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Andreotti, la chiesa e la «solidarietà nazionale»
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E-book368 pagine5 ore

Andreotti, la chiesa e la «solidarietà nazionale»

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Info su questo ebook

Giulio Andreotti nei primi anni Sessanta era stato avversario della formula di centrosinistra ed all’inizio dei Settanta era contrario ad ogni apertura al PCI. Ma a metà del decennio, per volontà di Aldo Moro, fu chiamato a guidare i governi che si avvalsero dell’astensione e poi del sostegno esterno del PCI. Fu scelto, in uno dei momenti più difficili della storia della Repubblica, come garante della «solidarietà nazionale» nei confronti degli alleati occidentali e verso il fronte interno più problematico, quello della Chiesa cattolica. Ed è su questo tema che, in prevalenza, le pagine di questo volume fermano la loro attenzione. L’interlocuzione a vari livelli con il mondo cattolico permette di comprendere meglio quale sia stato lo sforzo di Andreotti per garantire all’esperimento uno spazio di evoluzione che si giovasse del riserbo della Chiesa e permettesse di contrastare gli avversari della collaborazione con i comunisti. Illumina, inoltre, l’atteggiamento dell’uomo politico nei confronti del PCI nel periodo della «solidarietà». Andreotti sostenne la validità di quella politica anche davanti alla Santa Sede, convinto che, dato il quadro parlamentare e la forza elettorale del PCI, la collaborazione dovesse assumere un carattere strategico per far fronte al risanamento economico-finanziario e rispondere alla minaccia terroristica che contava su una consistente area di fiancheggiamento e di consenso.
LinguaItaliano
Data di uscita23 nov 2020
ISBN9788838250224
Andreotti, la chiesa e la «solidarietà nazionale»

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    Andreotti, la chiesa e la «solidarietà nazionale» - Augusto D'Angelo

    Augusto D'Angelo

    Andreotti, la chiesa e la «solidarietà nazionale»

    Tutti i volumi pubblicati nelle collane dell’editrice Studium Cultura ed Universale sono sottoposti a doppio referaggio cieco. La documentazione resta agli atti. Per consulenze specifiche, ci si avvale anche di professori esterni al Comitato scientifico, consultabile all’indirizzo web http://www.edizionistudium.it/content/comitato-scientifico-0.

    Copyright © 2020 by Edizioni Studium - Roma

    ISSN della collana Cultura 2612-2774

    ISBN 978-88-382-5022-4

    www.edizionistudium.it

    ISBN: 9788838250224

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    Introduzione

    I. Dai «mali di Roma» al timore del «sorpasso»

    1. Una Chiesa tra rinnovamento e contestazione

    2. Il rapporto col cardinale conteso

    3. Il problema politico del «Convegno sui mali di Roma»

    4. La sconfitta sul divorzio e l’avanzata comunista del 1975

    II. L'ultima battaglia per la «città sacra» e il nuovo voto anticipato

    1. Allarme e preparazione

    2. Il «caso Poletti»: città di Dio o città senza Dio?

    3. Roma, aborto, crisi di governo: verso il voto anticipato

    4. Salvaguardare il carattere cristiano di Roma

    III. Le astensioni che diventano «non fiducia»

    1. Tra i «due vincitori»...

    2. Roma è persa (senza drammi)

    3. Primi passi e mine vaganti

    4. La fiducia cattolica alla «non sfiducia»

    IV. «Uscire bene dal guado»

    1. Critiche al cedimento etico e all’impegno col PCI

    2. Come spiegare il PCI nella maggioranza?

    3. La tragedia di Moro: il «no» a Paolo VI

    4. I Conclavi del ’78 e le speranze dei comunisti

    5. Crisi della «Solidarietà»...

    6. ...e difesa fino all’ultima trincea

    Appendice

    Indice dei nomi

    Cultura Studium

    Quante volte ho pensato che la Chiesa sarebbe in condizioni diverse se gli amici laici avessero il coraggio di una critica ferma, frutto di amore sofferto, e non si lasciassero andare invece a panegirici adulatori, premessa di favoritismi indebiti. Divorzio, aborto... quante occasioni che rivelano un nostro non aver preso sul serio certe realtà quando c ’era forse tempo, quando la verità del Vangelo ci spingeva a difendere con passione certi valori, senza ridursi poi invece a fare solo o prevalentemente un’opera di reazione. Ma è inutile perdere tempo in rimpianti. Siamo solo davanti ad un ennesimo esempio che mostra come la Storia sia la maestra più disattesa. La Storia, poco conosciuta, conosciuta male.

