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Le relazioni internazionali russo-sovietiche tra XIX-XX secolo
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E-book276 pagine4 ore

Le relazioni internazionali russo-sovietiche tra XIX-XX secolo

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La politica estera della Russia rappresenta un unicum nella storia delle relazioni internazionali. Senza dubbio, vi sono fattori che hanno concorso a determinare un simile risultato e vanno come sempre ricercati nell’evoluzione/involuzione di alcuni processi storici e nella secolare collocazione di questo paese ai margini dell’Europa e, in gran parte, seppur solo geograficamente, in area asiatica. Partendo da questa riflessione, che rimane una costante negli studi degli storici di ogni tempo, va evidenziato come proprio tale peculiarità, ovvero il voler preservare una doppia identità, o meglio forgiarne una terza, l’abbia preservata, in qualche modo, da due grandi eventi che hanno travolto non solo il vecchio continente ma anche l’intera umanità: l’epopea napoleonica agli inizi dell’Ottocento e la conquista del mondo nazifascita degli anni Trenta/Quaranta del Novecento. Eventi che, per la loro natura totalitaria, qualora seguiti dal successo, avrebbero potuto imprimere alla storia una svolta dalle conseguenze imprevedibili.

Francesco Randazzo è professore Associato di Storia delle relazioni internazionali presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Perugia. Da diversi anni collabora con l’Archivio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito di Roma di cui è stato consulente. Autore di svariati studi e monografie sui temi della Russia tardo-imperiale, collabora scientificamente con istituzioni accademiche italiane e straniere tra cui l’Università Statale di San Pietroburgo, l’Università di Targu Mures in Romania, il Centre d’Études Slaves dell’Università La Sorbonne di Parigi, l‘Università di Granada e l’Università “A. Moro” di Bari. È coautore della trilogia Andrà tutto bene? [Edizioni Libellula, 2020]. Tra le sue pubblicazioni più recenti From Moscow to Rome: Italian-Soviet Relations from 1943 to 1946, Cambridge, Cambridge Scholars Publishing, 2019; La guerra civile in Russia nei documenti militari e diplomatici italiani 1918-1922, Libellula, Tricase, 2019; Zarstvo and Communism. Italian Diplomacy in Russia in the Age of Soviet Communism, Cambridge, Cambridge Scholars Publishing, 2018.
LinguaItaliano
EditorePasserino
Data di uscita2 ago 2021
ISBN9791220833301
Le relazioni internazionali russo-sovietiche tra XIX-XX secolo

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    Le relazioni internazionali russo-sovietiche tra XIX-XX secolo - Francesco Randazzo

    Introduzione

    La politica estera della Russia rappresenta un unicum nella storia delle relazioni internazionali. Senza dubbio, vi sono fattori che hanno concorso a determinare un simile risultato e vanno come sempre ricercati nell’evoluzione/involuzione di alcuni processi storici e nella secolare collocazione di questo paese ai margini dell’Europa e, in gran parte, seppur solo geograficamente, in area asiatica. Partendo da questa riflessione, che rimane una costante negli studi degli storici di ogni tempo, va evidenziato come proprio tale peculiarità, ovvero il voler preservare una doppia identità, o meglio forgiarne una terza, l’abbia preservata, in qualche modo, da due grandi eventi che hanno travolto non solo il vecchio continente ma anche l’intera umanità: l’epopea napoleonica agli inizi dell’Ottocento e la conquista del mondo nazifascita degli anni Trenta/Quaranta del Novecento. Eventi che, per la loro natura totalitaria, qualora seguiti dal successo, avrebbero potuto imprimere alla storia una svolta dalle conseguenze imprevedibili.

