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Le carte del PCI: Dai Taccuini di Eugenio Reale la genesi di Tangentopoli
Le carte del PCI: Dai Taccuini di Eugenio Reale la genesi di Tangentopoli
Le carte del PCI: Dai Taccuini di Eugenio Reale la genesi di Tangentopoli
E-book362 pagine5 ore

Le carte del PCI: Dai Taccuini di Eugenio Reale la genesi di Tangentopoli

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Info su questo ebook

La Prima Repubblica, ormai esaurita nello stallo fra comunisti e democristiani, è crollata sotto i colpi della magistratura, all’inizio degli anni Novanta e attende da allora la revisione della sua Costituzione .
Ci si domanda, da tempo, quali condizioni oggettive, oltre alle responsabilità dirette dei partiti politici, abbiano favorito l’insorgere del processo degenerativo e della diffusa situazione di illegalità.
È vero che il compromesso sulla Costituente è stati alle radici dello strapotere dei partiti? È vero che l’Italia ha corso il rischio di diventare una democrazia  popolare sul modello ungherese e cecoslovacco, come temeva Reale?
Perché il PCI si è tenacemente opposto, dopo la caduta del fascismo, alle esigenze di una Italia diventata democratica che chiedeva trasparenza e controlli nella vita e nelle finanze dei partiti?
Se l’assenza di personalità giuridica dei partiti ha prodotto l’onnipotenza della partitocrazia come mai nel Parlamento, la magistratura , i vertici dello stato non sono mai intervenuti per arrestare il fenomeno, prima della caduta del muro? Quale groviglio di interessi ha spinto la Democrazia cristiana nella spirale di emulazione-competizione col Pci, proprio sul terreno dell’illegalità generalizzata? Perché il Psi, il Psdi e i partiti laici sono stati i primi a cadere sotto i colpi della rivoluzione dei giudici?
Alle risposte, di fondamentale importante  per la precaria salute politica del nostro Paese, porta un contributo importante il libro di Giuseppe Averardi che è,  insieme, una testimonianza e un saggio appassionante nel quale i meccanismi del potere  - quelli visibili e reali, e quelli occulti e surrettizi -  si intrecciano al di sopra e al du sotto della politica e, disvelano la genesi di Tangentopoli.
LinguaItaliano
EditoreHarpo
Data di uscita31 gen 2024
ISBN9788899857721
Le carte del PCI: Dai Taccuini di Eugenio Reale la genesi di Tangentopoli

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    Anteprima del libro

    Le carte del PCI - Giuseppe Averardi

    Giuseppe Averardi

    Le Carte del PCI

    Dai Taccuini di Eugenio Reale la genesi di Tangentopoli

    Ai miei figli, Roberto e Giovanni

    PREFAZIONE

    di Ettore Gallo

    È un libro a lungo meditato questo ampio saggio di Giu­seppe Averardi, nato dal travaglio delle proprie non comuni esperienze politiche, e dall'osservazione quotidiana di quelle drammatiche, emergenti dai ricordi e dall'amicizia fraterna che lo ha legato a un protagonista della storia europea dell'ul­timo mezzo secolo, Eugenio Reale. Sotto quest'ultimo riguar­do, anzi, si potrebbe dire addirittura che nel libro c'è anche la vita di quello straordinario personaggio segno d'immensa invidia e d'indomato amore: il che peraltro l'impreziosireb­be. Ma non sarebbe del tutto vero: perché, in realtà, se attorno a quell'uomo si svolgono vicende importanti di quei tempi, che alla fine coinvolgono lo stesso Autore, importanti però -come dice il titolo dell'opera - sono le carte del Partito co­munista, e i Taccuini del personaggio, e le vicende vissute. Da essi riluce una limpida immagine di quel potente partito che dominò per quasi un secolo gli Stati di mezza Europa, e dell'altra metà fu influente antagonista del potere della bor­ghesia, anche se ne accettò il metodo democratico. In partico­lare, emergono aspetti nuovi dei rapporti intercorrenti fra la Casa-madre sovietica di Russia e i partiti comunisti dell'Eu­ropa occidentale. Come risulta da quanto è riferito, i primi segni della crisi di tali rapporti vengono da lontano.

