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Vita da Avvocato
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E-book261 pagine3 ore

Vita da Avvocato

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Info su questo ebook

Un viaggio nella vita di un avvocato italiano nei suoi 63 anni di carriera.

L'autore ci conduce attraverso le sue memorie professionali, raccontandoci con ironia e leggerezza aneddoti ed esperienze vissute nelle aule di tribunale, durante complesse trattative internazionali e nei rapporti con colleghi e clienti più disparati.

Dalle prime arringhe impacciate da giovane praticante, alle rocambolesche missioni in Medio Oriente per concludere importanti accordi, l'avvocato ci fa rivivere con lui l'evoluzione della professione legale nell'Italia del secondo Novecento.

Un libro autobiografico dal ritmo brillante, che accompagna il lettore in un affascinante viaggio nel mondo poco conosciuto dell'avvocatura, tra aneddoti esilaranti, curiose controparti orientali e piccanti retroscena. Un irresistibile spaccato dell'Italia del dopoguerra, visto attraverso gli occhi di un testimone d'eccezione.
LinguaItaliano
Data di uscita13 mar 2024
ISBN9791222700632
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    Anteprima del libro

    Vita da Avvocato - Giovanni Verusio

    INTRODUZIONE

    Chi si diletta in sottili ricostruzioni di istituti giuridici, chi desidera aggiornarsi sui più recenti orientamenti della Suprema Corte di Cassazione riguardo ad uno specifico argomento, chi esegue ricerche per munirsi di nuovi argomenti in una controversia in cui sta operando o per redigere un trattato giuridico, chi gode nel leggere degli insuccessi professionali di colleghi, non legga questo libro. Non vi troverebbe niente di quello che cerca.

    Io non ho la voglia, e forse neanche la capacità, di affrontare sì ardui argomenti. Ho piuttosto voglia di raccontare episodi ed esperienze della mia vita professionale che possano interessare anche a chi giurista non è.

    Tenterò di rispondere, nelle pagine che seguono, ad una domanda, o forse a due. Perché ho fatto l’Avvocato per 65 anni? Come è, come ci si sente, ad essere un Avvocato? Una terza domanda che non tratterò perché non ne saprei la risposta è: Avvocati si diventa o si nasce?

    L’Avvocatura è una professione estremamente varia, a volte anche divertente, ma spesso ansiogena. Mi sono divertito a negoziare il testo di un contratto con gli Emiri di Riyadh, ma molto annoiato a tradurre in inglese gli esiti di una ricerca in giurisprudenza o a preparare una conferenza sul diritto delle assicurazioni. Frequente compagno di viaggio è il timore di commettere errori.

    Quando ho cominciato, nel 1957, pochi colleghi disponevano di risorse linguistiche tali da potere scrivere un contratto o spiegare il contenuto di un atto di citazione in inglese, in francese o in tedesco e quindi, quasi più per convenienza che per scelta, molte società, ma anche persone straniere si sono rivolte allo Studio di cui facevo parte per essere assistiti legalmente in Italia, come pure molte società italiane si sono valse della stessa assistenza per le loro iniziative commerciali o industriali o per controversie all’estero.

    Una naturale inclinazione, di cui non saprei spiegare né la natura né l’origine, mi ha fatto propendere più per la trattativa che per la lite, ragion per cui mi sono trovato sempre più spesso e più estesamente ad assistere clienti nella redazione e negoziazione di contratti piuttosto che in processi. Questo mi ha portato a viaggiare molto per il mondo assieme a clienti italiani e ad avere contatti con dirigenti e consulenti legali di aziende estere in Italia.

    Nel fare ciò, ho naturalmente incontrato molte persone, inclusi molti clienti e colleghi, dai caratteri, inclinazioni ed abitudini più vari e spesso sorprendenti.

    Ho anche incontrato Giudici originali e un po’ stravaganti e non ho avuto che dolermi della mancanza di saggezza e di efficienza come pure dell’ottusità dei burocrati.

