Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Navi sui monti
Navi sui monti
Navi sui monti
E-book277 pagine4 ore

Navi sui monti

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Sono molto stanco stasera. Ho salutato gli altri seduti a tavola nella locanda e mi sono allontanato verso il fiume. Voglio restare da solo. Voglio camminare lungo la riva finalmente deserta. Desidero contemplare in silenzio l’acqua placida e buia che tanto mi ricorda quella del mio lago nelle notti di primavera. Voglio pensare in santa pace alla mia Delia e ai miei due figli e sognare il momento in cui li rivedrò corrermi incontro davanti alla nostra casa.
LinguaItaliano
Data di uscita27 nov 2018
ISBN9788829560233
Navi sui monti

Correlato a Navi sui monti

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Navi sui monti

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Navi sui monti - ROSARIA TENORE NICOLETTI

    © 2018 Lupi Editore

    Via Roma 12, 67039 Sulmona (AQ) 

    Tutti i diritti riservati 

    www.yndy.it

    ISBN 978-88-99663-82-7

    Finito di stampare nel mese di ottobre 2018 

    presso Universal Book srl - Rende (CS)

    per conto della casa editrice Lupi Editore

    NAVI SUI MONTI

    di

    Rosaria Tenore Nicoletti

    Ai sognatori di imprese impossiili, agli ignoti eroi.

    PROLOGO

    Sono molto stanco stasera. Ho salutato gli altri seduti a tavola nella locanda e mi sono allontanato verso il fiume. Voglio restare da solo. Voglio camminare lungo la riva finalmente deserta. Desidero contemplare in silenzio l’acqua placida e buia che tanto mi ricorda quella del mio lago nelle notti di primavera. Voglio pensare in santa pace alla mia Delia e ai miei due figli e sognare il momento in cui li rivedrò corrermi incontro davanti alla nostra casa.

    Dall’argine scorgo in lontananza il tenue chiarore delle fiaccole che vanno spegnendosi agli angoli delle mura, abbandonate al silenzio delle stelle dopo la baldoria della festa da poco conclusa. Il contatto con una folla tanto sterminata e chiassosa mi ha sfiancato. E pensare che, per accogliere il Papa di Roma, già alle prime luci di questo giorno che finalmente volge al termine, i mantovani hanno abbandonato i loro quotidiani mestieri, compreso l’esercizio dei mercati e delle botteghe. Per ordine delle autorità, sono rimasti aperti solamente i forni pubblici, le taverne, gli alberghi e i ricoveri per le bestie. Giù da noi, al Palazzo, è arrivato lo scrivano del Marchese con l’ordine di lasciare subito il cantiere, affinché il fragore delle opere di restauro non disturbasse i Signori riuniti a consiglio nella Sala Grande.

    Giusto il tempo di cavarci di dosso i nostri sudici panni e di lavarci le braccia nei secchi sotto i ponteggi che già eravamo fuori dal Palazzo: l’intagliatore, gli scalpellini, il decoratore, i due apprendisti e, per ultimo, io stesso, mastro d’ascia e caposquadra, chiamato qui a corte forse più per i meriti di mio padre che per la mia abilità nel lavorare il legno. Nella luce accecante dell’immenso spazio davanti alla reggia, sventolavano alte le sete dorate delle bandiere in mano a giovani fanti in vesti da cerimonia. Dalle logge dei palazzi di fronte pendevano coperte colorate e drappi leggeri i cui bordi ricamati svolazzavano sulla marea di corpi che avevano occupato i tre lati della piazza, trattenuti e spinti all’indietro dai soldati in uniforme di gala che, con le loro schiene possenti, ne mantenevano libero il centro.

