aveva le cataratte e l’Alzheimer, e avrebbe detto che chiunque creda che un uomo possa risuscitare tre giorni dopo la morte è un testimone tutt’altro che credibile».

    I baffi di Kovac fremettero. «Maledetti avvocati».

    Rob sembrava disorientato. «Madre Teresa è morta».

    Kate e Kovac alzarono gli occhi al cielo all’unisono.

    Sabin si schiarì la gola e guardò visibilmente l’orologio. «Dobbiamo sbrigarci a iniziare. Voglio sentire che cosa ha da dire».

    Kate alzò un sopracciglio. «E pensi che glielo dirà così? Si vede che non esce spesso dall’ufficio, Ted».

    «Farà meglio a dircelo», sentenziò lui sinistramente, e si diresse verso la porta.

    Kate fissò attraverso il vetro un’ultima volta, incrociando lo sguardo della sua testimone, anche se sapeva che la ragazza non poteva vederla. Un’adolescente. Cristo, avrebbero fatto meglio ad assegnarle un marziano. Non era la madre di nessuno. E questo era un promemoria di cui non aveva bisogno e che non voleva.

    Guardò il volto pallido della ragazza e vide una rabbia, un disprezzo e un’esperienza che nessun ragazzino di quell’età avrebbe dovuto avere. E vide la paura. Sepolta al di sotto del resto, tenuta a bada dentro di sé come un segreto, c’era la paura. Kate non ammise nemmeno con se stessa il perché sapesse riconoscere così bene quella paura.

    Nella stanza degli interrogatori, Angie DiMarco lanciò uno sguardo a Liska, che guardava l’orologio. Tornò a fissare lo specchio finto e si infilò la penna nella scollatura del maglione.

    «Una ragazzina», mormorò Kate mentre Sabin e Rob Marshall uscivano nel corridoio prima di lei. «Non ero neanche brava a essere una ragazzina».

    «È perfetto», disse Kovac, tenendole la porta aperta. «Non lo è neanche lei».

    Liska, bassa, bionda e atletica, con un taglio di capelli da uomo, si staccò dal muro e fece un sorriso stanco a tutti mentre entravano nella stanza degli interrogatori. Somigliava a Campanellino strafatta di steroidi – o così aveva dichiarato Kovac quando l’aveva battezzata con il soprannome di Trilli.

    «Benvenuti al parco divertimenti», disse. «Qualcuno vuole del caffè?»

    «Decaffeinato per me e uno per la nostra amica al tavolo, Nikki, per favore», rispose piano Kate, senza distogliere lo sguardo dalla ragazza, provando a formulare una strategia.

    Kovac si lasciò cadere su una sedia e si appoggiò al tavolo con un braccio, spazzando via con le dita dalle unghie corte le gocce di cioccolata che erano sparse sulla superficie come cacche di topo.

    «Kate, questa è Angie DiMarco», disse con noncuranza. «Angie, questa è Kate Conlan del programma vittime/testimoni. È stata assegnata al tuo caso».

    «Non sono un caso», sbottò la ragazza. «Chi sono loro?»

    «Il procuratore distrettuale Ted Sabin e Rob Marshall dal programma vittime/testimoni». Kovac indicò prima l’uno e poi l’altro mentre i due prendevano posto al tavolo dall’altra parte rispetto alla loro preziosa testimone.

    Sabin le rivolse la sua migliore espressione da Ward Cleaver. «Ci interessa molto ciò che hai da dire, Angie. Quest’assassino che cerchiamo è un uomo pericoloso».

    «Grazie al cazzo». La ragazza si rivolse a Kovac. Lo sguardo le cadde sulla sua bocca. «Posso avere una sigaretta?».

    Lui si tolse la sigaretta dalle labbra e la osservò. «Diamine, neanche io posso fumarmene una», confessò. «È vietato fumare nell’edificio. Stavo per uscire con questa».

    «Che palle. Sono bloccata in questa stanza del cazzo per mezza nottata e non posso nemmeno fumarmi una dannata sigaretta!».

    Appoggiò la schiena alla sedia e incrociò le braccia al petto. Aveva i capelli castani unti e con la riga al centro, che le cadevano liberi sulle spalle. Si era messa troppo mascara, che le si era sbavato sotto agli occhi, e indossava un giacchetto di jeans sbiadito di Calvin Klein che una volta apparteneva a qualcuno chiamato Rick. Il nome era stampato con inchiostro indelebile sopra il taschino sinistro sul petto. Teneva il giacchetto addosso nonostante nella stanza facesse caldo. Per sicurezza o per nascondere le tracce degli aghi, tirò a indovinare Kate.

    «Oh, per l’amor del cielo, Sam, dalle una sigaretta», disse Kate, tirandosi su le maniche del maglione. Si sedette sulla sedia vuota dal lato del tavolo della ragazza. «E danne una anche a me, già che ci sei. Se quei nazisti del politicamente corretto ci beccano, affondiamo tutti insieme. Che possono farci? Chiederci di uscire da questa fogna?».