    Mons. Mariano Magrassi, Arcivescovo di Bari, ad Andreotti

    4 gennaio 1979

    Andreotti ist ein Mann von ausgeprägten rechtlichen, moralischen und religiösen Grundsätzen. Zum konservativen Flügel der DC gehörig, mit engem Kontakt zum Vatikan, wirkt er streng und zurückhaltend, auf mich machte er zunächst nicht den Eindruck eines italienischen Politikers, sondern eher den eines etwas gehemmten hohen Richters oder Beamten aus Holland oder Großbritannien. Erst im Laufe unserer vielfältigen Unterhaltungen lernte ich den großen Bildungsfundus, die politische Leidenschaft aber auch den sarkastischen Witz dieses Mannes kennen.

    Andreotti è un uomo con forti principi legali, morali e religiosi. Appartenente all’ala conservatrice della DC, con stretti contatti con il Vaticano, appare severo e riservato, all’inizio non mi ha dato l’impressione di un politico italiano, ma piuttosto quella di un alto giudice o di un funzionario un po’ inibito dell’Olanda o della Gran Bretagna. Solo nel corso delle nostre molteplici conversazioni ho avuto modo di conoscere la sua vasta cultura, la passione politica, ma anche lo spirito sarcastico di quest’uomo.

    Helmut Schmidt, Die Deutschen und ihre Nachbarn,

    Goldmann, Berlin 1992

    Introduzione

    Giulio Andreotti iniziò a pubblicare i suoi diari a partire da quelli del triennio 1976-1979: in quegli anni fu alla guida dei governi che beneficiarono prima dell’astensione, e poi del sostegno del PCI. La scelta di pubblicarli fu presa dopo aver partecipato alla presentazione del volume di Giorgio Napolitano In mezzo al guado [1] , raccolta di interventi del leader migliorista del PCI relativi allo stesso periodo.

    La presentazione, tenutasi a Roma il 9 gennaio 1980 [2] , fece comprendere ad Andreotti «come fosse necessario offrire una documentazione rigorosamente obiettiva, e tale da integrare [quella] ed altre ricostruzioni, interessanti ma, in un certo senso, legittimamente di parte» [3] .

    Certo, anche quella di Andreotti sarebbe stata una ricostruzione di parte. Eppure a fronte di come spesso è stato ricostruito il suo atteggiamento in quella stagione, e stando a quel che emerge dalle carte del suo archivio, una considerazione più approfondita delle finalità da lui attribuite ai governi di quel triennio e al rapporto con PCI sembra opportuna.

    Gli anni Settanta hanno rappresentato per la DC una stagione difficile inserita all’interno di una crisi più vasta che sembrava minare, anche a livello internazionale, gli equilibri stabilitisi al termine della seconda guerra mondiale. La fine del cambio fisso tra dollaro e oro (agosto 1971), che aveva rappresentato l’elemento stabilizzante dell’ordine economico post-bellico creato dagli accordi di Bretton Woods [4] , e la scossa della crisi petrolifera a seguito della guerra del Kippur (ottobre 1973) non segnarono solo l’ulteriore impennata del processo inflazionistico, ma costrinsero l’Occidente, e l’Italia in particolare, a sperimentare una profonda crisi energetica, coniugata ad instabilità monetaria e finanziaria che avrebbe costretto a profonde ristrutturazioni del settore economico [5] .