    La mia squadra è rimasta bloccata nel vicolo di fianco al Palazzo da cui si scorgeva la guardia d’onore che presidiava l’entrata della reggia. Era impossibile muoversi da lì. La folla ci accerchiava da ogni parte, facendoci ondeggiare come vascelli sbattuti dai flutti, nell’olezzo di fritto delle untuose palandrane e dei corpi sudati. Tra le grida acute e il parlottare assordante della calca, ho udito quelli delle prime file asserire che il Marchese era già partito per andare incontro al Papa. Altri, invece, sostenevano tutti eccitati che era ancora dentro il Palazzo e, di tanto in tanto, allungavano il collo in quella direzione e issavano in spalla i bambini più piccoli.

    Intanto il tempo passava senza che accadesse nulla. A stare in piedi e immobile così a lungo, ho cominciato a sentire un ronzio nelle orecchie e i sassi taglienti del vicolo assediare le suole delle mie scarpe. A un certo punto l’intagliatore mi ha urlato in faccia che una coppa di vino di sicuro mi avrebbe liberato dal male ai piedi, e poi mi ha confessato che anche lui era ormai allo stremo. Ma non c’era modo alcuno di arrivare dall’altra parte della piazza, nella via della nostra locanda dove alloggiamo da quasi un anno.

    Nel frattempo l’attesa diveniva sempre più gravosa e non se ne vedeva la fine, quando, per grazia di Nostro Signore, finalmente hanno preso a suonare le campane delle chiese. Ed ecco che, nello stesso momento, all’ordine di un ufficiale, la guardia d’onore si è mossa in avanti, mentre si spalancavano le porte del Palazzo, offrendo all’avido sguardo della folla l’apparizione del magnanimo Lodovico Gonzaga in sella al suo destriero e il seguito della scorta dei nobili a cavallo. Dall’angolo in cui mi trovavo ho intravisto la berretta rossa del Marchese e l’ampio cappello da viaggio del Vescovo che gli cavalcava di fianco. Quando il corteo si è allontanato in direzione della via maestra, il sole di maggio ha raggiunto il punto più alto del cielo. Al breve silenzio che, alla vista dei due Principi, ha avvolto la piazza, è seguito all’improvviso un nuovo clamore. La ressa dapprima si è sbandata, dopo si è come sfrangiata, creando dei vuoti nella massa compatta dei corpi. Allora, avendo scorto un varco dinanzi a noi, approfittando di un certo disorientamento delle guardie, siamo riusciti a risalire quel fiume opprimente di popolo e abbiamo imboccato la strada della nostra locanda.

    Sono giunto sfinito dinanzi alla sua porta, con la bocca secca. L’uscio era spalancato al volo arruffato delle mosche a causa del viavai dei pellegrini e delle centinaia di viandanti arrivati dai villaggi vicini e dalla campagna. Dentro, l’oste e i suoi garzoni servivano trafelati ai tavoli, già pregustando la provvidenziale conta delle monete a fine giornata. Comunque, nonostante il suo gran da fare, l’uomo si è accorto di noi e, con un cenno del capo, ci ha guidati alla tavola dove di solito mangia la sua famiglia, e che veniva adesso a soccorrere quei bravi forestieri impiegati da quasi un anno nei restauri del Palazzo dei Gonzaga.

    Con l’intenzione di scusarsi per la grande confusione e per il traballante tavolo di fortuna, ci ha fatto subito portare dei boccali di vino speziato e un canestro con numerosi tagli di pane bianco. Più tardi, uno svogliato garzone ha posato sulla tavola un ampio piatto nel quale intiepidivano gli ultimi pezzi di carne sottratti agli spiedi semivuoti e delle ciotole colme di una zuppa di ceci quasi fredda. Al termine dell’insolito e magro pasto, avevamo ancora fame. Ma non c’è stato il tempo per richiamare l’oste al suo dovere, perché improvvisamente, nella fumosa baraonda della locanda, è riesploso il suono delle campane, a cui ha fatto seguito un forsennato precipitarsi sulla strada della gente ammucchiata all’interno della taverna.