    La Russia di Pietro il Grande, agli inizi del Settecento, aveva dimostrato di saper competere con i grandi vettori della politica europea e internazionale e soprattutto aveva saputo guadagnarsi quel rispetto sui campi di battaglia di cui a fare per prima le spese furono gli eserciti svedesi. Un nuovo gigante si profilava all’orizzonte e sia l’onnipotente impero ottomano che quello britannico cominciarono a guardare con sospetto il nuovo inquilino che dimostrava di saper raccogliere l’eredità del vecchio impero bizantino e rappresentarne idealmente la continuità in termini di spiritualità cristiana e nel connubio politico-religioso. E così, quando alle porte dell’impero zarista si affacciò il grande nemico della cristianità che avrebbe voluto sottomettere l’Europa intera alle sue volontà dittatoriali, la Russia rispose col sacrificio dei suoi uomini coscienti che la partita aperta sarebbe stata decisiva per le sorti delle genti europee e della cristianità. Ciò avrebbe comportato un ulteriore sacrificio del popolo russo costretto ad abbandonare i propri villaggi, distrutti onde evitare che il nemico avanzando potesse trovare scorte alimentari e ricoveri adatti ai propri bisogni. Lo zar Alessandro I preferì aderire alle pressioni esterne e decise il 20 agosto 1812 di nominare comandante supremo dell’esercito l’anziano, esperto e prestigioso generale Michail Kutuzov, eroe della guerra contro Napoleone. Da questo momento in poi la Russia si ritaglierà nel quadro del concerto europeo una sorta di posizione di privilegio che le permetterà di arrivare al Congresso di Vienna con un vantaggio nei confronti degli altri sovrani europei spodestati dal ciclone napoleonico, il vantaggio del vincitore.

    Da allora, le vicende della Russia zarista si intrecceranno sempre più, a livello internazionale, con le azioni messe in campo dagli altri Stati europei o comunque, più precisamente, dai due imperi multietnici, quello austriaco (dal 1867 austroungarico) e quello ottomano a cui San Pietroburgo contenderà l’influenza sui territori a etnia slava dei Balcani meridionali e soprattutto l’accesso vitale ai bacini caldi del Mar Nero e del Mediterraneo. La tendenza a inserire queste lotte in una sorta di neocrociata contro l’infedele e contro il primato di alcune chiese di area anglo-tedesca è una suggestione che alcuni studi contemporanei tendono a escludere anteponendo al principio della solidarietà slavo-greco-ortodossa quello ben più materiale del controllo delle rotte commerciali di terra o di mare senza grandi avversari sul campo. L’eterna contesa poi con il nemico storico dei russi, il sultano di Istanbul, alimenterà nel tempo leggende metropolitane e una letteratura pronta a dimostrare quanto importante fosse preservare la cristianità occidentale dal pericolo turco, teoria facilmente smontata dalla guerra di Crimea che ha visto Stati cristiani appoggiare gli ottomani contro la Santa Russia.

    L’ascesa della Russia nell’arena internazionale avrà una sua consacrazione con la guerra russo-turca della metà degli anni Settanta dell’Ottocento, momento in cui l’impero, patria di Pietro il Grande e di Caterina II, conoscerà un progressivo sviluppo delle proprie arcaiche istituzioni e si porrà sempre più come l’antagonista di quelle potenze europee neocolonialiste che si lanceranno alla conquista dei territori africani e mediorientali. Dal canto suo, però, lo zar non disdegna la colonizzazione della Siberia e dell’Asia centrale, fatte passare come un atto di civilizzazione di luoghi sino ad allora abitati da popolazioni nomadi che destabilizzavano le frontiere dell’impero. Tralasciando tale querelle, riemersa negli ultimi decenni, ovvero dopo la caduta del comunismo in Unione Sovietica e il ritorno all’indipendenza degli Stati dell’Asia centrale che ne facevano parte, l’atteggiamento dell’opinione pubblica e della stampa russe è favorevole alla condanna delle violenze che subirono i popoli africani e si posero contro gli Stati invasori. E’ il caso della conquista italiana dell’Abissinia, terra con cui la tradizione ortodossa russa ha un antico legame connesso alle vicende bibliche dell’arca di Noè. La politica zarista dimostra dunque di aver aperto la Russia alle relazioni internazionali occupandosi di problemi che fuoriescono il più delle volte da un mero interesse nazionale anche se, proprio in relazione alle questioni africane, non mancano forme di cooperazione commerciale e un velato obiettivo di ostacolare diplomaticamente la rotta britannica verso le Indie.