    Andreotti era entrato negli anni Settanta «da destra». Capogruppo della DC alla Camera, fu incaricato nel luglio 1970 di formare un esecutivo quadripartito, tentativo fallito per l’ostilità socialdemocratica. Nel 1972 il suo primo governo, battuto in Parlamento, condusse il Paese al primo voto anticipato della Repubblica e il risultato delle elezioni, che premiò le destre, lo proiettò a guidare un esecutivo di segno più moderato rispetto a quelli del centro-sinistra. In quel governo – denominato per l’appunto Andreotti-Malagodi – rientrava il Partito liberale italiano, la forza politica che si era opposta all’ingresso dei socialisti nella maggioranza, pagando la scelta con un quindicennio di esclusione dagli esecutivi [6] . Andreotti aveva poi criticato l’accordo di Palazzo Giustiniani che aveva liquidato il suo governo per tornare alla formula del centro-sinistra, e fino al voto del 20 giugno 1976 si era qualificato come chiaro avversario dei comunisti, contrario al confronto, per un rapporto competitivo col PCI [7] .

    Certo, c’era stata l’anomala vicenda della regione Lazio, dove i suoi amici avevano sperimentato per qualche mese una formula di «giunta aperta» dopo l’avanzata del PCI del 1975: il comunista Maurizio Ferrara era stato eletto alla Presidenza del Consiglio regionale; un’intesa aveva visto convergere sullo stesso programma i voti di PCI, DC, PSI, PRI e PSDI; la giunta presieduta dal socialista Roberto Palleschi – e formata da otto democristiani, due socialisti, un socialdemocratico ed un repubblicano – fu sostenuta dalla DC, dal PSI, dal PSDI e dal PRI con astensione dei comunisti [8] . Ma con la richiesta socialista di pieno coinvolgimento del PCI nella giunta e l’approssimarsi del voto politico del 1976, che coincideva anche con le elezioni per il Campidoglio, l’esperimento era stato archiviato cedendo il passo ad una giunta regionale di sinistra.

    Dopo il voto del 1976 le lunghe trattative portarono alla formazione di un governo monocolore democristiano che poteva vivere grazie anche all’astensione del PCI. Alla guida di quel governo Aldo Moro volle che ci fosse Andreotti, garante nei confronti degli Stati Uniti, ed in grado di presidiare il fronte interno più problematico, quello della Chiesa cattolica.

    Ed è su questo tema qualificante che le pagine di questo volume fermeranno prevalentemente la loro attenzione, perché l’interlocuzione a vari livelli con il mondo religioso cattolico – dai laici al clero, dai vescovi ai cardinali, fino al papa – permette di comprendere meglio quale sia stato lo sforzo di Andreotti per garantire all’esperimento uno spazio di evoluzione che si giovasse del riserbo della Chiesa. Illumina, inoltre, i tratti dell’atteggiamento dell’uomo politico nei confronti del PCI nella stagione della «solidarietà».

    È ineludibile, facendo riferimento ad Andreotti, il rapporto con Roma: la sua città, il luogo del suo impegno politico, il centro universale della Chiesa di cui è fedele. Ed è per questo che si sono prese le mosse dalle vicende che la città ha vissuto dalla metà degli anni Settanta. Il rapporto col cardinal Poletti, la questione del «Convegno sui mali di Roma», sono utili per comprendere lo scenario in cui si declina uno dei livelli del rapporto di Andreotti con l’istituzione ecclesiastica nella stagione immediatamente successiva. Quel convegno era stato immaginato dal cardinale come un momento di ascolto delle istanze della città nell’edificazione di un profilo conciliare della chiesa locale, più che come espressione di un progetto ben definito. La cultura politica di Andreotti, invece, non prevedeva improvvisazioni e colse l’impatto politico dell’iniziativa definita – a quanto racconta lo stesso Poletti – «facilona, populista, disgregatrice di precisi valori politici» [9] , nonché concausa della sconfitta municipale del 1976 che causò il passaggio del Campidoglio all’amministrazione di sinistra .