    La riunione dei partiti bolscevici a Szklarsa Poreba (Polo­nia) nel settembre del 1947, per la fondazione del Cominform, è anche una trappola preparata per i partiti d'Italia e Francia che, essendo stati esclusi dai loro governi nazionali, vengono tacciati di cretinismo parlamentare: Stalin non perdona loro di avere dimesso il volto rivoluzionario, e la requisitoria di Zdanov cui i due rappresentanti di ciascun Paese reprobo do­vettero sottomettersi, e il sarcasmo degli altri (se si eccettua Gomulka, che si comporta da moderato padrone di casa, e Slansky che di Reale è amico) umiliano i francesi Duclos e Fajon, e gli italiani Longo e Reale. Da qui partirà il primo strappo, la svolta del 1947, di cui è testimonianza negli ap­punti tenuti da Reale, pubblicati nel 1958. Benché questi ven­ga eletto senatore a Napoli nel 1948, non sarà più lo stesso di prima. Ormai ha capito che gli ordini vengono impartiti da Mosca e non da Togliatti, ed è diventato diffidente. Tuttavia, la stretta amicizia che, anche per affinità culturale, lo lega a Togliatti, durerà ancora per circa nove anni. Ma il cosiddetto realismo politico del Segretario del partito non basterà a salvare l'affidante confidenza di un tempo. Perciò Reale accoglierà come una liberazione il delicato incarico che Togliatti gli con­ferisce: trovare finanziamenti importanti che consentano al partito di sostenere un grande, capillare apparato e la lunga lotta politica che ormai si prospetta con la divisione dell'Eu­ropa nei due blocchi della guerra fredda.

    Proprio perché il partito deve restare estraneo alla struttu­ra economica che Reale andrà costruendo per i commerci che fioriranno con i Paesi dell'Est da parte di imprenditori e so­cietà di fiducia, egli deve dimettersi da ogni carica di partito e, tutto sommato, frequenterà ben poco anche il Senato della Repubblica. E ne sarà ben contento perché, pur conservando necessariamente un rapporto privilegiato con Togliatti, quella nuova posizione gli consentirà di estraniarsi da un partito che non gli piace più, e di assumere la veste di turista vagante per i Paesi dell'Est.

    D'altra parte, il partito, che ignora la missione che gli è sta­ta affidata, non gradirà il suo comportamento e comincerà a diffidare, Secchia particolarmente fra gli altri. Verranno diffu­se malevolenze, diranno che si è imborghesito, e più tardi purtroppo lo dirà ingenerosamente lo stesso Togliatti. Quella che era la sua simpatica napoletanità un po' crociana non verrà più tollerata, mentre era proprio quella che gli consenti­va impunemente di non apprezzare le rozzezze ideologiche di Zdanov e un certo tipo di realismo politico di Togliatti.

    Intanto, frammezzo ai suoi viaggi nell'Est europeo, Reale capita a Praga, dove fa amicizia con Slansky. Un anno dopo, il 23 novembre del 1951, a cena con il Presidente cecoslovacco Zapotocky c'è Rudolf Slansky, segretario del partito comuni­sta. Sopravviene la polizia politica che arresta Slansky senza

    alcuna protesta del Presidente del Consiglio. Il fatto ha tutta l'aria di una trappola predisposta. Reale viene a saperlo dalla stampa ed è inorridito.