    Il Novecento si aprirà con la cocente sconfitta contro il Giappone, evento che segnerà fortemente il regno dell’ultimo zar Nicola II, costretto non solo concedere il Manifesto d’Ottobre, sotto la pressione delle forze liberali e rivoluzionarie ormai dilaganti nel paese, ma a cercare di ricostruire la sua immagine di padre dei russi (batjuška) danneggiata dalla famigerata domenica di sangue del gennaio 1905. Eventi che per la loro natura fortemente emotiva caratterizzeranno tutta la fase del costituzionalismo russo degli anni 1906-1914 e spaccheranno in maniera irreversibile il compatto monolita monarchico determinando situazioni di instabilità e malcontento sociale. E non basterà l’ascesa in ruoli chiave di personaggi politici di alto livello come Vitte, Lamzdorf, Izvolskij, Stolypin, Sazonov, non basterà perché la Russia sarà costantemente legata al modello autoritario e dispotico, tipico dei Romanov, che lo zar vuole conservare come prerogativa nelle decisioni finali, aiutato in ciò dalla consorte tedesca ch’egli il più delle volte asseconda anche e soprattutto nelle decisioni più importanti.

    E se in politica interna gli errori commessi vengono in parte mitigati dalla lungimiranza e dal senso di concretezza dimostrato da alcuni elementi governativi, in politica estera tutto si complica soprattutto quando l’Austria-Ungheria, grazie alla scaltra azione diplomatica del conte Aehrenthal, annette nel 1908 la Bosnia Erzegovina mettendo la Russia di fronte al fatto compiuto. Una sconfitta dipolomatica che lo zar tenta di recuperare a Racconigi, stringendo un accordo con l’allora Regno d’Italia legato alla Triplice Alleanza ma in aria di scontro con lo scomodo vicino d’oltralpe con cui decenni prima aveva ingaggiato gloriose guerre di indipendenza. La ricerca di nuovi alleati in Europa non interrompe però quel ciclo di contrapposizione dell’impero zarista a quello ottomano ormai nella fase del tramonto e pronto a sfaldarsi in una miriade di Stati balcanici.

    La guerra mondiale mette in evidenza un apparato volenteroso ma non efficiente, un grande eroismo non sempre però accompagnato da una visione realista della effettiva forza militare dell’esercito russo. La rivoluzione e la conseguente guerra civile distoglieranno la Russia, poi Unione Sovietica, dalle questioni esterne al paese che saranno trattate dal 1919 in poi attraverso la Terza Internazionale, la più nota organizzazione internazionale dei partiti comunisti attiva fino al 1943. In quest’arco di tempo tutte le questioni verranno trattate attraverso una nuova prospettiva da cui i sovietici guarderanno la storia. I parametri che verranno utilizzati nei rapporti internazionali passeranno per l’adesione o meno a un sistema ideologico marxista o socialista fuori dal quale non vi è spazio per un legame stabile. Sarà la seconda guerra mondiale a consacrare questo modello interpretativo e a consegnare all’Unione Sovietica lo scettro di paese-faro dei nascenti regimi popolari dell’Europa orientale mentre grande attenzione lo Stato Sovietico comincia a porre a quelle aree del Terzo mondo in cerca di alleati contro lo strapotere degli Stati Uniti d’America. La guerra fredda alimenterà lo scontro tra est e ovest, tra paesi appartenenti al commonwealth sovietico e quelli che hanno abbracciato l’Alleanza atlantica dietro alla quale vi era la forza economica statunitense intervenuta in aiuto ai paesi usciti disastrati dal secondo conflitto mondiale.

    Alla guerra fredda segue il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991 e la comparsa di un soggetto nuovo che tenta di emulare i processi di democratizzazione a cui erano giunti decenni prima molti Stati europei. Il tentativo trova sulla sua strada un uomo politico che proviene dal vecchio ambiente dei servizi segreti sovietici e, a distanza di venti anni, ancora oggi continua a essere ancora il deus ex machina della politica estera russa, Vladimir Putin. La sua azione politica spazza via l’immagine del debole regime presidenziale inaugurato da Boris El’cin agli inizi del 1992 e conclusosi in maniera infruttuosa sia come immagine che la Russia proiettava all’esterno sia come miglioramento della situazione interna al paese dove esplodono le contraddizioni dovute all’iniezione selvaggia di elementi del capitalismo occidentale.

    Il suo tener testa all’Unione Europea e agli Stati Uniti, rilanciando l’immagine di uno Stato solido che non teme la concorrenza straniera, rappresenta senza dubbio un fattore di notevole importanza mediatica e rilancia in chiave internazionale l’importanza di un polo di potere alternativo verso il quale volgono lo sguardo i paesi che faticano a trovare un punto di equilibrio con gli Stati Uniti o con l’Unione Europea. La Russia continua la sua partita senza attirare consensi internazionali e conscia del suo valore contrattuale, del suo peso nelle relazioni con gli altri paesi con cui è disposta a misurarsi senza cedere però né parte della sua sovranità né propensa a perdere la sua identità di regime a forte vocazione verticistica.