    C’è chi ha sostenuto che la scelta di guidare i governi di «solidarietà nazionale» sia caduta su Andreotti perché era «scaltro e cinico» e perciò «nella DC era l’uomo ideale per un lento logoramento dei comunisti» [10] . Altri hanno scritto che «Per Andreotti e per le correnti della destra e del centro, l’intesa con Berlinguer [aveva] una funzione prettamente strumentale» [11] .

    Certo, la fine dell’esperienza della «solidarietà nazionale» – come scrisse Franco De Felice – colpì la «credibilità della strategia comunista, il collante del blocco sociale che aveva nella possibilità e capacità di trasformare il paese le ragioni della propria coesione» [12] , ma la documentazione dimostra come Andreotti valutasse negativamente l’archiviazione di quella stagione. Il dialogo con il PCI aveva, per lui, in quel particolare periodo di emergenza, un valore strategico.

    Andreotti, poi, nella sua azione di governo maturò la convinzione che non fosse opportuno escludere nei rapporti col PCI anche sperimentazioni in periferia. Moro la pensava diversamente, e attraverso Galloni rifiutò l’offerta del PCI di mantenere un sindaco democristiano a Roma dopo le lezioni municipali del 1976 vinte dai comunisti. L’operazione avrebbe previsto la formazione di una giunta unitaria comprendente anche i due maggiori partiti italiani. Moro e Zaccagnini si attengono all’idea di un processo di avvicinamento al PCI che debba essere controllato strettamente dal vertice. Andreotti, invece, individua proprio nel verticismo il limite del processo medesimo: egli riteneva che passaggi di collaborazione col PCI in periferia potessero contribuire a depotenziare il carattere ideologico del confronto, e favorire una maggiore preparazione alla base dei partiti [13] . Non si trattava di generalizzare una formula, ma di riconoscere, dove si rendesse necessario, la possibilità di partecipare a giunte comuni col PCI, lasciando un ruolo rilevante agli organi periferici del partito. Si spiegano così la sperimentazione della «giunta aperta» del Lazio – primo passo di una ricerca immediatamente interrotta – e la non eccessiva drammatizzazione della sconfitta di Roma. Andreotti, già protagonista ai tempi dell’«operazione Sturzo» [14] , e che su richiesta dell’autorità religiosa aveva accettato di correre anche per il Campidoglio nelle elezione del 1976, non ritenne che quella sconfitta rappresentasse un dramma per la Chiesa. Anzi, era ragionevolmente convinto che il PCI avrebbe concesso al Vaticano più di quanto avessero fatto alcuni sindaci democristiani in precedenza.

    Dalle posizioni di Andreotti si ricava anche l’obiettivo del suo personale terzo tempo, la «terza fase» della quale Moro – anche per la dinamica processuale del progetto – lasciò poco definiti gli sviluppi [15] .

    Per Andreotti si trattava di continuare il processo di confronto col PCI al fine di favorirne l’evoluzione e accelerare l’adesione di tutta la sinistra italiana al modello socialista europeo. Un approdo «difficilissimo», ma capace di offrire una prospettiva alla complessa articolazione della vita politica italiana [16] . In definitiva l’obiettivo non era molto diverso da quello che Guido Carli aveva compreso da Moro [17] , e del quale lo stesso Andreotti aveva segnalato l’utilità nei suoi appunti per la Santa Sede [18] .

    L’interlocuzione continua di Andreotti con il mondo ecclesiastico, nelle sue varie articolazioni, permette di ricostruire il suo impegno per far comprendere le implicazione della difficile situazione, e per contrastare prese di posizioni che potessero rappresentare un indebolimento della linea politica e della compattezza della DC in quella stagione. La dinamica di convergenza dei maggiori partiti a fronte di una situazione emergenziale sul fronte economico-finanziario e dell’ordine pubblico gli parve una risorsa da cui non si poteva prescindere. Ed il suo lavoro nei confronti della Chiesa fu teso a preservare la «solidarietà nazionale» e lo spazio di interlocuzione col PCI da interventi in grado di ostacolarne gli eventuali sviluppi.