    Le nostre Associazioni ed i Consigli dell’Ordine hanno magnificato la nostra professione come un altissimo magistero e hanno esaltato i suoi membri come investiti di una missione quasi sacra, di promuovere la giustizia, di difendere gli innocenti ed i deboli e di proteggerli dall’arroganza e dalle vessazioni dei potenti, al fine di garantire così l’esistenza di uno Stato di diritto. In realtà, se è vero che noi Avvocati abbiamo soddisfatto un bisogno oramai insostituibile della nostra società, questa, dal Manzoni in poi, non ci ha molto amato e ci ha guardato con sospetto come le persone che riuscivano a sottrarre alla pena gli assassini e i ricchi.

    Il desiderio di non scomparire, la speranza di lasciare qualcosa, l’esigenza di essere ricordato anche dopo sono aspetti dell’aspirazione di ogni animo umano ad una qualche forma di immortalità. Mentre la memoria degli artisti, dei pittori, degli scultori, dei compositori, dei poeti, dei filosofi e di alcuni pochi scrittori resta viva per secoli e perfino per millenni in gran parte degli abitanti del mondo occidentale, tra i professionisti questo avviene in maniera molto più contenuta. Solo gli Architetti lasciano ai posteri qualcosa di tangibile: il mondo ammirerà o magari dannerà, per secoli, gli edifici ed i manufatti da loro eretti, che restano indissolubilmente legati al loro nome. Vitruvio è ancora noto per la Basilica di Fano dopo duemila anni. Nel nostro tempo si parla ancora di Le Corbusier, di Gropius, di Niemeyer e anche il nostro Renzo Piano sarà ricordato per secoli anche in Nuova Caledonia per il suo Musée des Arts Prémiers. Qualche teoria sviluppata dagli economisti negli ultimi quattro secoli viene tuttora studiata da altri economisti. I Fisici hanno, da Newton in poi, sviluppato le loro teorie sul tempo, la materia e l’universo che restano comunque incomprensibili per il grande pubblico (me compreso). I Medici lasciano, forse, la loro memoria nei pazienti che hanno salvato. Gli Avvocati no.

    Con l’eccezione di Cicerone, che peraltro è ricordato nelle scuole solo per avere detto: Usque tandem Catilina...; soltanto uno sparuto gruppo di giuristi si ricorda il nome di un avvocato del passato. Non lasciamo niente alla posterità: solo scaffali e scaffali di faldoni pieni di carte e documenti che, dopo dieci anni al massimo, vengono comunque mandati al macero. Dopo cinquanta anni di esercizio professionale ci viene consegnato dal Consiglio dell’Ordine un bell’attestato su cartoncino a colori e dopo sessanta un altro ai pochi che sono ancora vivi. Poi basta.

    Nello scrivere le pagine che seguono, ho voluto quindi lasciare almeno una traccia della mia vita professionale, non certo per pormi tra i luminari del diritto, ma solo per tentare di rispondere alle due domande che qui sopra mi sono posto.

    Voglio subito chiarire che così non cerco certo un posto nella posterità, ma mi lusingo solo di interessare e forse anche di divertire i miei lettori.

    I racconti che seguono, che illustrano questa mia professione, non sono esposti in ordine cronologico: non hanno attinenza a specifici problemi giuridici, ma si propongono di prospettare con quale mentalità e disposizione di spirito li ho vissuti, di descrivere, insomma, l’atmosfera nella quale li ho dovuti affrontare.

    CAPITOLO 1

    COME E PERCHÉ

    I – DOPOGUERRA IN CITTÀ

    Dopo la liberazione, alla fine di agosto del 1944, l’America esplose a Firenze.

    Apparvero pacchetti di sigarette a colori: una novità. Prima c’erano solo i pacchetti grigi delle Nazionali e quelli giallicci delle Giubek. Sui pacchetti di sigarette americane Raleigh, il pirata era rappresentato a più colori, sulle Chesterfield, l’omonima Abbazia in diversi toni di verde, un cammello marrone e giallo compariva sulle Camel, la confezione delle Marlboro era di un bianco e rosso squillanti e, sulle scatole di Navy Cut, il tabacco da pipa inglese, non mancava il viso di un marinaio incorniciato da un salvagente davanti ad un bel mare blu.