    L'ignobile arresto e la condanna a morte di Slansky e di tanti suoi amici rappresenta sicuramente uno dei fatti decisivi che, unito alla marea che nel partito andava montando nei suoi confronti, lo alienerà sempre più da infingimenti e furbizie cui ormai quel partito era costretto. Solo l'amicizia per Togliatti, pur fra molti sospetti, ancora perdurava. Ma, ogni volta che il dubbio s'insinuava, Togliatti sapeva rassicurarlo, col sorriso buono di circostanza accompagnato da un sta' tranquillo, vedrai, in Italia le cose andranno diversamente... etc. ...! In realtà, invece, stavano arrivando al limite di rottura. Come quando, in occasione del primo incidente che turba il tranquil­lo andamento del commercio con l'Est, Reale vorrebbe parla­re direttamente con Togliatti, per riferirgli particolari delicati, e Togliatti rifiuta, rinviandolo al dirigente all'uopo delega­to. Ne seguono lettere di fuoco che i due ormai cominciano a scambiarsi, sicché quando arriveranno le rivelazioni di Kru­sciov al XX Congresso del Pcus e la repressione sovietica alla rivolta ungherese, il vaso della sfiducia traboccherà, e Reale si sentirà finalmente liberato assumendo pubblica posizione con­tro il partito. Siamo ormai al dicembre 1956 e il 30 di quello stesso mese Reale verrà clamorosamente espulso dal partito. Cionondimeno, nonostante qualche ingenerosità di Togliatti nella diffamazione che seguirà, Reale, pur aspramente criti­cando, mai verrà meno alla sua esemplare lealtà. Mai ha rive­lato particolari delicati, mai si è avvalso della sua conoscenza della vita più intima di Togliatti, mai ha consentito che venis­sero pubblicate dai suoi stessi amici lettere (che pur loro mo­strava) che lo avrebbero scagionato dai sospetti più odiosi. Anche il Presidente Andreotti ebbe a riconoscere pubblica­mente questa sua lealtà. Del resto, poi, dopo i fatti del '56, usci­rono dai partiti comunisti euroPci centinaia di migliaia di iscritti, e fra questi molti intellettuali (famosa l'uscita di Sar­tre), alcuni dei quali, pur non essendo iscritti, presero le di­stanze. Abbandonò, nel febbraio del 1957, anche l'Autore di questo libro che, quale delegato, non esitò ad aperta critica nell'VIII Congresso della federazione romana, beccandosi more solito immediata espulsione non appena arrischiò le di­missioni. E fu allora, sui primi del '57, che incontrò Reale. Ave-rardi aveva lavorato ne II Contemporaneo, il prestigioso setti­manale della Commissione culturale del PCI, con Salinari e Trombadori. Era nelle cose che dal gruppo formato da Reale, Averardi e Pellicani sei mesi dopo, il 9 giugno 1957, nascesse un nuovo settimanale Corrispondenza socialista, che ebbe poi ampia collaborazione socialista e socialdemocratica. E segui­ranno dapprima le vicende dell'ingresso del gruppo a loro vi­cino nella socialdemocrazia di Saragat, favorito da Reale che non apprezzava il filocomunismo dei socialisti; poi, a distan­za di quattro anni l'avvento del centro-sinistra; infine, nel 1966 la riunificazione socialista, che Reale depreca perché non si fida di Nenni, vicepresidente del Consiglio, e che comunque durerà soltanto tre anni.

    Su tutto si riverserà la scontentezza e l'ira di Reale perché non vede sorgere quel grande movimento di un socialismo democratico, che aveva tanto auspicato dopo aver appreso gli orrori del socialismo reale di Stalin. C'è un episodio appena ac­cennato tra le pieghe del libro, che però è importante per ca­pire quale fosse l'ingenua disponibilità di Reale a credere nel mito per cui aveva speso nelle carceri fasciste e nell'esilio la sua giovinezza. Quando in Russia nel 1936 viene arrestato Robotti, cognato di Togliatti, e la polizia politica sovietica gli spezzerà la spina dorsale, Togliatti resterà in silenzio. Allora Robotti invocherà direttamente la protezione di Stalin ed avrà salva la vita. Questo episodio colpirà profondamente Reale, che ne trarrà motivo per credere nel senso di giustizia di Sta­lin e delle sue istituzioni.

    Da quella lontana ubriacatura erano venute poi le amaris-sime delusioni degli anni e la convinzione che non potesse esservi altro socialismo se non quello democratico dal volto umano che egli sognava. Da ultimo, si era rinchiuso in se stes­so, diffidava anche della socialdemocrazia, e persino di Ugo La Malfa e dei repubblicani: vedeva soltanto i pochi intimi in cui confidava, e fra questi in particolare Averardi.

