Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

GialloFestival 2021
GialloFestival 2021
GialloFestival 2021
E-book554 pagine7 ore

GialloFestival 2021

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

L’antologia con i migliori racconti gialli della terza edizione di GialloFestival, il concorso per i migliori romanzi e racconti gialli.  55 racconti di altrettanti autori
LinguaItaliano
Data di uscita30 dic 2021
ISBN9788868104610
GialloFestival 2021

Leggi altro di Autori Vari

Correlato a GialloFestival 2021

Titoli di questa serie (69)

Visualizza altri

Ebook correlati

Gialli per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su GialloFestival 2021

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    GialloFestival 2021 - Autori vari

    cover.jpg

    Autori Vari

    GIALLOFESTIVAL 2021

    I migliori racconti gialli

    Prima Edizione Ebook 2022 © Damster Edizioni, Modena

    ISBN: 9788868104610

    Immagine di copertina su licenza

    Adobestock.com

    Damster Edizioni è un marchio editoriale

    Edizioni del Loggione S.r.l.

    Via Piave 60 - 41121 Modena

    http://www.damster.it e-mail: damster@damster.it

    catalogo su

    www.librisumisura.com

    img1.png

    Autori Vari

    GIALLOFESTIVAL 2021

    I migliori racconti gialli

    Romanzo

    img2.png

    INDICE

    SOTTO QUESTO GRANDE ALBERO

    Marzia Accardo

    DELITTO IMPERFETTO

    Andrea Albertazzi

    QUESTI POSTI DAVANTI AL MARE

    Graziano Aldrovandi

    UNA MATERIA OBSOLETA

    Silvia Angelini

    COMA PROFONDO

    Franco Bellandi

    GLI ESTRANEI

    Rigel Bellombra

    IL CURIOSO CASO DELL’ELFO  NEL CASSONETTO

    Daniele Bergonzoni

    MORTE DI UNO SCULTORE

    Marco Bertoli

    IL CLUB DELLE BAMBINAIE REDIVIVE

    Cristina Biolcati

    IL TESTAMENTO

    Pasquale Braschi

    UNA NOTTE ALL’ACQUARIO

    Lucia Cabella

    GIUSTIZIA PER LOLA

    Osvaldo Cai

    FOOD TRUCK

    Mirco Camarin

    LA RELIQUIA

    Emanuele Cavarra

    GNANC’UN PLISSÉ

    Miriam Cervellin

    SALUTI A COLAZIONE

    Alessandro Conforti

    LA MADRE PIAGNONA

    Andrea D’Amico

    SIMBIOSI

    Silvia Favaretto

    UNA NOTTE VERAMENTE SPECIALE

    Paolo Forni

    GLIELO DIREMO NOI

    Pietro Furlotti

    LA NOTTE BIANCA

    Alberto Garavello

    IL POZZO DELLE VEDOVE

    Barbara Ghedini

    LA CALDA ESTATE DELL’82

    Stefano Giusti

    UNA GIOVANE DETECTIVE  LUNGO LA VIA EMILIA

    Margherita Gobbi

    DELITTI NELL’ETÀ DEL BRONZO

    Stefania Grillini

    IL GIORNO FORTUNATO

    Andrea La Rovere

    LA BOHÈME

    Giovanna Maccari

    NON LASCIARE LA VENDETTA A DIO

    Andrea Mariani

    FUMO NEGLI OCCHI

    Roberto Masini

    TRE CIVETTE SUL COMÒ

    Laura Mazzucato

    QUEL PESO NELL’ANIMA

    Irene Montanari

     LA DONNA NEL DIPINTO

    Bianca Nocentini

    REGIUM LEPIDUM

    Vito Norcia

    EFFERATA VENDETTA

    Francesca Panzacchi & Vito Introna

    DOV’È MARIA?

    Mike Papa

    IL RIFUGIO

    Alessandro Parolini

    IL PRIMO LUNEDÌ

    Monica Pedretti

    IL CASO BUSCAGLIA

    Franco Porchetti

    THE WHITE LADY

    Federica Porrati

    IL PASSATO NON PERDONA

    Vito Quagliara

    IL PRANZO MEMORABILE

    Roberto Rapastella

    ANOMALIA OLFATTIVA

    Donato Ruggiero

    UNA DOMENICA

    Francesca Santi

    NON RIESCO A SMETTERE DI AMARTI

    Nicolina Scalzo

    ALICE

    Patrizia Scialoni

    CHI SBAGLIA PAGA

    Ignazio Semilia

    L’ORA DEL GIUDIZIO

    Fabio Simiani

    FALSI OMICIDI

    Dario Snaidero

    L’ODORE CATTIVO DEL DIAVOLO

    Ellery Sueen

    L’OMBRA DEL MALE

    Liliana Tuozzo

    L’UOMO NERO

    Federico Verducci

    LA PENSIONE NON PERMETTE I VIZI

    Iryna Volynets

    GLI AUTORI

      CATALOGO

    SOTTO QUESTO GRANDE ALBERO

    Marzia Accardo

    Da quanto tempo non veniamo qui, sotto questo grande albero, te lo ricordi?

    Avevamo cinque anni quando sgattaiolavamo fuori dal giardino condominiale - non recintato - per fuggire in aperta campagna. Una distesa di campi coltivati si apriva a perdita d’occhio davanti a noi, e il mondo ci sembrava finire là, dove lo sguardo non riusciva ad andare oltre.