    Io non me la sono sentita di mischiarmi nuovamente alla folla per assistere all’arrivo del Santo Padre. Così, con il pretesto dei miei piedi malconci, ho lasciato che l’intagliatore e il decoratore seguissero l’impetuoso entusiasmo dei due apprendisti e degli scalpellini. Mentre essi si allontanavano, trascinati dall’umana corrente, sono salito su nella nostra stanza, mi sono sfilato le scarpe e ho aperto la finestra. Essa si innalza sul piano della strada quel tanto che basta per osservare da vicino i passanti da un capo all’altro della via. Infatti, nello sporgermi sul davanzale, dopo pochi attimi mi è apparso l’inizio dell’imponente corteo di ritorno dalla strada maestra e diretto questa volta alla reggia.

    In testa al corteo il Marchese Lodovico si ergeva impettito sulla sella, nel suo morbido mantello bordato di seta. Accanto a lui, trattenuta per le briglie da un paggio, avanzava la cavalcatura del Papa il quale mostrava una cera grave e affaticata sotto la porpora del copricapo. Con le mani guantate di bianco benediceva il popolo della Santa Madre Chiesa che lo acclamava e si prostrava al suo passaggio segnandosi nel nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo.

    La sfilata procedeva lentamente, al suono dei tamburi, sfoggiando le svolazzanti insegne della nobiltà di queste terre, degli ordini religiosi, degli inviati di quei regnanti e di quei governatori che il Santo Padre veniva a chiamare ad una nuova Crociata contro gli Infedeli. Sotto la mia finestra passavano colori e pennoni e bandiere che non avevo mai visto prima d’ora, quando, dal fondo della selva dei vessilli, ma più alto di tutti e più luminoso, per un attimo lo sventolante leone alato di Venezia mi ha spezzato in gola il respiro.

    Mano a mano che il gonfalone veneziano si avvicinava, la lucentezza del rosso dello sfondo ha confuso i miei pensieri a tal punto che mi è parso di vederlo sventolare di nuovo da una nave a guisa di un pavese di poppa. Non da una nave qualunque, ma dalla prima nave da guerra che io ho veduto quando avevo sedici anni. In questo momento, annodati a una tale visione, sono affiorati i ricordi ancora intensi e traboccanti di immagini nitide e indimenticate, sebbene sia trascorso così tanto tempo da allora. La memoria di quei tragici giorni ha travolto per intera la mia mente a tal punto che il corteo è scomparso in fondo alla via senza che me ne avvedessi.

    Anche stasera, assopitosi il chiasso della festa, quando l’oste ha potuto servire una cena degna della sua fama di locandiere, ho mangiato in silenzio chiuso nei miei pensieri. Ogni tanto ritornavo in me e ascoltavo l’intagliatore e il decoratore che, con la bocca piena, raccontavano in che modo avevano trascorso il tempo prima che imbrunisse e che ritornassero alla locanda. Mentre li osservavo, sentivo l’ardore dei due giovani apprendisti mescolare all’aroma del vino le fanfaronate sulle belle fanciulle di Mantova che, nella calca, non avevano disdegnato le loro audaci carezze. Essi ridevano compiaciuti della propria sfrontatezza, ignari, pensavo, della nuova guerra che veniva annunciando l’imponente spettacolo da poco concluso.

    Più tardi, dopo avere detto loro di non aspettarmi per salire di sopra a dormire, sono uscito dalla locanda e ho preso a vagare lungo la sponda del fiume. Ed eccomi qua a pensare al fatto che io, una guerra, l’avevo già conosciuta e mio malgrado da molto vicino, e che essa si era trascinata sulle mie montagne dalle acque di un altro fiume, diverso da questo, a bordo delle galee armate di Venezia.

    Anche dopo venti anni, or volge infatti l’anno di grazia 1459, non riesco ancora a credere che tutto questo sia accaduto davvero. Eppure è accaduto. Posso testimoniare in tutta coscienza che con questi occhi ho veduto un’intera flotta da guerra scalare le mie amate montagne. In quel tempo io ero solo un ragazzo, dapprima incredulo ma in seguito totalmente rapito dall’immensità dell’impresa e dalla grandezza degli uomini che vi parteciparono. Non potevo immaginare, allora, in che modo sarebbe finita questa guerra e ciò che questa guerra avrebbe arrecato alla mia gente né che avrebbe cambiato per sempre la vita della mia famiglia e la mia.