    Singolarmente soltanto l'avvento di Bettino Craxi a capo del Psi destò qualche sua attenzione. Diceva che Craxi era vi­vace e intelligente, e amava le cose belle. Ma è da credere che ad un giudizio così favorevole molto avesse contribuito il fat­to che Craxi aveva eletto il Raphael a sua sede romana privata: quell'hotel che il suo Spartaco aveva ristrutturato facendo­ne una dimora elegante, accogliente e piacevole nel cuore di Roma. Spartaco lo aveva seguito a Varsavia, come sua guar­dia del corpo, quando Reale fu nominato ambasciatore, e ave­va chiesto a Berlinguer (Segretario della gioventù comunista) il nome di un valoroso partigiano combattente. Fu designato Spartaco Vannoni che restò con lui in Polonia dal 1945 al 1947.

    Reale si spense in una clinica romana il 9 maggio del 1986 fra l'unanime compianto, giacché si levarono anche le voci di alcuni leaders del partito comunista a riconoscere senza riser­ve, assieme a quelle dei suoi estimatori, la nobiltà dell'uomo, la sua scrupolosa rettitudine, la sua limpida lealtà, la sua cul­tura e il suo coraggio sotto il fascismo.

    L'Autore deve ai suggerimenti di Reale e ai verbali che questi gli consegnò in lingua russa, l'opera che pubblicò nel 1977 presso l'Editore Rusconi di Milano, sui grandi processi di Mosca: di Reale, del resto, quel libro porta la prefazione. Quest'ultimo libro è stato discusso nelle sue linee generali con Reale poco prima della sua scomparsa e ci sono voluti ulterio­ri meditazioni e ripensamenti perché finalmente l'Autore si decidesse a scriverlo e pubblicarlo.

    Non si creda, però, ch'egli temesse che l'opera potesse es­sere utilizzata come un pamphlet diffamatorio del comunismo internazionale ed italiano: perché egli scrive con pura coscien­za, seguendo fedelmente gli appunti di Eugenio Reale, rico­struendo i fatti sulla base dei documenti del Pci e di fonti scientifiche indiscusse, narrando obiettivamente i suoi ricor­di. Semmai dentro le righe si avverte il rammarico per gl'ide­ali irrealizzati, specie quando il loro fallimento è dovuto a co­loro nei quali aveva confidato. Il succinto frettoloso richiamo delle vicende della sua vita, che sopra abbiamo tentato di de­lineare, non deve ingannare. Il libro vai la pena di leggerlo tutto giacché fatti e avvenimenti sono suffragati, come dice­vamo, da fonti scientifiche non contestabili.

    Ma a noi ora interessa toccare alcuni settori essenziali del libro, dove vengono colti momenti rilevanti nella costruzione della nostra Repubblica.

    Non sono molti coloro che, parlando degli eventi che van­no dal '46 al '48, traggono conclusioni dalla relazione che in­tercorre fra i lavori della Costituente, e l'avvampare della com­petizione politica fra i partiti, nel contesto di un'Europa or­mai divisa nei due blocchi di oriente ed occidente. Aldo Ricci è uno dei pochi studiosi e ricercatori al quale non sfugge ciò che ad Averardi preme sottolineare: e cioè "che il compromes­so costituente è quello che ha legato fra loro nel mito del ciel-lenismo le principali forze politiche italiane durante il crucia­le biennio 1946-48 consentendo, nonostante i contrasti interni ed internazionali (corsivo nostro), di varare una carta costituzio­nale improntata al solidarismo cattolico e marxista..." (A. Ric­ci, // Compromesso costituente, Bastogi Editore, 1999).

    Dove, però - sia ben chiaro - ciò che sottolinea Averardi è contenuto proprio in quel corsivo, che è appunto la dramma­tica e singolare relazione fra ciò che accadeva nel Paese, nei palazzi, nelle sedi dei partiti, per le strade, nei comizi, dove ferveva la lotta politica per la conquista del primo Parlamen­to italiano, senza risparmio di colpi e con grande e accesa de­terminazione, e l'opera attenta e precisa che le forze politiche andavano con pazienza conducendo, attraverso una ricerca e un dibattito di scienza giuridico-costituzionale e di alta politi­ca, spesso fra loro polemizzando, sempre, però, nei limiti con­sentiti dalla volontà di raggiungere delle intese. Insomma l'au­tentico miracolo della Costituente fu proprio questo, che quel­le stesse forze politiche che nel Paese assaltavano o difende­vano il giardino d'iiwenio, nel chiuso del palazzo disputavano con rispetto e sul piano culturale, determinati a dare all'Italia la legge fondamentale dello Stato.