    Quello era il nostro regno incontrastato, uno spazio immenso in cui potevamo correre, rotolarci a terra, saltare i fossi, arrampicarci sugli alberi e mangiare la nostra merenda comodamente sedute su una balla di fieno. Le narici si riempivano del profumo d’erba, di fiori selvatici e fieno bagnato; il silenzio era spezzato solo dal rumore dei nostri movimenti e dal ronzio delle api, mentre in estate risuonava prepotente solo il canto delle cicale.

    Sdraiate sull’erba ridevamo e parlavamo di tante cose che adesso mi sembrano così stupide e senza senso, ma allora per noi erano importanti ed estremamente serie.

    Inspiro profondamente ma adesso non sento alcun odore, mi guardo intorno e non c’è più traccia di ciò che ci circondava allora: i campi, i fossi, gli alberi; perfino le vecchie rotaie della ferrovia sono state smantellate. Quante volte abbiamo seguito il loro percorso, camminandoci sopra nel tentativo di restare in equilibrio fino ad arrivare all’altezza dell’ultima casa della via, da cui proseguivano fino a chissà dove. Non siamo mai andate oltre.

    Su quelle rotaie ci era stato impedito di camminare perché da un momento all’altro poteva passare il treno. In realtà nessun vagone ha mai solcato una volta quelle sbarre di ferro, che negli anni si sono arrugginite e riempite di muschio, divenendo parte integrante del paesaggio.

    Ora, qui, ci sono soltanto condomini e villette a schiera, un supermercato e una piscina comunale. Solo quest’albero, per uno strano scherzo del destino, è rimasto dov’era. Una quercia altissima e maestosa, dal tronco del diametro di più di un metro, o due abbracci, se vogliamo usare quella che era la nostra unità di misura.

    Nella profondità della terra, sotto il fresco delle sue fronde, riposano in pace i corpi senza vita dei numerosi animali che negli anni vi abbiamo seppellito: gatti, cani, passerotti, bisce, pesciolini rossi e qualsiasi altro sfortunato essere investito, caduto dal nido o morto di vecchiaia o malattia che abbiamo incrociato sul nostro cammino. Tutti ricevevano degna sepoltura, avvolti in un panno pulito, e una cerimonia funebre dignitosa, con tanto di fiori e preghiere.

    Qui sotto giacciono Oliva, il cagnolino furbetto di tua nonna, scappato sulla strada e investito da un’auto; Bianchina e Nerino, madre e figlio, gatti che la donna aveva trovato in un cassonetto; e poi Pepito, il mio pesce rosso, Annibale, il criceto della nostra vicina Amelia, e altri di cui non ho più memoria. Un autentico cimitero degli animali, di cui noi due soltanto conosciamo l’esistenza.

    Da quanto tempo non proviamo più questa pace, non godiamo di questo silenzio? Siamo prigionieri di una vita lanciata in folle corsa, in bilico tra mille impegni e un’immagine di perfezione e infallibilità da esibire in pubblico. Siamo seppelliti da scadenze, obblighi, tasse da pagare, decine e decine di password e pin da ricordare. Siamo schiavi della tecnologia, degli oggetti, delle stesse nostre invenzioni che dovevano facilitarci la vita, ma che ce l’hanno sequestrata. Siamo andati troppo avanti e ora non sappiamo più come fare marcia indietro.

    La cosa che fa più paura alla gente oggi è la solitudine, rimanere soli è ciò che terrorizza di più le persone. Ho visto individui unire la propria esistenza al primo estraneo che capita, soltanto per avere una compagnia al proprio fianco. Nessuno vuole rimanere solo, si preferisce piuttosto trovare la persona sbagliata e tenersela ben stretta, pur di non cadere nella disgrazia della solitudine.

    Chi ha la pazienza di cercare l’anima gemella che potrebbe non trovare mai? È un po’ come il gioco della sedia: quando la musica finisce tutti si affannano a sedersi dove capita perché nessuno vuole restare in piedi. Io non temo di restare in piedi, la mia paura più grande è sempre stata solo quella di rimanere senza di te.

    Sotto questo grande albero, un giorno, abbiamo promesso che non ci saremmo mai fatte fregare da un uomo. Gli uomini sono infidi, cattivi, sono animali interessati solo al corpo delle donne. Noi saremmo state più furbe, più accorte, e non ci saremmo fatte abbindolare da un paio di occhi azzurri o da un fisico palestrato. Noi stavamo bene insieme e non avevamo bisogno di nessun altro.

    Con il tempo siamo cresciute. Tu sei diventata un bellissimo cigno: le gambe lunghe, gli occhi da gatta espressivi e carichi di mistero, i lunghi capelli biondi e lisci, il seno prosperoso e il sedere alto e rotondo, l’andatura sinuosa e il sorriso irresistibile, la pelle bianca come la neve. Io sono rimasta il maschiaccio di sempre: polpacci muscolosi e fisico tarchiato, capelli crespi e indisciplinati, movenze sgraziate e mascoline, abbigliamento comodo e largo.