    Il Congresso di Vienna: la tentazione europea di Alessandro I

    La Russia degli ultimi anni del XVIII secolo era una tabula rasa dove con l’aiuto di un potere all’uopo illuminato, si poteva fare tutto. […] in nome di questa specie di versione settecentesca della futura teoria leniniana dell’anello più debole che uomini come Voltaire o Diderot non avevano risparmiato il proprio entusiasmo per l’azione blandamente riformatrice della grande Caterina - ribattezzata enfaticamente la Semiramide del Nord - la quale, a sua volta, si era affrettata a non far mancare i più ampi riconoscimenti (non sempre simbolici) ai suoi nuovi e inaspettati fautori, atteggiandosi a generosa protettrice delle lettere e dei numi [1] . Così Ernesto Galli della Loggia introduce la corrispondenza di Joseph de Maistre da San Pietroburgo tra il 1811 e il 1813, ovvero presentando l’immagine di un paese che si apriva alle correnti europee e soprattutto andava mostrandosi terreno fertilissimo di cultura per gli aneliti misticheggianti, sospesi tra utopismo sociale e aspirazione a una nuova vita dell’anima [2] . Il regno di Caterina II si era chiuso con un crescendo di repressione e l’accantonamento di progetti arditi di riforma seppur tuttavia con una nota positiva, almeno in ambito teologico-culturale: la tolleranza dei gesuiti sul territorio imperiale dopo che Clemente XIV aveva sciolto la Compagnia di Gesù nel 1773. In simil maniera si comportò il sovrano prussiano Federico II il quale col trattato di Breslavia garantì lo status quo alla religione cattolica conscio del plusvalore culturale dei cattolici: attraverso la politica di appoggio e amicizia verso i gesuiti si tratta di manifestare l’attivo interesse – e possibilmente l’influenza – della Russia sulle cose dell’Europa occidentale, non escluse quelle della Chiesa cattolica [3] . Era questa la Russia che Joseph de Maistre, l’inviato straordinario del regno di Sardegna in Russia, si ritrovò dinanzi il 29 aprile 1803, giorno in cui varcava i confini dell’impero d’oriente a Brest Litovsk, dopo un lungo viaggio iniziato a Cagliari. Qui egli avrebbe trascorso quasi tre lustri della sua esistenza scoprendo un mondo nuovo di cui in Italia si aveva una vaga e sommaria conoscenza. Senza mai abdicare alla sua naturale vocazione teologico-filosofica, egli descrive la Russia con un pragmatico interesse politico, conscio della delicata missione di dover rappresentare le istanze, gli interessi e le speranze di un popolo che i russi conoscevano poco, i sardi. Nella società pietroburghese de Maistre coltivò molte amicizie importanti e furono loro il viatico della sua alta considerazione a corte, almeno durante i primi anni. Si trattava dei conti Stroganov e Grigorij Orlov, dell’ammiraglio Čičagov, del senatore Tamara e dei coniugi Golovin con i quali egli intrecciò relazioni sociali molto forti. Il ciclone napoleonico che si abbatté sull’Europa, il forte sentimento nazionale russo che riesplose in tutto l’impero con la conseguente rivalutazione del culto ortodosso, misero ben presto in cattiva luce il proselitismo avviato dai gesuiti e fecero cadere ben presto in disgrazia lo stesso de Maistre, accusato di favorire il cattolicesimo ai danni dell’ortodossia, che dovrà lasciare la Russia nel 1816. Durante la campagna russa di Napoleone, de Maistre esalta le doti del principe Kutuzov, parla delle tattiche russe e descrive nelle sue lettere il carattere del soldato russo, ma non smette un attimo di disegnare e ridisegnare la carta geografica degli Stati italiani in vista di un ampliamento dell’Austria e della Francia [4] ai possibili danni del regno sabaudo. La vittoria dei russi contro Napoleone apre scenari nuovi anche se ormai la parabola di de Maistre è in fase discendente e dunque anche lo spirito con cui egli indirizza le sue lettere in Italia soffrono di questo subentrato stato d’animo. Il Congresso di Vienna, apertosi ufficialmente il 1 novembre 1814 diventa dunque uno dei temi centrali della nuova corrispondenza del diplomatico sabaudo che non rinuncia alla sua verve politico-filosofica rilanciando il diritto della Savoia a non essere trattata come merce di scambio durante le contrattazioni diplomatiche tra le potenze vincitrici.