    Altro momento importante dei lavori della Costituente è quello che Averardi intelligentemente spunta da un interven­to di Lelio Basso, "entusiasmato da una prospettiva costitu­zionale sincretistica, che racchiudesse quei principi in cui si incontrano i più antichi motivi della civiltà cristiana, le più vive esigenze della democrazia, e le più profonde aspirazioni del movimento socialista". Ebbene, nota Averardi a questo punto che, a quell'obbiettivo gli sembrava rispondere il supe­ramento dell'individuo ottocentesco "nel nuovo individuo in quanto membro della società, centro di rapporti sociali, parteci­pe della vita associata"... Ecco, è proprio questo il momento nodale del dibattito in Costituente, che spesso non viene ben identificato dagli stessi manualisti del diritto costituzionale. Naturalmente è presente a tutti questo passaggio cruciale al­lorquando la Costituente sostituisce il valore deW'avere" che campeggia nello Statuto albertino (e che peraltro i fascisti esal­teranno) con il principio personalistico che mette l'individuo al centro della legge fondamentale. E tuttavia, se tutte le forze politiche erano d'accordo sostanzialmente sul radicale muta­mento, dietro queste posizioni c'erano almeno due diverse finalità politiche, che corrispondevano anche a due diverse concezioni della Costituzione; e anche forse a due diverse con­siderazioni del diritto, a seconda che la persona umana venis­se sentita come assoluta e trascendente (ed era la tesi di Dos-setti), oppure sul piano storico e razionale (come preferiva Marchesi). Sicché la preoccupazione delle sinistre è nella pos­sibilità che il programma di rinnovamento economico-sociale che il legislatore avrebbe dovuto realizzare venga ostacolato dai paletti che potrebbero essere posti a tutela dei diritti del­l'individuo: ed è particolarmente proprio Basso che, dopo il primo entusiasmo, avanza subito riserve e, per i detti motivi, si dissocia (Atti dell'Assemblea Costituente, I Sottocommissio­ne, p, 329). Da parte cattolica, invece, c'è il fine di attingere il riconoscimento di tutta una serie di diritti che facciano salva l'autonomia della persona umana a fronte dello Stato. Essi in­vocano, perciò, a fianco delle libertà civili, tramandate dallo Stato liberale, quegli specifici diritti atti a contrastare forme di pianificazione economiche incompatibili con la loro concezio­ne: a titolo d'esempio, diritto di scelta del proprio lavoro, di­ritto al risparmio, diritto alla successione, e molti altri (Atti citati, p.307 e s.; sul punto cfr.le lucide pagine di Augusto Bar­bera in Commentario della Costituzione a cura di Branca, voi. I, Principi fondamentali, art. 2, p. 50 e s.). Per tal modo, si rischia­va uno scontro frontale, dipendente dalle due diverse culture dei Costituenti, proprio nel momento in cui si doveva garan­tire il principio personalistico che avrebbe qualificato la legge fondamentale della Repubblica.

    Bisogna riconoscere che, alla fine, fu proprio di Moro e di Dossetti l'idea di riferire i diritti inviolabili dell'uomo non sol­tanto ad un singolo individuo, ma al singolo come parte ed espressione delle formazioni sociali dove si esercita la sua per­sonalità. Sicché poi veniva naturale di richiedere all'uomo, in tale qualità garantito, di adempiere ai doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

    Su questa base Togliatti e Dossetti poterono facilmente in-travvedere l'intesa, e concludere il dibattito con reciproci rico­noscimenti alla propria esperienza politica, e alle rispettive ideologie per l'alto contributo portato alla storia dell'umanità.