    I ragazzi hanno cominciato a corteggiarti, a guardare all’interno della tua scollatura, a proporti di uscire. Tu non hai mai disdegnato l’attenzione maschile e non hai mai fatto nulla per nascondere la tua bellezza prorompente e la tua sensualità. Sorridevi a tutti e non rifiutavi complimenti e allusioni, senza dare troppa confidenza a nessuno. Per te si trattava solo di un gioco. — È divertente — mi dicevi. Io, invece, non mi divertivo affatto.

    Col tempo la tua sfrontatezza è cresciuta di pari passo al tuo desiderio di piacere agli uomini. Era una smania che ti portava a vestirti con abiti succinti e scollati, a truccarti in modo pesante, a metterti in mostra in qualsiasi occasione, anche se non avevi certo bisogno di espedienti per stare al centro dell’attenzione. Ero gelosa degli sguardi degli altri, degli apprezzamenti, delle proposte, ma non ho mai contestato le tue scelte e i tuoi atteggiamenti.

    Sapevo che era soltanto una fase e che avrei dovuto accettarlo, sopportare. D’altronde ero la tua migliore amica, la tua confidente, la persona che era al tuo fianco ogni giorno: seduta allo stesso banco a scuola, a studiare con te il pomeriggio, compagna di uscite la sera. Non potevo in nessun modo sentire minacciato il mio ruolo nella tua vita.

    Fino a quando non è arrivato lui, e nulla è stato più lo stesso. Era il classico belloccio che piace a tutte e che tiene le ragazze sulla corda per il solo gusto di esercitare il suo potere su di loro. La fauna femminile, si sa, impazzisce per l’uomo che si mostra sicuro del suo fascino e si atteggia a gran latin lover. Mirko era forse l’unico ragazzo che non ti moriva dietro, anzi, sembrava non accorgersi nemmeno di te. A quel punto te ne sei fatta quasi una malattia, come se per te si trattasse di un affronto personale. Eri in continua competizione con le altre ragazze della compagnia, arrivando addirittura a umiliarti pur di attirare la sua attenzione.

    Lui sembrava provare un sadico piacere nel vederti soffrire, alzando sempre di più la posta ogni volta. Ti ho vista stare male, trasformarti a poco a poco, riducendoti a un burattino nelle sue mani, pronta a soddisfare a qualunque costo i suoi voleri, in un gioco al massacro che ti ha portata a diventare il giocattolo su cui sfogava i suoi capricci.

    Ho cercato di aprirti gli occhi, di farti capire che stavi sbagliando, che ti stavi solo facendo del male per una persona che non ti meritava. Ero pur sempre la tua migliore amica, soffrivo in silenzio nel vederti in quello stato. Non c’era più traccia della Diana che conoscevo: avevi perso il sorriso, l’innocenza, la dignità e la voglia di vivere.

    Quel ragazzo ti ha prosciugato l’anima, e tu gliel’hai permesso; era il prezzo da pagare per spuntarla sulle altre, perché lui fosse finalmente tuo. Non c’era più posto per nessun altro nel tuo cuore. — Tu non capisci, io sono innamorata — mi hai detto, allontanandomi ed estromettendomi dalla tua vita.

    Se ho sofferto? Sì, tanto. Ti avevo persa, rimpiazzata da uno di quegli uomini infidi e cattivi da cui avevamo giurato di difenderci e stare lontane. Ho seguito le tue vicende sentendo raccontare distrattamente di te nelle serate al pub con gli amici. Mirko ti lasciava e ti riprendeva a suo piacimento, in un rapporto malato in cui per te non c’era margine di salvezza. Eri sua prigioniera.

    Non ho mai concretamente pensato di fare qualcosa; il dolore di essere stata rifiutata e allontanata, accantonata come se tutti gli anni passati insieme fossero stati cancellati da un colpo di spugna, mi annientava e mi impediva di compiere qualsiasi passo.

    Sei stata tu a cercarmi di nuovo. Al bar ho sentito dire che avevi iniziato un percorso con uno psicoterapeuta, perché era chiaro — così malignavano — che ne avevi bisogno come l’aria. Stavi cercando di reagire e di liberarti dalla tua ossessione per quell’uomo, che era diventato la tua rovina. Un brivido ha percorso in un attimo il mio corpo: se quel pettegolezzo era vero forse avevo ancora una possibilità di riavvicinarmi a te. Ho sperato che il senno finalmente ti assistesse, che davvero avessi deciso di fare la cosa giusta.

    Poi ti ho vista lì, davanti a me, all’uscita dal lavoro, in un nebbioso pomeriggio di pioggia. Mi scrutavi in silenzio, curiosa, con quei tuoi occhi ormai vuoti, in attesa di una mia reazione. Chissà da quanto mi aspettavi, al freddo, su quel marciapiede coperto di foglie bagnate, senza un cappuccio o un ombrello a ripararti la testa. Il tuo sorriso forzato tradiva nervosismo e la paura di essere rifiutata. Avevi bisogno di me, questo era quello che mi trasmetteva il tuo sguardo, e ciò mi bastava. Eri tornata di nuovo. Timidamente mi hai chiesto scusa, senza parlare, mi hai chiesto di rientrare nella tua vita. E io non aspettavo altro.

    La Diana che era con me, però, non era più la stessa persona, ma solo la sua sostituta in carne e ossa. La bambina innocente di cui mi ero innamorata non sarebbe tornata. Mai più. Non aveva più sogni, pensieri suoi, speranze, obiettivi; non aveva argomenti, non aveva più parole. Era una bambola, un pupazzo completamente vuoto, una mera presenza fisica. La Diana che ho conosciuto, per me, è morta il giorno in cui mi ha cacciata dalla sua vita.