    A volte, nell’interlocuzione col mondo ecclesiastico Andreotti nota una certa incapacità a comprendere le dinamiche del mondo politico, i meccanismi della democrazia assembleare [19] .

    Il «cardinale esterno» – secondo la definizione di Andrea Riccardi [20] – risponde autorevolmente a preti e vescovi che lo accusano di aver ceduto sul tema dell’interruzione di gravidanza per le donne di Seveso dopo il disastro ambientale dovuto alla diossina; spiega ripetutamente quali fossero i limiti ed i rischi del suo governo riguardo all’approvazione della legge sull’aborto, per la quale non si avevano più i numeri necessari ad un contrasto dell’iter in Parlamento. Interloquisce con chi avanza critiche per un presunto cedimento al PCI sia dal punto di vista politico che etico. Rimprovera riservatamente i prelati che in onoranze funebri per le vittime del terrorismo cedono ad atteggiamenti interpretabili come critica alle autorità, nel momento in cui era più necessario serrare le fila dell’azione di contrasto alla violenza politica dei gruppi armati. Non cede di un passo di fronte ad un giudizio critico, che ritiene improprio, dell’«Osservatore Romano», e pretende con successo un’«autosmentita» dal quotidiano [21] .

    Nei lunghi anni della sua attività politica la Chiesa è cambiata, e sono cambiati di tempo in tempo il contesto e gli interlocutori. De Gasperi nel suo rapporto con Pio XII aveva vissuto grandi difficoltà, e l’interlocuzione aveva risentito del peso dell’autorità di un pontefice la cui azione durante la guerra e negli anni immediatamente successivi aveva contribuito alla salvezza dell’Italia; l’impegno della Chiesa di papa Pacelli era stato determinante – nonché condizionante – per l’affermazione della DC.

    In ogni stagione non risulta irrilevante la fatica della ricerca di interlocutori per far comprendere le ragioni delle proprie scelte politiche. Ed Andreotti a quella fatica non si sottrae. Alla fine degli anni Settanta progressivamente si rafforza il canale rappresentato da mons. Achille Silvestrini – prete romagnolo della scuola diplomatica del cardinal Domenico Tardini, stretto collaboratore di Pio XII e Segretario di Stato di Giovanni XXIII – cresciuto con la priorità di coltivare sempre un clima di dialogo, come metodo per garantire spazi di maggiore agibilità alle iniziative della Chiesa.

    L’anno decisivo del passaggio del PCI dall’astensione all’ingresso in maggioranza fu anche l’anno dei tre papi: il momento di una decisiva svolta per la Chiesa cattolica, con la fine del pontificato italiano e con l’esigenza – da parte di Andreotti – di decifrare la novità, motivare le proprie scelte a nuovi interlocutori e scontare anche qualche diffidenza. Papa Wojtyla prese a preoccuparsi per l’Italia e inviò mons. Achille Silvestrini per accertarsi da Andreotti sullo stato di salute del partito: «La DC regge?» [22] .

    In definitiva Andreotti operò per arginare prese di posizione vaticane, attenuare la sensazione di pericolo e diffidenza che l’avvicinamento del PCI alla maggioranza di governo suscitava in settori della Chiesa e nel mondo cattolico. Tale costante lavorio avrebbe prodotto dei risultati tanto che Berlinguer – dopo l’uscita dalla maggioranza e dopo le elezioni politiche ed europee del 1979 –, registrando gli attacchi al suo partito ed i tentativi ripetuti di far saltare la linea politica di solidarietà democratica poteva affermare: «Solo la Chiesa, quanto meno nella sua parte più responsabile, si è tenuta fuori da questo informe e aggressivo coacervo anticomunista» [23] .

    L’aver presidiato il fronte cattolico nel tentativo di mantenere la porta aperta ad una collaborazione col PCI, garantendosi da prese di posizioni vaticane, ebbe una certa utilità. Nella sua interlocuzione con la base cattolica, inoltre, Andreotti contribuì a conservare il consenso al partito.