    Divenne così possibile incaricare Basso e La Pira di trovare una concreta formula che rispecchiasse queste loro esigenze, avviando l'Assemblea all'approvazione dell'attuale art. 2 del­la Costituzione

    L'intuizione dell'Autore, perciò, trova conferma nei lavori preparatori della Costituente, e rende evidente come il rico­noscimento e la garanzia che la Costituzione poteva dare al­l'individuo a metà del Novecento, e con le esigenze sociali che, dopo l'immane confronto mondiale fra libertà e dittatura, pre­mevano alla base di una società tanto provata, non potevano più essere quelle proprie dell'individuo, o del liberalismo ot­tocentesco, espressioni di una società ormai tramontata nei ricordi di antiche tradizioni. Forse su questo dovrebbero ri­flettere anche i governanti che s'avventurano oggi, nel terzo millennio, alla costruzione di un mondo avveniristico, facendo leva, però, esclusivamente sugli antichi temi di una intransi­gente libertà mercantile, per giunta globalizzata senza troppo preoccuparsi del fatto che la storia non torna indietro, e che le conquiste della civiltà i popoli le considerano irrinunciabili.

    Altro argomento non irrilevante, cui l'opera allude fra i tanti, è quello concernente l'avversione di Togliatti (ma in ge­nere della sinistra marxista) alla instaurazione della Corte Costituzionale, cui ormai nel dopoguerra ricorrevano la gran­de maggioranza degli Stati euroPci, non esclusi quelli del­l'Oriente.

    Ricordo in proposito un significativo episodio occorsomi personalmente.

    Nella seconda metà degli anni '80 (non valgo a precisare l'anno, ma comunque in pieno regime comunista), venni invi­tato, nella mia qualità di Giudice costituzionale (e tuttavia anche di esponente della Resistenza) a tenere una serie di con­ferenze all'Accademia delle Scienze di Praga sulla Costituzio­ne italiana, ospite di quel Governo.

    D'intesa col Presidente di allora, interpellai il Ministero degli Esteri dal quale avemmo parere favorevole all'accetta­zione, in quanto era stimato opportuno un intervento italiano

    in un Paese dove pure vigeva una Carta Costituzionale, e che teneva ai buoni rapporti col nostro governo.

    Debbo dire che fui accolto con molti onori e sistemato nel più prestigioso hotel della capitale: e il nostro ambasciatore collaborò con affettuosa premura.

    Iniziai le mie conferenze in un salone gremito, e già nei primi tre giorni fui accompagnato in visita alle più alte Istitu­zioni dello Stato, Presidente della Repubblica compreso che mi tenne a cena. La penultima sera del mio soggiorno duran­te un pranzo offerto dall'Accademia, ma cui partecipavano anche alcuni membri del Governo, in un'atmosfera che s'era fatta confidenziale avanzai il desiderio di salutare anche il Pre­sidente della Corte Costituzionale, dato che avevo fatto visita anche al Presidente della Suprema Corte ordinaria. Seguì qual­che secondo d'imbarazzato silenzio, rotto poi dal Vicepresi­dente del Consiglio dei ministri, il quale si dichiarò spiacente di non potermi accontentare perché in Cecoslovacchia non esisteva la Corte Costituzionale. Stupito, mi scusai rilevando che avevo studiato, prima di mettermi in viaggio, la versione italiana della Costituzione ceca, dove però era prevista sia la Corte che ovviamente il suo Presidente. Mi risposero che in­fatti era così, ma che tuttavia non si era ritenuto necessario di istituirla. Poiché ormai il tema era venuto in discussione, osai osservare che in tal modo sarebbe mancato alle leggi il con­trollo costituzionale. Appunto, replicarono. Noi, infatti, affidiamo questo controllo allo stesso Parlamento!. Un auto­controllo, allora? replicai timidamente. Certo - mi fu rispo­sto - perché noi riteniamo il Parlamento così autorevole e affi­dabile da essere in grado di autodisciplina, senza che altri pos­sa interferire dall'alto. Non osai andare oltre, ma mi resi con­to in quel momento che, nei lavori della nostra Assemblea Costituente, l'opposizione di Togliatti alla istituzione della Corte non era dipesa da una strana opinione personale: era il comunismo internazionale che non gradiva il controllo sui rappresentanti del popolo da parte di chi non aveva una le­gittimazione elettorale. In effetti, solo i cinque membri (su 15) eletti dal Parlamento potevano rivendicare una legittimazio­ne di secondo grado, probabilmente essa pure ritenuta inade­guata. Ma, quando anche oggi si ripete questo motivo di diffi­denza, si dimentica che nel nostro ordinamento né gli organi giurisdizionali né quelli del semplice controllo amministrati­vo sono mai stati elettivi. Basti pensare, fra gli altri, alla Corte dei Conti. La Corte Costituzionale non è soltanto un altissimo organo costituzionale, ma è anche organo giurisdizionale, ed esercita la giurisdizione sulle leggi, sui conflitti di potere, e perfino sulla persona, quando si tratta del Presidente della Repubblica, oltre che sull'ammissibilità dei referendum.