    Guardò la ragazza con la coda dell’occhio mentre Kovac scuoteva il pacchetto di sigarette per farne uscire due. Le unghie di Angie erano morse fino alla carne viva e aveva uno smalto azzurro ghiaccio metallico. Le tremava la mano mentre prendeva la sigaretta offerta. Indossava un assortimento di anelli di plastica e due piccoli tatuaggi rudimentali fatti con l’inchiostro di penna le macchiavano la pelle chiara – una croce vicino al pollice, e la lettera A con una linea orizzontale in cima. Un lavoro professionale le circondava il polso, un braccialetto delicato di rovi in inchiostro blu.

    «Sei stata qui tutta la notte, Angie?», le chiese Kate, facendo un tiro dalla sigaretta. Sapeva di merda secca. Non riusciva a immaginare perché mai avesse preso l’abitudine durante il college. Era il prezzo per essere fica, supponeva. E ora era il prezzo per stabilire un legame.

    «Sì». Angie sparò un flusso di fumo verso il soffitto. «E non hanno neanche lasciato che chiamassi un avvocato».

    «Non hai bisogno di un avvocato, Angie», disse Kovac cordialmente. «Non sei accusata di nulla».

    «Allora perché non posso andarmene da questa fogna?»

    «Dobbiamo sistemare diverse complicazioni. Per esempio, la questione dei tuoi documenti».

    «Vi ho dato la mia carta d’identità».

    Lui la tirò fuori dalla cartella e la porse a Kate con un’eloquente alzata del sopracciglio.

    «Hai ventuno anni», lesse impassibile Kate, gettando la cenere in un bicchiere abbandonato di caffè oleoso.

    «Dice così».

    «Dice che sei di Milwaukee…».

    «Ero. Me ne sono andata».

    «Hai famigliari lì?»

    «Sono morti».

    «Mi dispiace».

    «Ne dubito».

    «Hai famigliari qui? Zie, zii, cugini, parenti acquisiti, fenomeni da baraccone? Chiunque possiamo contattare da parte tua… per aiutarti in questa faccenda?»

    «No. Sono orfana. Povera me». Finse una risata sarcastica. «Fidatevi, non ho bisogno di parenti».

    «Non hai un domicilio, Angie», disse Kovac. «Devi capire che cosa succede qui. Sei l’unica che può identificare un assassino. Dobbiamo sapere dove vivi».

    Lei alzò gli occhi al cielo come solo le adolescenti sanno fare, trasmettendo sia incredulità che impazienza. «Te l’ho dato il mio indirizzo».

    «Mi hai dato l’indirizzo di un appartamento di cui non hai le chiavi e non sai dirmi il nome della persona con cui abiti».

    «Te l’ho detto!».

    Si alzò dalla sedia e volse le spalle a Kovac, facendo piovere cenere sul pavimento dalla sigaretta che teneva in mano. Il maglione blu che indossava sotto il giacchetto era tagliato corto oppure si era ritirato, e mostrava un piercing all’ombelico e un altro tatuaggio… tre gocce di sangue che cadevano sotto la cintura dei jeans sporchi.

    «Si chiama Molly», affermò. «L’ho incontrata a una festa e ha detto che posso stare da lei finché non trovo un posto mio».

    Kate colse un accenno di tremore nella voce della ragazza, il linguaggio del corpo sulla difensiva mentre si ritirava in se stessa e gli dava le spalle. Dall’altra parte della stanza, la porta si aprì ed entrò Liska con i caffè.

    «Angie, nessuno sta cercando di incastrarti», disse Kate. «La nostra prima preoccupazione è la tua incolumità».

    La ragazza si girò di scatto verso di lei, gli occhi blu scuro che brillavano di rabbia. «La vostra preoccupazione è che io testimoni contro questo Crematore pazzo maniaco. Pensi che sia matta? Mi troverà e ammazzerà anche me!».

    «La tua cooperazione è essenziale, Angie», proferì Sabin con autorità. L’uomo al comando. «Sei la nostra unica testimone. Quest’uomo ha ucciso tre donne, per quanto ne sappiamo».

    Kate lanciò un’occhiata tagliente al procuratore distrettuale.

    «Parte del mio lavoro è assicurarmi che tu sia al sicuro, Angie», spiegò lei, mantenendo la voce bassa e calma. «Se hai bisogno di un posto dove stare, possiamo trovartelo. Hai un lavoro?»

    «No». Si voltò di nuovo. «Lo sto cercando», aggiunse quasi sulla difensiva. Gravitò verso l’angolo della stanza, dove aveva lasciato uno zaino sporco. Kate era pronta a scommettere che tutto ciò che la ragazza possedeva fosse in quello zaino.

    «È difficile trasferirsi in una città nuova», la incalzò Kate piano. «Non si conoscono le strade. Non si conosce nessuno. È difficile sistemarsi, iniziare una nuova vita».

    La ragazza abbassò la testa e si morse un’unghia, i capelli sciolti le nascondevano la faccia.