    Del tutto sconosciuto ai più fu il deodorante, usato con crescente entusiasmo e reciproco sollievo dai passeggeri dei tram che ancora costituivano il più usato mezzo di trasporto urbano. Qualche confusione fu causata da bombolette recanti la misteriosa scritta DDT che furono scambiate per deodorante o cera da pavimenti prima di scoprire che si trattava di un insetticida. Circolava anche liberamente ed in cospicue quantità la balistite, polvere da sparo senza fumo usata per far partire i colpi di cannone. Aveva l’aspetto di spaghetti di colore bruno rossastro ed era confezionata in sacchetti di tela celeste. Bruciava, ma non esplodeva. Noi ragazzi ce ne impadronimmo per confezionare razzi, castagnole e per tirarla tra le gambe dei poveri cavalli delle carrozze di piazza per poi scappare. I genitori intervennero alla fine con severi divieti.

    Grandi novità anche nel cibo, che finalmente si trovava, seppure solo al mercato nero e a prezzi esorbitanti: erano soprattutto scatolette di Corned Beef, subito battezzato manzo cornuto, di Spam, che era un impasto di carne di maiale tritata e formaggio da spalmare sul pane, le scatole di minestra di fagioli, di latte concentrato con l’immagine di rose rosse e poi tavolette di cioccolata Hershey, caramelle multicolori con il buco nel mezzo. Comparvero anche cibi del tutto nuovi come gli hamburger, il popcorn ed i corn flakes, il burro di noccioline e una strana salsa

    di pomodoro fredda in bottiglia che si chiamava ketchup: dopo anni di tessere alimentari c’era da diventare matti.

    Ogni mattina, appena finita la scuola, inforcavamo le biciclette e correvamo in piazza S. Maria Novella dove su un banchetto erano in vendita riviste e libri americani usati. I libri avevano la copertina flessibile e dimensioni limitate, in modo da poterli tenere in tasca; erano i così detti pocket books: un’altra novità. Non li compravamo perché nessuno di noi era in grado di leggerli. C’era anche una vasta offerta di riviste destinate alla truppa, ma adatte anche ai ragazzi perché contenevano storie a fumetti che apprendemmo chiamarsi comics anche quando riguardavano le imprese di feroci assassini o di insaziabili vampiri. Le riviste erano oggetto di ingordi acquisti perché ospitavano anche foto di discinte attrici americane famose in quel momento. Le fotografie erano molto grandi, come in Life e nel più spinto Esquire, e spesso in colori naturali, cosa mai vista, perché le fotografie pubblicate sino allora in Italia, per esempio sul settimanale Tempo, erano maldestramente colorate a mano con improbabili colori ad acquarello. La rivista più ambita da noi ragazzi, anche perché piuttosto rara, era però Flying: una rivista di aviazione con le foto degli ultimi modelli di aerei militari della USAAF e della RAF, dai nomi inquietanti come le oramai famose fortezze volanti, il caccia pesante Lightning P38 con doppia trave di coda, il Mustang P51, il minaccioso Airacobra P39, che però, pare, non funzionasse bene in combattimento.

    Comparvero anche i primi rotolini di pellicole Kodak a colori: gli acquirenti erano incerti su come usarle e si chiedevano dubbiosi: la mia macchina potrà fare le foto anche a colori? Non si era ancora capito che il colore delle foto dipendeva dalla pellicola e non dalla macchina fotografica.

    Oltre alla letteratura arrivò molto presto anche la produzione cinematografica di Hollywood di cui eravamo rimasti digiuni da sei anni. Nel cinema di Via Nazionale si proiettò Robin Hood interpretato da un tal Errol Flynn, allora del tutto sconosciuto al pubblico italiano: fu il primo film a colori mai visto dopo il tedesco Die goldene Stadt presentato con grande fracasso alla Mostra del Cinema di Venezia del 1942. Robin Hood attirò folle entusiaste nonostante lo scandaloso prezzo di 80 Lire del biglietto di ingresso. Poi venne Serenata a Vallechiara con due motivi suonati da Glenn Miller e orchestra, che divennero il tormentone dell’inverno.