    Ovunque sia rimasta imprigionata la tua vera anima, mi manca, ogni giorno, ogni minuto, a ogni mio passo, a ogni mio respiro. Tu vivi ormai soltanto nei miei ricordi.

    Mi volto a guardare il tuo corpo perfetto sdraiato sull’erba, coperto da un leggero vestito chiaro a fiori, la pelle di porcellana, liscia, accarezzata da un leggero alito di vento che solletica l’orlo della tua gonna. I capelli lunghi fino alle spalle, sparsi sull’erba, si fondono con il verde dei suoi fili, donandole sfumature dorate. Gli occhi chiusi, le braccia lungo i fianchi. La tua anima tormentata sembra avere trovato pace, nel sonno cullato solo dal rumore dei miei pensieri.

    Mi guardo intorno. Faccio scorrere l’indice sul tuo lungo collo, scendendo fino alla clavicola e disegnandone la forma con il dito. Accarezzo con lo sguardo quel corpo che in segreto ho sempre desiderato, e che non sarà mai mio, così come il tuo cuore e la tua anima.

    Il sole sta per sorgere e devo decidermi a fare ciò che devo, qualcosa che mi eccita e mi spaventa allo stesso tempo. Non puoi stare qui, e questo non è il tuo posto. Alzo lo sguardo sulla grande quercia, l’unica cosa che in questi anni è rimasta immobile, uguale, come una certezza. Con il lento movimento dei suoi rami sembra dirmi di essere pronta ad accoglierti, orgogliosa del delicato compito di cui l’ho investita.

    Quando non ti ho sentita reagire alla pressione del foulard che ti stringevo intorno al collo, tirando con tutta la forza che avevo in corpo, ho capito che stavo facendo la cosa giusta. Le tue mani non hanno tentato di agganciare il tessuto, di allentare il nodo. La tua bocca non ha cercato aria, non ha tossito. Non hai combattuto per la tua vita, hai smesso di farlo ormai da tempo. Hai ceduto subito, arrendevole, rassegnata al tuo destino, senza alzare un dito, senza fare il minimo tentativo di salvarti.

    Come se la vita non ti appartenesse. Come se non ne valesse la pena. Come se non aspettassi altro.

    Per questo, non provo rimorso. Era così che doveva andare. Ho alleviato il tuo dolore, messo fine all’inferno che ti consumava l’anima, ti ho salvata. Ti restituisco l’innocenza e la spensieratezza. Le risate, le corse, il vento tra i capelli, il canto dei grilli e delle cicale, l’odore dell’erba e dei fiori, la pace, il silenzio.

    Sotto questo grande albero, io ti seppellirò.

    DELITTO IMPERFETTO

    Andrea Albertazzi

    Mi alzo dalla sedia un po’ deluso. Anche questo film angloamericano, Oxford Murders, thriller di ottima fattura, con un John Hurt sugli scudi, mi è piaciuto molto, ma solo prima del finale. Mystery vecchio stile. Analisi deduttiva. Ambientazione oxfordiana. Sherlock Holmes docet. Però mi aspettavo qualcosa di sensazionale: un colpevole lontanissimo da ogni sospetto e invece… Penso poi quanto, nella realtà, sia difficile assassinare qualcuno intenzionalmente ed evitare di essere scoperti. A volte non si scopre subito il colpevole; ci vogliono anni, ma poi la mano della legge raggiunge sempre il colpevole.

    Alzo il bavero del cappotto perché c’è un freddo umido in questo inizio di febbraio del 2010 e, accendendo una sigaretta, m’incammino a piedi verso casa. Abito a pochi isolati dal cinema. Durante il percorso medito e il mio pensiero va a mia sorella maggiore, Bice, quella maledetta! Non l’’ho mai sopportata quella grassona che, quando ero bambino, mi sporcava di saliva con i suoi baci invadenti e indesiderati.

    Bice ha vent’anni più di me. Io sono arrivato per sbaglio quando mia madre aveva già quarantacinque anni. Mia sorella ha sposato un ricco banchiere che è morto da una decina d’anni e l’ha lasciata senza figli ma con una cospicua fortuna. A volte si dice che i soldi e la bellezza muliebre sono in sintonia. Non è il caso di Bice. Eppure aveva trovato un marito ricco che l’’ha pure lasciata precocemente vedova a godersi l’eredità.

    Una bella villa di campagna, sulle colline bolognesi. Alcuni immobili in Riviera. Titoli sicuri in banca… insomma, parlando in euro, si tratta sicuramente di un patrimonio di diversi milioni! Roba da viverci bene, senza preoccuparsi del futuro.

    La vita è una sola, e con i soldi di Bice niente alzate mattutine per guadagnarsi un misero stipendio da professore liceale.

    Penso a una settimana fa quando ancora non avevo litigato con lei ed ero sicuro di ereditarne il patrimonio, alla sua morte. Certo Bice potrebbe campare ancora vent’anni e più, e ucciderla quando da testamento risulta che io sono il suo unico erede mi renderebbe il primo sospetto e finirei in galera. Come potrei ucciderla in modo così perfetto da impedire alla polizia di mettermi alle strette e farmi confessare?