    «Ci vogliono soldi per sistemarsi», continuò Kate. «Soldi per mangiare. Soldi per una casa. Soldi per i vestiti. Soldi per tutto».

    «Me la cavo».

    Kate immaginava in che modo. Sapeva come funzionava per i ragazzi per strada. Facevano il necessario per sopravvivere. Mendicavano. Rubavano. Vendevano droga. Si prostituivano una, due, dieci volte. Nel mondo non c’era penuria di feccia umana depravata più che disposta a sfruttare ragazzini senza casa né prospettive.

    Liska posò i bicchieri di caffè bollente sul tavolo e si piegò per sussurrare nell’orecchio di Kovac. «Elwood ha rintracciato il titolare dell’edificio. Dice che l’appartamento è vuoto e se questa ragazzina ci vive, vuole un acconto di cinquecento dollari altrimenti sporgerà denuncia per violazione di domicilio».

    «Che filantropo».

    «Elwood gli ha detto: Cinquecento? E quanto sarebbe? Un dollaro per scarafaggio?».

    Kate assorbì i commenti sussurrati, con gli occhi fissi su Angie. «La tua vita è già difficile così senza dover diventare testimone di un omicidio».

    Con la testa ancora china, la ragazza tirò su col naso e si portò la sigaretta alla bocca. «Non l’ho visto ucciderla».

    «Che cosa hai visto?», domandò Sabin. «Dobbiamo saperlo, signorina DiMarco. Ogni minuto che passa è cruciale per l’indagine. Quest’uomo è un serial killer».

    «Penso che ne siamo tutti consapevoli, Ted», ammise Kate con un tono di voce affilato come la lama di un rasoio. «Davvero, non c’è bisogno che ce lo ricordi ogni due minuti».

    Rob Marshall si agitò. Sabin incontrò lo sguardo di lei, mostrando la propria impazienza. Voleva una rivelazione prima di correre via all’incontro con la sindaca. Voleva poter mettersi di fronte alle telecamere durante la conferenza stampa, dare un nome e una faccia al mostro libero fra loro, e annunciare che un arresto era imminente.

    «Sembra che Angie abbia qualche difficoltà a decidere se cooperare o no», disse. «Penso sia importante che capisca la gravità della situazione».

    «Ha visto qualcuno dare fuoco a un corpo umano. Penso che capisca perfettamente la gravità della situazione».

    Con la coda dell’occhio, Kate vide che aveva attirato l’attenzione della ragazza. Forse potevano essere due amiche che vivevano insieme per strada una volta che Sabin l’avesse licenziata per averlo sfidato di fronte ad altre persone. Che cosa stava pensando? Non voleva nemmeno avere a che fare con questo casino.

    «Che cosa ci facevi nel parco a quell’ora di notte, Angie?», chiese Rob, asciugandosi la fronte con un fazzoletto.

    La ragazza lo fissò dritto in faccia. «Mi facevo i cazzi miei».

    «Puoi toglierti il giacchetto se vuoi», disse lui con un sorriso fragile.

    «Non voglio».

    Lui strinse i denti e il sorriso diventò più una smorfia. «Va bene. Se vuoi tenerlo, va bene. Fa così caldo qui dentro. Perché non ci dici a parole tue il motivo per cui eri in quel parco ieri notte, Angie?».

    Lei lo fissò con il veleno nello sguardo. «Vi direi di baciarmi il culo, ma siete così fottutamente brutti che vi farei pagare in anticipo».

    Il volto di lui arrossì come se fosse irritato.

    Un cercapersone squillò e tutti nella stanza, tranne la testimone, controllarono i propri. Sabin fece una smorfia tetra mentre leggeva il messaggio sullo schermo del suo. Guardò di nuovo l’orologio.

    «Hai visto bene l’uomo, Angie?», domandò Rob a denti stretti. «Ci saresti di grande aiuto. So che hai passato dei momenti terribili…».

    «Non sai un cazzo», sbottò la ragazza.

    Sulla tempia sinistra di Rob apparve una vena e il sudore ricoprì la fronte lucida.

    «È per questo che lo chiediamo a te, ragazzina», disse Kate con calma. Soffiò un lungo getto di fumo. Aveva tutto il tempo del mondo. «Hai visto bene il tizio?».

    Angie la studiò per un momento, protraendo i minuti e il silenzio, poi si rivolse verso Sabin, Liska e Kovac, e poi di nuovo verso Rob Marshall. Misurandolo. Valutandolo.

    «L’ho visto tra le fiamme», sbottò infine, abbassando lo sguardo al pavimento. «Ha dato fuoco al corpo e ha detto: Cenere alla cenere».

    «Sapresti riconoscerlo se lo vedessi di nuovo?», domandò Sabin.

    «Certo», mormorò lei, portandosi la sigaretta alle labbra per un’ultima tirata. La punta brillò come una brace infernale contro il bianco pallido del suo volto. Quando parlò di nuovo, fu in una nuvola di fumo. «È il diavolo».

    «Cos’è questa storia?». Kate andò

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