    Tutto ciò produsse, nella popolazione liberata dall’incubo immediato della guerra, un acritico innamoramento di tutto ciò che era americano, sostenuto dal jazz che sostituì di prepotenza le sdolcinate melodie del Trio Lescano, peraltro già epurato da tempo per ragioni razziali, e dell’Orchestra Angelini oltre, naturalmente, tutte le canzoni del Regime che la EIAR aveva trasmesso per anni durante la guerra tutte le sere alle nove. Insomma In the mood sostituì con facilità e senza alcun rimpianto la Sagra di Giarabub e Bing Crosby ebbe facilmente la meglio su Narciso Parigi.

    Due anni dopo la fine della guerra due zii, che nel 1938 erano fuggiti a New York, giunsero dagli Stati Uniti per le vacanze estive portando in famiglia una rinnovata ventata di americanismo. Si muovevano su una nuovissima Studebaker, la prima automobile a tre volumi che si fosse mai vista e bevevano whisky, bevanda praticamente del tutto sconosciuta, che tutti adesso bevevano per essere al passo coi tempi nei primi, timidi ricevimenti, pur lamentandosi in privato che la trovavano pessima. Uno dei due zii, che durante la guerra aveva, con nostro terrore, letto i comunicati in italiano alla Voice of America, aveva sposato un’italo-americana che si offrì di insegnarmi un poco di inglese.

    Facevo molta fatica perché mi confondevo con il tedesco, che oramai non serviva più, anzi, a parlarlo suscitava sospetti e interrogativi.

    Fu deciso dalla famiglia che dovevo imparare anche questa nuova lingua e fui affidato a tal fine a Giulietta Borsi, una bella ragazza con fluenti capelli rossi alla Gilda, come si diceva allora con riferimento al film di Rita Hayworth. Era la nipote del poeta Giosuè Borsi, morto sull’Isonzo nel 1915 e presto dimenticato.

    Le lezioni erano impartite passeggiando per Firenze, nella zona della Stazione/Fortezza da Basso e devo dire che mi vergognavo un po’, specialmente quando Giulietta mi prendeva la mano per attraversare la strada: facevo anche finta di non sentire i fischi ed i commenti dei giovanotti fiorentini che incrociavamo. Anche Giulietta, ovviamente, li sentiva ed accelerava il passo scuotendo i lunghi capelli con un sorriso soddisfatto a mezza bocca. Camminai molto, ma di inglese ne imparai poco.

    A furia di ascoltare la zia Carla che mi leggeva e traduceva i fumetti dei comics, feci qualche passo avanti, anzi, più realisticamente: qualche passetto.

    Finito il liceo si pose il problema del mio futuro.

    Fu riunito a Napoli, in mia presenza, un consiglio di famiglia presieduto da mia nonna Lucrezia ed i suoi sei figli: parlava solo in napoletano, aveva quasi novanta anni ed era di fede borbonica. Sosteneva, con immutato rancore, di ricordarsi l’ingresso di Garibaldi a Napoli. In famiglia era molto rispettata ed ascoltata, i figli, incluso mio padre, le davano del voi. Da quando era morto il marito trenta anni prima, non era mai più uscita di casa e riceveva seduta su una specie di chaise-longue in midollino, con una coperta a crochet sulle ginocchia anche in agosto, di solito dicendo il rosario.

    Esordì così: «Chistu nipote mio pote fare solamente tre mestieri: o’ prete, o’ diplomatico e o’ surdato».

    Sussurri di approvazione di mio padre e dei miei zii: le mogli non erano ammesse alla riunione e facevano finta di conversare tra di loro in un salotto accanto, ma in realtà avevano l’orecchio teso, cercando di carpire che cosa dicessimo noi.

    «Se fa o’ prete – proseguì la nonna – comme è l’unico guaglione e finisce a casata e nun me dicite che adesso non è più come ’na vota e che anche i preti..., beh, lasciamm sta’. Se fa o’ surdato l’accirono subbito e o’ resultato è lo stesso. Quindi ha da fa’ o’ diplomatico».

    «Ma io – risposi – vorrei invece studiare etnologia, vorrei visitare e studiare popoli primitivi che ancora vivono sul nostro pianeta».

    «Con l’etnologia non si mangia» proclamò mio padre e mi iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza.