    Ora, però, le cose sono precipitate: dopo che Bice ha scoperto che ho il vizio di tirare coca, ho un’amante di colore e, soprattutto, una pessima considerazione di lei, vuole cambiare il testamento. Questo è terribile. Non posso permetterlo. Devo eliminarla.

    Ho pensato a lungo a un alibi di ferro e finalmente ce l’avrò. La prossima settimana dovrò rimanere tre giorni in quella clinica privata, Villa Sorriso. Devo sostenere alcuni esami. Bevo, fumo e sniffo troppo... fegato e polmoni. Anche il cuore! Ho avuto già qualche problemino cardiaco. Nulla di serio, ma i controlli non fanno male. Il mio amico Francesco Carletti, direttore della clinica, è già d’accordo con me. Mi farà uscire indisturbato la notte. Raggiungerò la villa di Bice e la farò fuori, prima che cambi il testamento. Non lascerò tracce. Al mattino l’infermiera mi troverà nel mio letto e incolperanno qualche bandito dell’Est. Sarò generoso con Francesco. Meglio dividere che non incassare nulla! A proposito, voglio chiamarla quella vecchia stronza, caso mai avesse cambiato idea... ma spero proprio di no. Ora non voglio e non posso più aspettare la sua morte naturale. Voglio i suoi soldi subito!

    — Sorellona, ciao, sono Piero... come stai? Sei ancora arrabbiata con me? Sì? Mi spiace te la sia presa per le mie parole. Non era quello che pensavo, io ti voglio bene. Come? Non mi credi? Pensi che io sia un farabutto, un bugiardo, una brutta persona? Ma no Bice! Come dici? Alla fine del mese parli con il tuo avvocato per cambiare il testamento e lasciare tutto il tuo patrimonio a un’associazione di beneficenza? Lo hai già avvertito? Non ancora, ma la decisione è beneficenza? Ti chiedo solo un ultimo favore. Aspetta almeno una quindicina di giorni. Ho una sorpresa per te che ti farà cambiare idea! Riflettici. Lo farai, anche se la decisione è irrevocabile al 99 percento? Bene, ti ringrazio, comunque. Ti saluto e ti abbraccio.

    Rido. Un riso crudele m’increspa le labbra. Bice aspetterà. Ma non aspetterò io. La prossima settimana creperà e io resterò l’erede.

    È martedì notte. Una nottataccia nebbiosa e fredda. Sono uscito in sordina da Villa

    Sorriso. Nessuno mi ha visto; nessuno controllava. Salgo in auto, tiro un po’ di roba per concentrarmi a dovere e mi avvio verso la villa. Ho un passamontagna, dei guanti e una ventosa per i vetri. So che Bice ha messo le inferriate alle finestre, ma solo al piano terra. So anche dove tiene una lunga scala: nel casotto degli attrezzi, ed è facile entrarci.

    Lascio l’auto a un paio di chilometri dalla villa, nascondendola in una stradina secondaria, e m’incammino a piedi. Non voglio che la mia macchina sia notata in alcun modo nelle vicinanze della villa, né che possa lasciare alcuna traccia. Non incrocio nessuno. Scavalco il cancello. Non c’è l’allarme. Forzo il casotto degli attrezzi e prendo la scala. L’appoggio al muro, vicino alla finestra posteriore. Mia sorella dorme dall’altro lato e non avvertirà nulla. Con la ventosa, faccio un buco nel vetro, infilo il braccio e apro la finestra. Bice ha un’altra bellissima abitudine. Non ama abbassare le tapparelle. Soffre di claustrofobia. Meglio così!

    Entro nella stanza e mi guardo intorno furtivo, frugando il buio con la pila. Una volta che i miei occhi si sono abituati, la spengo e mi incammino verso la camera di Bice. Conosco la sua casa e so come muovermi in silenzio. Mi piacerebbe che lei capisse che sono io a ucciderla, ma è troppo rischioso! Rinuncerò a questo piacere. Apro con circospezione la porta e sento il suo russare sgradevole. Mi avvicino e le stringo il collo forte. Lei ha solo un breve sussulto, poi, sotto la forte stretta delle mie mani, reclina il capo. È fatta! Già, ma perché il ladro avrebbe dovuto ucciderla se lei dormiva placidamente nel suo letto? La alzo. Dio quanto pesa! La trascino nel corridoio e la lasciò cadere per terra, non prima di averle lacerato la camicia da notte come se avesse avuto una colluttazione, sorprendendo il ladro.

    Ora deve sembrare un furto. C’è da mettere a soqquadro la dimora. Butto all’aria tutto, al piano terra e sopra. Frugo nei cassetti. Spalanco gli armadi. Ribalto sedie e poltrone. So che mia sorella non tiene quasi nulla in casa e devo dare l’idea che il bandito, fuori di testa, si accanisca contro le cose a causa dello scarso bottino. Raccolgo quel po’ di denaro che trovo e qualche monile che dovrò poi nascondere abilmente. Guai se trovassero la refurtiva a casa mia, successivamente! Credo proprio che al contrario di tanti film con delitto, questa volta il colpevole non sarà trovato. Giallo italiano senza colpevole!

    Certo, la polizia mi ronzerà attorno parecchio, ma saprò fare il fratellino affranto; e poi ho un alibi di ferro. No?