    A fronte di un venticinquennio di sconvolgimenti sociali e politici tanto radicali come la Rivoluzione francese prima e l’era napoleonica poi, l’ambizioso progetto che le grandi monarchie europee si proponevano con il Congresso di Vienna, incastonato tra i due Trattati di Parigi, si rivelò insufficiente a contrastare il nuovo spirito liberale e i fermenti sociali a cui gli eventi avevano ormai dato la stura. I principi direttivi che ispirarono in particolare il primo macro evento diplomatico della storia di fatto non ressero alla prova del tempo, e nel giro di poco mostrarono la propria debolezza. Molti degli impegni sottoscritti furono una dichiarazione di intenti, piuttosto che inchiodare gli Stati alla loro effettiva esecuzione: impegni sollecitati più dallo shock, procurato dal sovvertimento sociale e politico che dalla presa della Bastille terminò a Waterloo, piuttosto che da maturate convinzioni.

    Riuniti a Vienna, sovrani e rappresentanti delle medie e grandi corone, sotto la regia del cancelliere austriaco, il principe di Metternich, abbracciarono la proposta di una nuova visione diplomatica che promuoveva il comune interesse degli Stati per il destino dell’Europa: equilibri permanenti e maggiore cooperazione. Il ripristino dell’ordine sociale, l’equità, e la convivenza pacifica lungo i confini furono decretate fondamenta necessarie e prioritarie per la tenuta dell’assetto geopolitico che si stava disegnando. Molti dei provvedimenti scaturiti però mostrarono presto l’opinabilità di queste premesse: l’ordine sociale veniva ristabilito restaurando ovunque il vecchio sistema monarchico, senza di fatto tener conto delle nuove esigenze sociali. Ottenuto il sostegno delle classi borghesi, una volta abbattuto Napoleone, le corone dimenticarono le promesse costituzionali sbandierate e, tornati al potere, i sovrani governarono con un assolutismo addirittura più rigoroso del passato.

    Contro il consueto principio di conquista si impose il nuovo principio di legittimità, sostenuto con tenacia e successo dal marchese di Talleyrand [5] per salvare la Francia dall’accaparramento punitivo dei vincitori: ogni regno spodestato del suo monarca, sotto l’impero napoleonico, tornava al legittimo sovrano e agli eredi. Ciò non impedì comunque alle potenze vincitrici di escogitare una politica di influenze egemoniche e spartizioni territoriali. L’Austria in posizione di supremazia sull’Europa, l’Inghilterra preponderante sui mari, la Russia più vicina al cuore del Continente grazie alla spartizione della Polonia, la Prussia ingrandita dalla divisione dei regni di Polonia e Sassonia [6] .

    Ad evidenziare alcuni punti deboli dell’impianto del Congresso sarà proprio il Trattato della Santa Alleanza siglato il 26 settembre 1815 tra Vienna, Berlino e San Pietroburgo. Nonostante il diverso orientamento cattolico, protestante e ortodosso, le tre corti stringevano un patto, in nome della cristianità, per impedire l’affermazione delle emergenti istanze di autonomie nazionali e liberali. La Santa Alleanza stabiliva legami di fraternità fra i tre sovrani e l’obbligo di prestarsi mutuo soccorso. L’approssimazione di alcuni articoli del trattato apriva a nuovi pericoli. L’evidenza dell’insidia spinse l’Inghilterra a rettificare alcuni punti, proponendo un’ulteriore alleanza, la Quadruplice, con l’obbligo per Russia, Prussia, Austria e Inghilterra di incontrarsi periodicamente per sventare qualunque minaccia che potesse mettere a rischio la pace e concertare un eventuale intervento. Una specifica, quella del concerto, che invalidava la direttiva della Santa Alleanza secondo cui l’intervento collettivo in difesa della legittimità era automatico. E poiché nelle colonie inglesi d’oltreoceano le rivolte contro il paese dominatore erano sempre più frequenti, l’Inghilterra, con la Quadruplice si tutelò da eventuali interferenze europee.