    Gli sviluppi del quadro internazionale successivi all’invasione sovietica dell’Afghanistan, l’elezione di Ronald Reagan e l’evoluzione della situazione polacca avrebbero contribuito a deteriorare quel clima di distensione che a metà anni Settanta poteva agevolare l’audacia di un disegno intrinsecamente fragile, eppure capace di ampliare gli spazi di democrazia a fronte di ostacoli rilevanti. La scelta del PCI di uscire dalla maggioranza – pressato da una base che esultò alla notizia –, gli esiti del XIV Congresso democristiano ed il graduale autoisolamento di Berlinguer avrebbero poi archiviato la «solidarietà nazionale».

    L’uomo che era entrato nel decennio «da destra», e che fino al maggio 1976 chiedeva polemicamente se il comunismo fosse veramente cambiato [24] , usciva dal decennio convinto – anche oltre la fine dell’esperienza dei suoi governi del triennio 1976-1979 – dell’opportunità del confronto col PCI [25] .

    L’irrigidimento del PCI da un lato, e quello della DC del «preambolo» dall’altro, favoriti anche dalla politica di Craxi, chiusero la strada alla ricomposizione consensuale del quadro politico italiano, aprendo alla stagione di una democrazia conflittuale, utile ad una parte della sinistra. Alcuni settori della DC, per sbarrare al PCI la via di un eventuale apporto al governo, posero le basi della dinamica che li costrinse a lasciarne la guida.

    Nella legislatura successiva il quadro politico era mutato. Berlinguer, scelta la trincea della «questione morale» [26] , era ormai indisponibile alla eventuale ripresa del dialogo. Andreotti tornò al governo come Ministro degli esteri nel gabinetto guidato da Craxi, inaugurando una stagione che lo avrebbe visto, tornato anche alla guida del governo alla fine del decennio, tra i protagonisti dell’elaborazione del progetto dell’Unione Europea.


    [1] G. Napolitano, In mezzo al guado, Editori Riuniti, Roma 1979. Il volume è stato riedito nel 2013 a cura di Giuseppe Vacca, con l’esclusione di alcuni testi ritenuti ripetitivi o congiunturali.

    [2] Alla presentazione, oltre ad Andreotti e Napolitano parteciparono Luciano Lama, Giorgio Ruffolo e Luigi Spaventa. A. Padellaro, Il PCI «in mezzo al guado». Per Andreotti e Napolitano un’esperienza da rivalutare, in «Il Corriere della Sera», 11/1/1980; P. Sansonetti, Il difficile «guado» della sinistra, in «L’Unità», 11/1/1980.

    [3] G. Andreotti, Diari 1976-1979. Gli anni della solidarietà, Rizzoli, Milano 1981, p. 8.

    [4] G. Mauro, Il sistema monetario internazionale.Da Bretton Woods a Maastricht, Giappichelli, Torino 1999; A. M. Endres, Great Architects of International Finance. The Bretton Woods Era, Routledge, London/ New York 2005.

    [5] V. Negri Zamagni, I mutamenti dell’economia internazionale e l’Italia, in L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, vol. I, Tra guerra fredda e distensione, a cura di A. Giovagnoli e S. Pons, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003, pp. 233-240; P. Craveri, L’arte del non governo. L’inesorabile declino della Repubblica italiana, Marsilio, Venezia 2016, pp. 280-298.

    [6] G. Orsina, L’alternativa liberale. Malagodi e l’opposizione al centrosinistra, Marsilio, Venezia 2010.

    [7] Come ha raccontato Massimo Franco, ai suoi soprannomi si era aggiunto «il predicatore anticomunista». Cfr. M. Franco, Andreotti. La vita di un uomo politico, la storia di un’epoca, Mondadori, Milano 2008, p. 108.

    [8] Giunta regionale eletta sulla base di una larga maggioranza programmatica, in «L’Unità», 24/9/1975.