    Guardo l’orologio. Maledizione! Mi sono impegnato al massimo nel buttare tutto all’aria e sono passate più di due ore! Devo assolutamente rientrare! Ho il tempo contato! Vado alla finestra della stanza dove ho appoggiato la scala; guardo fuori e il cuore mi va in gola. Quasi svengo e cado senza forze, sul pavimento. Non è possibile! No!!! Maledico il cielo e gli dei dispettosi! Una bianca coltre di neve immacolata si stende ovunque. Vigliacca e silenziosa, è caduta mentre io m’accanivo contro mobili e suppellettili, e sta terminando la sua discesa. Gli ultimi fiocchi grossi e silenti si posano delicatamente. Come posso uscire dalla villa senza lasciare tracce? Impossibile! Devo stare calmo e riordinare i pensieri! Ecco, ho un’idea! Comincio a cercare ovunque qualcosa da potermi infilare ai piedi al posto delle scarpe. Non trovo nulla! Non certo le scarpe della Bice! Raggiungerò l’auto camminando coi calzini ai piedi. Ecco. Avvolgo intorno ai calzini dei sacchetti di cellophane. Sì, sarà dura per due chilometri in mezzo alla neve, ma devo farcela! Infilo in un sacco le cose prese in casa assieme alle scarpe, estraggo dalla tasca un’altra bustina, l’aspiro profondamente e mi sento meglio. Sono pronto! Scendo dalla scala appoggiata all’esterno e i miei piedi affondano nella neve. Una sgradevole sensazione di freddo me li avvinghia. Stringo i denti e comincio a muovermi goffamente verso il cancello! Lo scavalco e riprendo a camminare con i piedi contratti, surreali, così infagottati nella plastica. Dieci metri, venti, cinquanta, cento, duecento. La morsa del freddo va aumentando. Il peso del sacco sulle spalle è insopportabile ormai! Provo a zampettare, saltellando. Inciampo e mi rialzo, bestemmiando! Riprendo a camminare e penso a tutti i soldi di mia sorella e a che bella vita mi permetteranno di fare. Cerco di concentrare il pensiero su queste cose e procedo a fatica. Avrò percorso quasi un chilometro. Forza Piero che ce la fai! Continuo. Sembro d’acciaio. Ce la farò? No! Troppo freddo ai piedi! Troppe emozioni! Improvvisamente mi sento molto debole e cado di nuovo. La mia faccia affonda nella neve candida. Respiro a fatica, mentre un gelido abbraccio mi avvolge e mi ottunde. Sono così stanco, molto stanco... voglio dormire su questa coltre immacolata. Sì, mi riposo un po’ e poi mi rialzo, raggiungo l’auto, arrivo alla clinica e tutto è fatto. Sì… sì… solo qualche minuto per riprendere le forze. Solo qualche... so…

    QUESTI POSTI DAVANTI AL MARE

    Graziano Aldrovandi

    L’alternarsi di buio e luce per l’ingresso e l’uscita dalle tante gallerie, assieme al ritmo costante delle traversine attraversate dal treno, facevano da sottofondo al dormiveglia che la stava accompagnando da qualche minuto. Con la testa appoggiata al vetro, Maria Luisa, anzi, Merilù, come amava presentarsi, lasciava correre i pensieri senza tentare di indirizzarli verso qualche approdo in particolare. Stava vivendo uno di quei rari momenti in cui la mente riesce a vagare libera senza nessuna costrizione logica. Semplicemente, non pensava a nulla e, allo stesso tempo, decine di pensieri sconnessi prendevano forma e svanivano con la stessa velocità con la quale erano arrivati. Osservava, senza vederlo, il paesaggio sfocato passare attraverso il riflesso del suo volto sul finestrino sporco. Sussultava a ogni minimo rumore che non fosse quello prodotto dall’avanzare del treno. Era sola nel vagone e piano piano stava iniziando a sentirsi tranquilla: dopo giorni di adrenalina al massimo, appena si era seduta era come se qualcuno avesse tolto il nodo che imprigiona l’aria nei palloncini colorati e, proprio come un palloncino sgonfio, si era afflosciata sul sedile del regionale per Genova.