    Insomma, tutto è di grande interesse in questo libro di Ave­rardi, ma è evidente che la natura di una prefazione non ci consente di soffermarci su tutto. Uno sguardo ancora, però, va dato all'ultimo capitolo, dove si cerca di stabilire le respon­sabilità di quanto poi è accaduto nel volgere di questo mezzo secolo e più.

    Già nel secondo capitolo, esaminando - come s'è visto -le tavole della legge, l'Autore ha cercato di individuare - se ci fossero - alcune responsabilità della Costituzione. Deve dir­si, però, che quelle ragionevolmente identificate non erano evitabili, perché si tratta di statuizioni volute da coloro che erano appena usciti da una tragedia sanguinosa del Paese, ri­dotto sul lastrico, che necessariamente miravano ad evitare che nel futuro della Repubblica potessero ripetersi le condi­zioni che avevano favorito,Tesplodere di quella tragica espe­rienza. Ovviamente se - come sembra e si spera - il lungo de­corso del tempo ha reso inverosimile ormai questa possibilità, soprattutto per la stabilità assunta dalla Repubblica e dalle sue istituzioni di libertà, è giusto e lecito che si proceda alla revi­sione di quelle norme che consentano l'ammodernamento del Paese e un più adeguato funzionamento degli Organi dello Stato (Parlamento, Governo, Giustizia, Economia [?]). Era ne­cessario che in allora, dopo vent'anni in cui il Governo, esor­bitando dai suoi poteri, aveva virtualmente esteso il suo do­minio su tutte le Istituzioni, cagionando alla fine il disastro conseguente alla funesta alleanza bellica con il nazismo hitle­riano, fosse messo virtualmente sotto vigilanza dell'Organo dove siedono i rappresentanti del popolo, così come era con­sequenziale che, dopo tanta sventura, il legislatore costituen­te fosse prudente nell'attribuire poteri all'Esecutivo. Era fata­le, in tali condizioni, che per garantire la massima indipen­denza alla magistratura, non solo i giudici ma anche i pubbli­ci ministeri fossero sottratti al potere dell'Esecutivo, e si prov­vedesse a dare alla magistratura un suo autonomo governo. Così come, esaurita nei secoli la funzione del Senato come Organo di garanzia, nel cuore del legislativo, delle prerogati­ve del re e della monarchia, giustamente si pensi ad eliminare la ripetitività delle sue funzioni rispetto a quelle della Came­ra dei deputati. Tanto più che anche il Senato è diventato Or­gano elettivo. Ma se la Costituzione non avesse disposto come dispone, allora sì che ad essa si sarebbe potuto addebitare la responsabilità di qualche eventuale grave sopravvenienza.

    Si tratta, perciò, non di errori da eliminare, di cui far carico ai Costituenti, ma di norme da aggiornare alla nuova realtà politica dell'Italia e dell'Europa.

    Ebbene, a nostro sommesso avviso, qualcosa del genere è possibile pensare anche per il modo come i partiti politici sono stati contemplati in Costituzione.