    [9] U. Poletti, Da una finestra romana. Uno sguardo retrospettivo...dal vero, Edizioni Viverein, Roma 2014, p. 279.

    [10] P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943-1988, Einaudi, Torino 1989, p. 509.

    [11] S. Colarizi, Storia politica della Repubblica (1943-2006), Laterza, Roma-Bari 2007, p. 128.

    [12] F. De Felice, L’Italia repubblicana. Nazione e sviluppo. Nazione e crisi, a cura di L. Masella, Einaudi, Torino 2003, p. 230.

    [13] G. Andreotti, La DC del 1980. Discorso al Congresso, SPC, Frosinone 1980, pp. 20-23.

    [14] A. D’Angelo, De Gasperi, le destre e l’«operazione Sturzo». Voto amministrativo del 1952 e progetti di riforma elettorale, Studium, Roma 2002.

    [15] G. Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, Il Mulino, Bologna 2016, pp. 300-301.

    [16] G. Andreotti, La DC del 1980. Discorso al Congresso, cit., p. 27. Fanfani a proposito dell’intervento di Andreotti al XIV Congresso annotò sul suo diario: «Parla Andreotti, equivoco linguaggio però assai cauto, benché chiara la scelta di avanguardia pro intesa DC-PCI, al di là degli Zac[cagniniani]». Diario Fanfani, 19/2/1980.

    [17] G. Carli, Cinquant’anni di vita italiana, Laterza, Bari 1993, p. 364.

    [18] Cfr. l’appunto in Appendice in vista del Congresso democristiano del 1980.

    [19] G. Andreotti, Diari 1976-1979, cit., p. 18.

    [20] A. Riccardi, Il «cardinale esterno». Giulio Andreotti e la Roma dei papi, in G. Andreotti. L’uomo, il cattolico, lo statista, a cura di M. Barone, E. Di Nolfo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010, pp. 305-339.

    [21] In un articolo sulla Situazione politica un redattore aveva segnalato che la necessità di dialogo col PCI sostenuta da Andreotti era «contradetta» sia dal risultato elettorale del 1979 che dagli avvenimenti politici che dimostravano «la possibilità di governare senza il PCI». Situazione politica, in «L’Osservatore Romano», 18/7/1980, p. 6. Andreotti appuntò sul diario l’esistenza di «un periodo di critica nel pastone dell’Osservatore Romano per quanto ho detto riguardo al comunismo. La critica è ripresa dalle agenzie. Sensazione». G. Andreotti, I diari segreti, a cura di S. e S. Andreotti, Solferino, Milano 2020, pp. 121-122 (17-18/7/1980). Fece i suoi passi e il direttore del quotidiano, Valerio Volpini, assicurò che il giornale, pur non potendo pubblicare rettifiche si sarebbe «autosmentito», cosa che avvenne in un articolo del giorno successivo in cui si poteva leggere: «[...] teniamo a precisare che non è stata certo nostra intenzione attribuirgli quanto nella sua conferenza stampa lo stesso onorevole Andreotti non ha detto». Cfr. Situazione politica, in «L’Osservatore Romano», 19/7/1980, p. 6.

    [22] Silvestrini visita di frequente Andreotti e durante un incontro estivo a Merano – nella seconda parte dell’agosto 1979 – si fa interprete dell’interesse del papa polacco per le questioni italiane. L’allora vescovo domandò a nome del papa: «Riguardo all’Italia chiede: la DC regge? Che si deve pensare dei socialisti? Sono quesiti posti coram sacerdotem cracovianensem». Fu in quella occasione che Andreotti concluse con Silvestrini che il PCI si era «autoisolato». G. Andreotti, I diari segreti, cit., p. 40.