    Gli ultimi giorni erano stati frenetici, a partire dal lunedì precedente: si era alzata all’alba perché non era riuscita a chiudere occhio, aveva preparato la moka, scaldato il latte e infilato due fette di pancarré nella piastra. Quando si era svegliato il patrigno, lei gli aveva fatto trovare il succo d’arancia, il caffè con i biscotti come li prendeva ogni giorno, la Gazzetta dello Sport appena comprata all’edicola sotto casa, le pillole per il cuore che doveva prendere due volte al giorno e il telecomando sul bracciolo della poltrona dove si sarebbe seduto appena dopo la colazione per la sua giornata di TV, interrotta solo dalla solita visita al bar. Le aveva detto che, per pranzo, voleva pasta con il pesto e una bistecca per secondo. Si era limitata ad annuire. Dopo aver lavato le stoviglie della colazione era uscita, come al solito, per la passeggiata mattutina. Nel tragitto, ormai abitudinario, salutava e veniva salutata da tutti quelli che incontrava, una specie di club del passeggio che, senza frequentarsi, sembrava darsi appuntamento fisso praticamente ogni mattina. Non ricordava i nomi di tutti, ma li distingueva per le abitudini: c’erano la signora con il cagnolino nero, il ragazzo che faceva jogging ascoltando musica con le cuffiette, il fruttivendolo, l’unico che conosceva abbastanza bene, che al ritorno le regalava sempre un po’ di frutta o verdura, il pensionato che leggeva il giornale sulla solita panchina, la mamma che, con il figlio piccolo, dava il pane avanzato alle papere del laghetto e l’addetto comunale che spazzava le foglie dal vialetto alberato. Erano diventati la sua normalità, il suo rifugio di serenità. Appena tornata a casa, sapeva sarebbe iniziata la solita giornata fatta di lamentele, urla, faccende domestiche e discussioni, sino al momento in cui, finalmente sola, dopo la cena, avrebbe potuto godersi la tranquillità. La convivenza con il patrigno era decisamente difficile, al limite della sopportazione: un violento che aveva portato sua madre a spegnersi piano piano. L’aveva vista appassire negli anni, rassegnarsi a una vita che non sarebbe mai migliorata, anzi, diventava più difficile ogni giorno che trascorreva accanto a quell’uomo. E ora che se n’era andata, stava succedendo a lei. Non aveva intenzione di finire come quella santa donna, ma non riusciva a trovare il modo per reagire. Si era buttata sullo studio perché la madre, sapendo quanto poteva essere stronzo il compagno, ma conoscendo anche la determinazione della figlia, le aveva lasciato il necessario per vivere degnamente la propria vita senza dover dipendere da nessuno. Le sue giornate trascorrevano tra le faccende domestiche e i libri. Chiusa in camera, accendeva il lettore e si abbandonava all’abbraccio della musica: a volte erano cantautori, altre volte gruppi storici, altre ancora lasciava fare al servizio di musica in streaming che le proponeva canzoni in base ai suoi ascolti precedenti. Non aveva gusti musicali simili ai ragazzi della sua età: era cresciuta con musica rock anni Settanta e cantautori italiani dello stesso periodo. Adorava quella musica e non riusciva a capire quella che faceva impazzire i suoi coetanei. Quel lunedì pomeriggio, in particolare, stava ascoltando un disco di Ivano Fossati di molti anni prima, La pianta del tè. L’aveva conosciuto proprio grazie alla madre, grande fan del cantautore e di tutta la musica italiana del periodo. Adorava Fossati, le piaceva il suo modo di mettere assieme le parole, le piacevano le continue metafore con cui costringeva la mente ad associazioni di immagini non consuete per esprimere, invece, concetti normalissimi. Sentiva cambiare le canzoni in sottofondo, ma non le stava ascoltando e non stava proseguendo neanche con lo studio. La mente era intrappolata da un altro pensiero costante che, da quando aveva iniziato ad accompagnarla, le si era insinuato nella testa e riaffiorava ogni volta che non era occupata in qualcosa che richiedesse particolare concentrazione. E da qualche tempo aveva deciso di ascoltarlo, approfondirlo, assecondarlo, anziché lasciarlo latente tra tutti gli altri che le si affollavano in testa. Aveva iniziato a documentarsi, dapprima online, ma non si fidava di tutto lo schifo che si trova su Internet, quindi su pubblicazioni di settore che trovava con facilità nella biblioteca della facoltà, il CTF, chimica e tecnica farmaceutica, e, per finire, seguendo seminari in aula e webinar specifici in rete, abbastanza semplici da reperire. Più che un pensiero, stava diventando un’ossessione, ma era quello che le permetteva di andare avanti con una determinazione che, con la morte della madre, si era andata lentamente affievolendo. Ora stava ritornando più forte che mai. E così, quel lunedì, aveva prenotato l’hotel per le due settimane successive, acquistato il biglietto andata e ritorno del treno, iniziato a mettere qualcosa in valigia e pianificato di frequentare la facoltà per i giorni che le mancavano prima della vacanza. Dopo cena era tornata in camera e aveva ricominciato a studiare, o comunque si era messa davanti al mattone di Microbiologia e Patologia perché aveva in programma di toglierselo dai piedi entro fine anno. Si era addormentata vestita, con il libro aperto e la musica accesa. L’avevano strappata dal sonno le urla del patrigno che si lamentava di non aver trovato giornale e colazione pronti. Senza degnarlo di uno sguardo, era entrata in bagno e aveva immediatamente acceso la radio a volume molto alto per evitare di sentire ulteriori lamentele da quel parassita. Dopo aver terminato la doccia, con calma, aveva ricominciato la routine: acquisto del giornale, colazione, pillole, telecomando e, finalmente, passeggiata. Era arrivata in facoltà verso le 9.30, aveva salutato i pochi amici e professori incontrati, visto il periodo che non prevedeva lezioni, né appelli sino a settembre, e si era diretta immediatamente in biblioteca per consultare un paio di pubblicazioni. Terminata l’attività, era passata in laboratorio, splendido in quei giorni perché accessibile senza nessuna prenotazione, ed era quindi uscita quasi all’ora di pranzo per tornare a casa. Appena entrata aveva trovato, come al solito, il patrigno davanti alla TV intento a guardare qualche partita di calcio. L’uomo non l’aveva degnata di uno sguardo e lei, felice di non dover rispondere neanche a un saluto, si era avviata in cucina per preparare il pranzo.