    Beninteso, Averardi ha ragione nel lamentare che la formu­lazione dell'art. 49 della Costituzione ha reso i partiti legibus soluti, e che da questo siano poi scaturite conseguenze spia­cevoli in ordine alla disinvoltura con cui sono stati gestiti i rapporti nei partiti di governo con le Istituzioni. Ma anche qui va rilevato che, a fronte della semplicità con cui la dittatura ha potuto sopprimere (con la compiacenza del re) i partiti po­litici della democrazia prefascista, si era ragionevolmente te­muto che ogni regola apposta a legittimare condizioni di di­pendenza dalla volontà dell'Esecutivo, avrebbe potuto pre­starsi a subordinare pretestuosamente i partiti stessi alla libito del governo. L'opposizione viscerale all'introduzione di qua­lunque condizione di riconoscimento e di esistenza nell'art. 49 della Costituzione, è dimostrata - come Averardi ricorda -dal rigetto perfino della proposta Merlin (deputato veneto democristiano) volta a disciplinare almeno la materia finan­ziaria dei partiti, che Mortati aveva tradotto in un semplice, laconico ma preciso emendamento per la pubblicità dei bilan­ci, e nemmeno come disposizione specifica, ma come norma intesa nel contesto di carattere generale. Tutto questo ha po­sto ben presto - ed oggi si è rinnovato - il problema del costo della politica, e se, ed in quale misura, esso dovesse far carico allo Stato, considerato che proprio lo stesso art. 49 prevede che il concorso dei cittadini a determinare la politica nazionale pos­sa avvenire mediante la loro libera associazione in partiti.

    L'Autore risolve il problema con la richiesta di una grande trasparenza. Se tutto finisce realmente sui bilanci, e questi vengono resi pubblici, lo Stato potrà sempre concorrere al fi­nanziamento dei partiti in misura equa e nei limiti di compa­tibilità con la propria prudente economia. Ma scompariranno tutte le voci di finanziamento illegale, sia quelle provenienti da potenze straniere, sia quelle provenienti da affarismo ille­gale o - peggio - da corruzione e, comunque, da illecite tan­genti.

    Da questa onorevole tesi l'Autore trae il convincimento della responsabilità dei partiti che, in clima di reciproca omer­tà, hanno consentito il diffondersi della corruzione e del clien­telismo di massa, anche perché a un certo punto non sono sta­ti più in grado di controllare la raccolta del denaro, così og­gettivamente favorendo l'arricchimento personale di una par­te della classe politica.

    Secondo Averardi, tutto è cominciato dalla reciproca tolle­ranza, da parte di De e Pci sulle entrate di contributi stranieri, poi continuata in relazione ad entrate interne di dubbia o equi­voca provenienza. La responsabilità primaria, però, sarebbe da attribuire alla De che, avendo detenuto il potere assoluto dal 1948, e successivamente quello relativo, avrebbe avuto ampia possibilità di far cessare con l'imperio della legge gli illeciti sistemi di funzionamento. In un secondo momento è sopravvenuta anche la responsabilità del Psi che, dapprima finanziato dai comunisti e poi, con il centro-sinistra, dalla De, ha a sua volta alla fine abusato del potere che aveva acquisito sotto la guida di Craxi per coinvolgersi in analoghe imprese non onorevoli, favorendo gli illeciti arricchimenti personali e il diffondersi della corruzione, che aveva già generosamente contagiato anche i partiti minori. Non si parla nel libro né di An né di Msi che sembrerebbero perciò estranei alla grande illegittima festa. Tuttavia, quando Craxi, sentendosi sopraffat­to dalla marea montante sul Psi, si alzò in Parlamento a de­nunziare che si era trattato di un sistema adottato da tutti, al­trimenti impossibilitati a far politica, e invitò chiunque si sen­tisse estraneo ai fatti a prendere la parola per affermare la sua rettitudine e quella del suo partito, nessuno si mosse, nessuno chiese di parlare, e la sfida di Craxi cadde nel gelido silenzio dell'aula.

    Del resto io stesso che - come forse qualcuno ricorderà -assurto alla presidenza della Corte Costituzionale, e pronun­ziando, nel giugno del '91, un discorso d'apertura nell'aula magna dell'Università di Bologna, dove si teneva - per corte­se ospitalità - il Congresso nazionale dell'Associazione nazio­nale dei partigiani d'Italia, ritenni - a torto od a ragione - che fosse doveroso per il Presidente del supremo organo di ga­ranzia giurisdizionale della Costituzione denunziare, innanzi a coloro che si erano battuti per la libertà e la legalità del Pae­se, la dilagante corruzione e persino la collusione in taluni set­tori fra politica e associazioni criminali organizzate (del che tutti sussurravano senza

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