    Mastro Delfo Torres da Mori

    IL RITORNO

    Quando lo vide arrivare dall’erta di levante, che lasciandosi a destra la fucina del fabbro conduceva larga e diritta alla sua falegnameria, non lo riconobbe subito.

    Incuriosito dall’abbaiare dei cani, aveva interrotto la piallatura di una trave ed era venuto fuori dall’uscio. In quel momento il sole tramontava dietro la bottega e, dalla sommità dei tetti umidi, sfumava di rosso la criniera del cavallo con il dorso coperto dall’ampia mantella scura del cavaliere che gli dondolava sulla groppa.

    La bestia procedeva con lentezza, guidata dall’abile tocco dell’uomo che, da sotto il cappuccio, di tanto in tanto sollevava a destra e a manca occhiate furtive e stanche, allo stesso modo di colui che ricerca una terra sicura dopo un lungo viaggio per mare e, allo stesso tempo, dopo esservi giunto, evita di imbattersi negli abitanti del luogo.

    A un tratto lo sconosciuto fermò il cavallo a circa venti passi dalla costruzione che si ergeva di fronte a lui e sporse il guanto dalla piega del mantello in un cenno di saluto, slegando dal volto teso e infreddolito un sorriso di gioia di cui il falegname nemmeno si accorse. E neanche dopo che il forestiero avanzò di altri dieci passi fu capace di riconoscerlo.

    Ma quando l’ignoto viaggiatore smontò di sella sullo sterrato, afferrandosi i lembi del mantello e allargando le gambe su alcune zolle ghiacciate dell’ultima neve di marzo, soltanto allora comprese subito chi fosse. Non c’era alcun dubbio. Era proprio lui. Avrebbe riconosciuto tra mille altre quelle gambe arcuate che il suo amico aveva imparato a tenere larghe dal momento in cui aveva messo piede sul ponte di una nave.

    Un’esplosione di incredulità lo scosse dalla testa ai piedi.

    Non riuscendo per l’emozione a pronunciare una sola parola, si limitò ad alzare le braccia al cielo e gli si affrettò incontro con gli occhi sfavillanti di felicità, sulle sue gambe magre dai polpacci muscolosi. Si scambiarono un lunghissimo abbraccio dal quale non riuscirono a staccarsi se non a malincuore. Se in quel momento qualcuno li avesse visti, li avrebbe certamente scambiati per due ruvidi, spregevoli amanti. Quando infine cessarono le loro calorose effusioni, negli occhi di entrambi discese il luccicore di una lacrima che però, in un baleno, lasciò il posto a vigorosi e festosi colpi sulle spalle.

    Mio padre Serafino, mi raccontò in seguito, era stordito dalla sorpresa e, dal grumo delle sue disordinate sensazioni, staccò il filo di quelle domande che solitamente si rivolgono a coloro che ritornano alla propria terra dopo anni di lontananza. Come stai, da dove vieni, perché sei tornato, cosa ti è successo?

    L’altro non gli rispose. Con aria sorniona, si portò il dito sulle labbra e, con un cenno rapido degli occhi, gli fece intendere che voleva entrare in casa. O bontà di Dio! Certo, devi essere stanco, vieni, seguimi. Sistemata la cavalcatura nella stalla dietro la casa, attraverso una porta laterale della falegnameria, entrarono nell’abitazione attigua.

    Così il cavaliere inatteso varcò nuovamente la soglia dei Torres dopo diciassette anni dall’ultima volta che vi era stato accolto come ospite di riguardo in occasione delle nozze di mio padre e di mia madre. Io non ero ancora venuto al mondo, ma di quel giorno ho potuto conoscere le figure, disegnate con eccelso talento da questo cavaliere che aveva segnato su dei fogli segreti non ciò che i suoi occhi avevano visto quel giorno, ma solamente quello che i suoi occhi avevano voluto vedere.