    Tra le voci del tempo che si levano fin da subito contro l’andamento e i risultati del Trattato di Parigi prima e del Congresso poi, risuona anche quella di Joseph de Maistre. Magistrato, intellettuale, scrittore, il senatore sabaudo fu un importante riferimento per il regno di Sardegna, sia in qualità di reggente della Cancelleria, sia, in seguito, come inviato straordinario e plenipotenziario a San Pietroburgo, presso l’imperatore Alessandro I. Originario del ducato savoiardo di Chambéry, espropriato al regno sardo sotto Napoleone, de Maistre segue con apprensione dalla lontana regione degli Urali il destino della sua terra. Animato da profonda e autentica passione politica, sostenitore integrale dell’ ancien régime, l’ambasciatore non manca di una acuta, a tratti lungimirante, analisi critica del quadro che si sta delineando. Riflessioni che fanno delle sue corrispondenze un documento storico interessante anche alla luce della sua vicenda personale che resta impigliata nel quadro generale della sua formazione religiosa. La fitta corrispondenza da San Pietroburgo copre quasi un ventennio, a partire dal 1802, e rappresenta una preziosa lente di ingrandimento su diversi aspetti dell’impero russo: dall’economia, all’amministrazione, alla giustizia; sia durante la lunga assenza dello zar, impegnato nelle attività del Congresso, sia al suo rientro in patria con la nuova impronta autoritaria.

    Non solo il contenuto, ma anche lo stile schietto, il tono diretto, di contrasto addirittura con la linea tenuta dal regno di appartenenza riguardo al caso Savoia, conferiscono al linguaggio diplomatico di de Maistre un valore che si somma a quello storico delle sue corrispondenze.

    La Savoia, il principio di legittimità e le contraddizioni dei Trattati post napoleonici. Per capire le obiezioni di Joseph de Maistre ai trattati di Parigi e Vienna, è sufficiente seguire il destino della sua terra d’origine, le cui sorti si intrecciano alla nuova carta geografica europea che le potenze vincitrici contro la Francia napoleonica ridisegnano in seno agli accordi.

    Per comprendere che partita rappresenti la Savoia [7] sul tavolo delle trattative di Parigi nella primavera del 1814 bisogna risalire alla fine del secolo precedente, quando il governo rivoluzionario francese diede ordine all’esercito popolare di invadere l’antico ducato. Nel giro di un paio di mesi la Savoia fu annessa alla Francia, e nel gennaio del 1793 toccò a Nizza. Con l’armistizio di Cherasco, tre anni dopo, Napoleone vittorioso sull’esercito piemontese obbligava il re di Sardegna e duca di Savoia al riconoscimento dell’annessione e imponeva l’occupazione delle fortezze di Ceva, Cuneo e Tortona.

    Il primo Trattato di Parigi, stipulato il 30 maggio del 1814 tra la Francia e la coalizione vincitrice, Inghilterra, Austria, Russia e Prussia, retrocedeva i confini francesi alle conquiste del 1792. Annecy e Chambéry, appartenenti alla Savoia, restavano dunque annesse alla Francia. Scelta critica quella che si impose a Parigi perché in conflitto con uno dei pilastri su cui reggeva l’impianto della Restaurazione, ossia quel principio di legittimità che avrebbe dovuto restituire i due territori savoiardi al loro legittimo sovrano, il re di Sardegna. Ma che fare? Rischiare di fomentare la suscettibilità francese privandola di ogni conquista, o tenerla a bada con qualche concessione? Quello che si valutò a Parigi, in una logica di convenienze, di pesi e contrappesi politici, fu di evitare alla Francia condizioni troppo umilianti che indebolissero la figura del sovrano appena restaurato, e che tenessero a bada l’opinione popolare. Secondo le intenzioni del Metternich la Francia doveva essere battuta ma non schiacciata togliendo così alla Russia l’occasione di primeggiare in Europa non sapendo che a tale obiettivo erano orientate anche l’Inghilterra e la Russia le quali puntavano a contenere i vantaggi austriaci dalla débacle napoleonica. Fu così che la Savoia rientrò nei trofei di guerra assegnati alla Francia.

    La notizia raggiunge San Pietroburgo dove da anni vive, come inviato straordinario di sua maestà Vittorio Emanuele I, Joseph de Maistre. Entrato nelle grazie dell’imperatore Alessandro I, il diplomatico sabaudo, benché innamorato della capitale imperiale al

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