    [23] La riflessione di Berlinguer svolta in seno al Comitato Centrale del PCI tenutosi agli inizi di luglio del 1979 fu la seguente: «Anche il terrorismo ha agito con l’obiettivo principale, aperto ed esplicito, di colpire la politica unitaria del PCI, di far saltare la linea di solidarietà democratica avviata dopo il 20 giugno 1976 ed esso è stato utilizzato politicamente per mettere in difficoltà il nostro partito, accusandoci ora di responsabilità e di collusione quanto meno ideologica con il terrorismo stesso, ora di essere fautori di uno Stato repressivo e autoritario. Si è determinato così un complesso schieramento che ha visto convergere forze pur distinte e perfino contrapposte verso l’obiettivo comune di dare addosso al PCI, alla sua politica, ai suoi legami di massa. Solo la Chiesa, quanto meno nella sua parte più responsabile, si è tenuta fuori da questo informe e aggressivo coacervo anticomunista». «L’Unità», 4/7/1979.

    [24] G. Andreotti, Lettera agli elettori, in «Concretezza», n. 10/1976, 16/5/1976.

    [25] Cfr. Andreotti: è un errore evitare il confronto con i comunisti, in «Corriere della Sera», 20/7/1980; Andreotti: la solidarietà nazionale ha consentito di governare meglio, ivi, 6/3/1981.

    [26] Si veda l’intervista di E. Scalfari La questione morale di Enrico Berlinguer, in «La Repubblica», 28/7/1981 che contribuì ad un definitivo isolamento del PCI; per le reazioni contrarie alle prese di posizione del Segretario nel partito comunista rinvio a G. Napolitano, Dal PCI al socialismo europeo. Un’autobiografia politica, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 166-171.

    I. Dai «mali di Roma» al timore del «sorpasso»

    1. Una Chiesa tra rinnovamento e contestazione

    Nel 1976 Giulio Andreotti fu candidato a Roma come capolista della Democrazia Cristiana sia alla Camera dei deputati che al Consiglio comunale di Roma. Per un leader politico che aveva già guidato due governi della Repubblica, e che aveva ricoperto incarichi governativi quasi ininterrottamente dal 1947, l’impegno per la campagna municipale non era scontato. La scelta, per come ebbe a raccontare nei suoi diari, non fu libera, e neanche gradita, vista la sua convinzione della inopportunità delle doppie candidature:

    Non ho potuto tuttavia ritrarmi nella battaglia per il Campidoglio, perché autorevoli ambienti cattolici ci addebitavano di trascurare il municipio – nonostante il rischio di dover passare la mano come nella giunta regionale – tutti presi dalle nostre aspirazioni di deputati e senatori. Certi ambienti sono difficili. Minacciavano addirittura di votare scheda bianca. E neppure la soluzione di un capolista di alto prestigio amministrativo come Gaetano Stammati era stata di loro gradimento [1] .

    La doppia candidatura e la campagna per il voto del 20-21 giugno 1976 rappresentarono per Andreotti un momento di ritessitura di un rapporto con settori della gerarchia ecclesiastica che si era andato lacerando nell’ultimo triennio: il convegno romano del febbraio 1974, i risultati del referendum sul divorzio del maggio successivo e le elezioni regionali del 1975, con l’ampio successo del PCI, avevano visto settori della DC e parti della gerarchia rimproverarsi reciprocamente la responsabilità di fronte ad uno scenario – il sorpasso dei comunisti sui democristiani – che allarmava tanto gli uni che gli altri.

    Al tempo stesso i risultati del voto del giugno 1976, se delusero la DC e la Chiesa nella loro dimensione romana, facendo passare il Campidoglio sotto il controllo delle sinistre, proiettarono il leader democristiano alla guida di un governo che, proprio per le aperture di collaborazione col PCI, rischiava di aggravare la frattura con una parte consistente della gerarchia e del mondo cattolico, in gran parte suo elettorato di riferimento.

    La situazione si era andata modificando a partire dai grandi cambiamenti subiti da Roma negli anni tra la fine della seconda guerra mondiale ed il post-Concilio. Le periferie erano cresciute enormemente ed erano spesso caratterizzate da fenomeni di emarginazione, senza alcun segno di aggregazione sociale [2] .

    In questa città la Chiesa non

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