    Dentro, il camino era acceso. Il cavaliere fece scivolare il cappuccio dalla testa, si sfilò i guanti, si slacciò il mantello e lo depose sulla sedia bassa poco distante dal fuoco. Dopo si avvicinò alla fiamma per scaldarsi le mani e infine offrì le spalle al calore guardandosi intorno.

    La stanza era rimasta come la ricordava, non era cambiata affatto. La tavola centrale con le panche robuste e splendidamente levigate; il massiccio mobilio costruito e intagliato dalle prodigiose mani del padrone di casa; il lucido vasellame appeso al focolare; le candide tende sulle basse finestre quadrate; la scala di legno che portava di sopra. Per tutta la casa aleggiava lo spirito di un’esistenza serena e di un’accorta agiatezza dovuta alla saggia amministrazione domestica delle discrete fortune che l’operosità e la fama di Serafino procuravano.

    Difatti il nome di Serafino Torres, mio padre, il quale era molto di più che un eccellente artigiano del legno, aveva da tempo oltrepassato i confini del luogo dove era nato, ed era arrivato fino a Trento e persino nelle valli più a nord. Inoltre era ormai consuetudine che la sua opera fosse richiesta anche nei paesi del lago di Garda, poiché tutti conoscevano il suo grande talento nell’arte di scegliere il legno migliore da lavorare.

    Era un mastro d’ascia di eccezionale intuito. Nei periodi stabiliti dalle regole comunitarie, in cui i taglialegna si inoltravano nei boschi per abbattere gli alberi, questi non iniziavano il lavoro se prima Serafino non indicava quali alberi erano pronti per la scure. E in questo non si sbagliava mai. Nessuno conosceva il suo segreto. Lo aveva appreso da suo padre Gentile Torres, mio nonno, il campione dei maestri d’ascia di Mori, che a sua volta lo aveva imparato dal padre e dal nonno. Grazie al suo talento che, sebbene io fossi poco più che un bambino, già nutriva i miei sensi, con il mio lavoro ho sempre cercato di onorare il nome della stirpe dei Torres. E oggi credo di essere riuscito nel mio intento, se persino i signori di Mantova mi hanno incaricato di restaurare il loro pregevole palazzo.

    Gli bastava soltanto avvicinarsi a un tronco, annusarne la corteccia, toccarla e sentirne la vita che le scorreva dentro per immaginare le travi e le assi che quel legno avrebbe in seguito generato: assi compatte, odorose, lisce e possenti. Allora graffiava il fusto con l’accetta. Quello era il segnale, e quello era il momento che i tagliaboschi stavano aspettando.

    Seguivano poi giorni e giorni di durissimo lavoro, durante i quali tutta la vallata risuonava dei colpi secchi delle lame e delle grida di pericolo degli uomini prima dello schianto di ogni albero abbattuto. Oltre al dono di sapere leggere l’anima della pianta, mio padre sapeva lavorare la materia grezza con tale perizia che, dalle sua mani, prendevano forma manufatti di rara bellezza, impreziositi da intarsi e decori ineguagliabili. Intanto Serafino, riavutosi dalla sorpresa, aveva tagliato per l’ospite una fetta di torta custodita nella madia e gli stava versando una coppa di vino. Nel frattempo, prima che il crepuscolo scacciasse l’ultimo bagliore dalle pareti della stanza, aveva acceso delle candele poggiate sulla tavola. Dopo di che, nell’invitarlo a sedersi, andava osservandolo con un’attenzione sempre più eccitata.

    Trovò che l’amico non era cambiato. Aveva la stessa massa di capelli ricciuti, di un biondo scuro, che adesso portava più corti. L’aria marina gli aveva abbellito il volto del colore del sole che faceva risaltare ancora di più l’azzurro profondo degli occhi. La corta sopraveste scura, dal cui scollo spuntava la stoffa bianca del farsetto, conteneva a stento la solidità dei muscoli la potenza dei quali, in passato, si era abbattuta sopra non poche ossa di individui litigiosi e violenti. Di nuovo e di sorprendente, nella sua alta figura, c’era solo lo stiletto che gli pendeva dalla cintura, e sul quale si attardava lo sguardo ammirato e stupito di Serafino.