    Il fermarsi del treno a una stazione l’aveva riscossa da tutti quei pensieri. Si era girata per controllare se, nel frattempo, qualcuno si fosse seduto nel suo stesso vagone, ma aveva constatato soddisfatta di essere ancora sola. Si era abbandonata a osservare meglio il proprio volto rimandato dal vetro: quasi non si riconosceva con quelle occhiaie, ma non sembrava così stanca.

    Il martedì era passato abbastanza tranquillo: dopo le solite tappe in biblioteca e in laboratorio, si era fermata a parlare con il professore che la stava aiutando per la tesi. Il mercoledì era stato il giorno più frenetico: non era riuscita ad accedere al laboratorio sino all’orario di chiusura, ma, quando stava per andarsene, ormai certa che non ci fosse nessuno oltre all’addetto alla portineria, era riuscita anche a prendere quello che le serviva dall’armadietto dei composti chimici. Dopo essere uscita, aveva attraversato come al solito il parco che a quell’ora del pomeriggio era particolarmente affollato. Decine di persone di ogni età facevano jogging, bambini con le madri camminavano serenamente sui prati e i cani si rincorrevano come pazzi nei recinti dedicati. Era arrivata a casa abbastanza presto per avere la certezza di non incontrare il patrigno, sicuramente ancora impegnato in qualche partita a carte al bar dell’angolo, e, dopo aver appurato di essere sola in casa, aveva infilato le cuffiette e iniziato a preparare la cena. Gli aveva lasciato l’arrosto in forno e la birra in fresco nel frigorifero, aveva apparecchiato la tavola, preparato il pane e la bottiglia d’acqua e quindi era uscita per il solito appuntamento del mercoledì sera in palestra. Quella volta si era stancata come non succedeva da settimane, tanto che era rimasta sotto la doccia bollente per quasi un’ora. Quando era tornata a casa, nonostante fosse certa di quello che avrebbe trovato, aveva sussultato di paura vedendo l’uomo riverso sulla tavola privo di vita. Era il momento più delicato, quello che la rendeva più dubbiosa sulla riuscita del suo piano, ma ormai era fatta e non aveva modo di tornare indietro. Aveva telefonato al 118 e atteso l’arrivo dei sanitari. Non aveva dovuto fingere di essere agitata: quando erano entrati l’avevano trovata nervosa, impaurita e spaventata. Avevano cercato di calmarla e si erano fatti raccontare cosa fosse successo. Il medico, venuto a conoscenza delle medicine per il cuore che l’uomo prendeva più volte al giorno e controllata la cartella clinica che era andato a recuperare, aveva certificato la morte per arresto cardiaco. La sera e il giorno successivo li aveva passati a organizzare il funerale che si sarebbe svolto il venerdì pomeriggio. Alla funzione erano presenti solo pochi compari del bar perché l’uomo non aveva amici, né parenti prossimi. Terminata la cerimonia funebre, Merilù era tornata a casa e, finalmente, si era abbandonata al silenzio irreale dell’appartamento. La domenica sarebbe partita per le sue due settimane di vacanza. Il giorno successivo lo aveva trascorso a liberarsi di alcuni effetti personali del patrigno e a preparare la valigia con cui sarebbe partita. La domenica mattina, dopo essersi chiusa alle spalle la porta dell’appartamento, era andata al cimitero e aveva posato sulla tomba della madre una rosa rossa. Poi aveva chiamato un taxi e si era fatta portare in stazione.

    Il treno procedeva spedito verso la sua destinazione. Stava pensando a quanto era riuscita a fare e, soprattutto, a come era riuscita a farlo. Le era bastato leggere, per convincersi ad agire, un articolo su Giulia Tofana, nobildonna siciliana diventata famosa per l’invenzione, nel 1640, dell’omonima acqua: un veleno incolore, inodore e insapore altamente tossico, in grado di provocare, anche in piccolissime quantità, una morte apparentemente naturale e priva di sintomi. La signora lo vendette principalmente a donne vittime di mariti violenti. Avendo a disposizione il laboratorio della facoltà, aveva sottratto poco alla volta i componenti necessari: l’acqua tofana conteneva acqua, anidride arseniosa, limatura di piombo, limatura di antimonio e succo estratto dalle bacche della belladonna. L’anidride arseniosa, fatta bollire in acqua, crea un ambiente acido e consente lo scioglimento del piombo e dell’antimonio, dando luogo a una soluzione incolore, inodore e insapore ad altissimo tasso di tossicità¹.

    Il riflesso del proprio volto sul finestrino del treno, ora, sembrava sorriderle. Quasi giunta a destinazione, aveva ripensato alla madre e al verso di una canzone di Fossati che nella settimana precedente aveva ascoltato decine di volte: Dietro una curva, improvvisamente, il mare….

    UNA MATERIA OBSOLETA

    Silvia Angelini

    I due Balordi

    erano carichi, anzi carichissimi. Avevano avuto finalmente l’Idea, e sicuramente avrebbero risolto i loro problemi, almeno per un po’.

    Il Commercialista

    era sempre più soddisfatto del suo recente acquisto: una Harley Davidson rossa, brillante, veloce, bella! Era un piacere prima di tutto metterla in moto, e poi guidarla.

    Era in realtà soddisfatto non solo per quello, ma in genere per come stavano andando le cose: ogni tanto ripercorreva, dentro di sé, le tappe importanti della sua vita, quelle che lo avevano portato a diventare il Commercialista. Il diploma

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1