Notte di nozze
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Anteprima del libro
Notte di nozze - Blasco Ibáñez Vicente
I LEONCINI
frontespizioVicente Blasco Ibáñez
Notte di nozze
ISBN 978-88-9296-855-4
© 2017 Leone Editore, Milano
Traduttore: Luigi Marfè
www.leoneeditore.it
Testo in italiano
Testo in spagnolo
I
Quel giovedì, per Benimaclet, fu un autentico giorno di festa.
Non capita spesso di provare la soddisfazione
che un figlio del popolo, uno scugnizzo visto trotterellare per strada scalzo e col viso sporco, diventi, dopo anni di studio, un signor curato: così furono pochi quelli che mancarono alla prima messa celebrata da Visantet,1 mi correggo, don Vicente, il figlio di comare Pascuala e di compare Nelo, noto come il Ciambella.
Dalla piazza, inondata dal caldo sole di primavera, in cui mosche e bombi tracciavano nell’aria fulgida le proprie complesse contraddanze, lucenti come scintille d’oro, la porta della chiesa, enorme fauce da cui trasudava il respiro della folla, pareva una porzione nera del cielo, su cui si stagliavano, come simmetriche costellazioni, le luci delle candele.
Quanta cera sprecata! Si sapeva bene che la madrina era la signora di Valencia, colei che aveva supportato la carriera del giovane e di cui i Ciambella erano fittavoli.
In tutta la chiesa non c’era cappella o nicchia dove non ardessero ceri; le lumiere, cariche di candele, brillavano di riflessi iridescenti, e all’odore della cera si univa la fragranza dei fiori, che formavano composizioni sulla tavola dell’altare, addobbavano le cornici e pendevano dalle lampade in fitti grappoli.
Era di vecchia data l’amicizia tra la famiglia dei Ciambella, comare Tona e sua figlia, famose fioraie che avevano un banco al mercato di Valencia, e non c’era nulla di che stupirsi se le due donne avevano passato al setaccio il proprio giardino, e reciso la vendita di una settimana per celebrare degnamente la prima messa del figlio di comare Pascuala.
Sembrava che tutti i fiori della riva del fiume fossero scappati per rifugiarsi lì, affannandosi verso la cupola. Il tabernacolo si levava tra due grandi piramidi di rose, e i santi e gli angeli dell’altare maggiore parevano affondare fino all’addome dorato in quella nube di petali e foglie che, alla luce dei ceri, mostrava ogni sfumatura di colore, dal verde smeraldo al rosso scarlatto al tenue madreperla.
Quella folla che spintonava sapeva di lana grezza e di salubre sudore, si sentiva in chiesa meglio del solito, e trovava brevi le due ore della cerimonia.
Abituati com’erano a raccattare come oro i nauseabondi rifiuti della città, a rivoltare in ogni momento il concime per i campi, che serbavano il futuro raccolto, essi erano, per la maggior parte, stuzzicati nell’olfatto da un’intensa voluttà, lusingati dal fresco profluvio delle rose e dei garofani, dei nardi e dei gigli, cui si univa il profumo orientale dell’incenso. I loro occhi si perdevano a guardare l’incessante scintillio di quelle mille stelle rosse, e una strana ebbrezza era suscitata, dentro di loro, dal dolce lamento dei violini, dalla grave melopea dei contrabbassi e da quelle voci che dal coro, con accento teatrale, cantavano in un idioma sconosciuto, tutto a maggior gloria del Ciambella.
La folla era soddisfatta. Guardava la chiesa luccicante come il proprio palazzo incantato. Tra musiche, fiori e incenso: così si doveva stare, in cielo; magari un po’ più larghi e meno sudati.
Tutti, nella casa di Dio, erano al posto che spettava loro. Colui che si trovava là in alto, sui gradini dell’altare, rivestito d’abiti dorati, muovendosi con solennità tra azzurre nuvolette, mentre il predicatore gli dedicava le sue frasi più sonore, era uno dei loro, un altro che si era liberato dalla rude lotta con la terra per far germogliare senza sosta le proprie stanche viscere.
Quasi tutti, essendo più anziani, gli avevano tirato le orecchie, altri avevano giocato con lui a chapas, tutti l’avevano visto andare a Valencia a raccogliere il letame con la cesta in spalla o