    Ah! Questo?, esclamò l’altro accorgendosi della curiosità suscitata dal suo ferro. A volte, chiarì, non bastano le sole mani. Quindi, dopo un profondo sospiro, cominciò con il confidare all’amico che era arrivato qui direttamente da Venezia. Nel farlo, la sua voce avvezza a gridare comandi sulle navi, diventò più bassa anche se solamente di un tono.

    Disse che aveva viaggiato per molte miglia, spesso di notte, al fine di evitare le spie dei Visconti, dormendo nei boschi in ricoveri di fortuna e cibandosi di ceci e di lardo rancido in luride taverne distanti dalle strade. Aveva affrontato quel lungo viaggio, aggiunse, e i pericoli che esso celava, comandato dall’Ammiraglio Marcantonio Degàn, per decreto del Senato della Serenissima.

    Il povero Serafino lo ascoltava inebetito. Nell’ombra al di là delle candele accese, la sua faccia sembrava più scura di quanto non fosse in realtà e, nel buio delle orbite, scintillava la fessura dei suoi piccoli occhi verdi, attenti e furbi. Benché non ne conoscesse il motivo, si andava via via convincendo che se il marinaio, anzi il nostromo dell’Ammiraglio, era arrivato da Venezia sino a qui, una ragione, e anche importante, doveva averlo costretto ad attraversare la montagna e la foresta, per giunta vigilando affinché non fosse scoperto dalle spie dei Milanesi.

    C’è un piano segreto..., prese a dire il nostromo, poi tacque. Si alzò, si diresse verso la seggiola dove aveva abbandonato il mantello, frugò in una specie di tasca cucita all’interno e ne estrasse un plico. Quindi tornò a sedersi alla tavola, facendo scricchiolare le assi del pavimento sotto le suole rinforzate degli stivali. Questo, puntualizzò indicando l’involto, non deve cadere nelle mani delle spie. E stava per snodarne i corti legacci, quando, non dalla porta comunicante con la falegnameria, ma da quella sulla facciata dell’abitazione, entrò la bella Nicolosia, mia madre.

    Tornava dalla casa della vicina, l’anziana sorella del maniscalco, conducendo per mano i miei fratelli più piccoli, Beatrice e Andrea. Alla luce delle candele la sua apparizione faceva pensare a una di quelle creature fatate di cui si narra che di notte frequentino le sorgenti dei boschi. I bambini invece, nelle loro piccole vesti di panno ricamate, sembravano i figli di un principe. Dal momento in cui erano entrati, non avevano pensato ad altro che a domandare chi fosse lo sconosciuto, sollevando su di lui quelle loro guance colorite e tonde, fatte per i baci.

    Un amico di vostro padre...un caro amico..., disse la donna che, al contrario di Serafino, lo aveva riconosciuto all’istante. Bentornato, Andrea. Benvenuto nella nostra casa. Lo salutò porgendogli la mano infreddolita. Diversamente da mio padre, lei non era sorpresa di trovarlo qui. Come se avesse sempre saputo che un giorno o l’altro sarebbe ritornato a Mori. Andrea, che nel vederla entrare era balzato in piedi lievemente sbilanciato sulle gambe arcuate, le prese la mano, e per un attimo trattenne tra le sue le morbide dita di lei la quale ignorava, voglio crederlo, quale tempesta di ricordi aveva risvegliato in lui il semplice candore di quel breve contatto. Per un istante gli mancò il respiro, sentì le ginocchia tremargli quasi fosse un dodicenne ammesso per la prima volta nell’alcova di una donna che gli insegna l’amore. Poi, sebbene fosse così turbato, badò

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1