    La Facoltà di Giurisprudenza di Firenze era ospitata provvisoriamente nella Villa Favard vicino al Lungarno Vespucci. Era un edificio quadrangolare, costruito presumibilmente quando Firenze era la Capitale d’Italia da una ricca famiglia svizzera. Molte erano gli svizzeri che si erano trasferiti a Firenze in quel periodo, alcuni avevano aperto dei caffè dove si vendeva la loro famosa cioccolata, come Doney e Rivoire, altri erano banchieri come gli Steinhauslin o industriali come i Rousseau.

    Le matricole, cioè gli iscritti al primo anno, dovevano ottenere la firma di alcuni anziani sul loro papiro, che era un foglio pieno di immagini per lo più oscene. Per ottenere la firma sul papiro, le matricole dovevano pagare agli anziani una specie di pedaggio, tutto sommato modesto, che consisteva per lo più in qualche pacchetto di sigarette americane. Chi non pagava veniva bullizzato e qualche volta buttato in una pubblica fontana. Crearono indignazione e dettero luogo a sanzioni alcuni episodi accaduti nella Facoltà di Medicina dove alcune ragazze che si erano rifiutate di pagare furono sottoposte al carciofo, che consisteva nel legare i lembi della sottana sopra la loro testa e farle camminare così conciate e praticamente cieche per il cortile della Facoltà, circondate da una folla tumultuante di anziani.

    Il corpo dei docenti di Giurisprudenza comprendeva personalità non comuni: il Prof. La Pira, che viveva in una cella del Convento di San Marco. Si diceva che dormisse sul pavimento; sarà poi Sindaco di Firenze, ed è noto come il Sindaco Santo. Predicava la domenica in San Marco, alla Messa di Mezzogiorno ed una volta, in piena occupazione tedesca, ebbe il coraggio di dire: «E ricordatevi sempre che Gesù Cristo era ebreo».

    Quando decideva di bocciare qualcuno al suo esame di Diritto Romano diceva al perplesso candidato: «Mi accorgo che tu, figliolo, non hai pregato abbastanza, prega molto durante l’estate e torna in settembre, se farai così vedrai che ti passo». Per lui pregare e studiare avevano evidentemente molti punti di contatto.

    Il Prof. Frosali era il cattedratico di Diritto Penale. Era un uomo alto, canuto ed austero, era sempre vestito di nero e portava occhiali da sole pesantemente graduati. ll suo tormento più evidente era un acuto dolore ai piedi. Per questa ragione calzava sempre scarpe di tela per venire in Facoltà, invariabilmente a piedi, dalla sua abitazione Oltrarno nella Costa Scarpuccia. Se, nei giorni in cui faceva esami, pioveva, non poteva mettersi le scarpe di tela, ma doveva usare normali scarpe di cuoio: i piedi gli facevano così male che giungeva in Facoltà di pessimo umore e bocciava quasi tutti.

    Il Prof. Agostino D’Avack insegnava Diritto Ecclesiastico. Era un uomo di carnagione scura e grandi occhiaie, come un Zero Calcare ante litteram, parlava molto lentamente con voce cavernosa. Su di lui circolavano molti aneddoti. Durante un esame chiese ad una intimidita studentessa quali erano le cause dell’impotentia coeundi.

    La poveretta era disorientata:

    «Una impotentia, che?».

    «Guardi, signorina, che all’argomento ho dedicato un intero paragrafo del mio testo di Diritto Ecclesiastico consigliato per questo esame».

    La candidata ha vòlto lo sguardo implorante verso i compagni seduti nei banchi dietro di lei in attesa dell’esame: alcuni, cercando di suggerire, mimavano con energia e con il pugno chiuso chi volesse segare il banco dinanzi a sé.

    Improvvisamente illuminata, la ragazza mormorò: «Una malformazione congenita, un trauma... e... e... la scarsa attrazione fisica esercitata sul soggetto dalla partner».

    «Eh?» disse D’Avack che si divertiva a non abbandonare un argomento così imbarazzante per la candidata.

    «Ma non mi viene in mente altro» rispose lei, oramai completamente nel pallone.

    Allora D’Avack la guardò fissa negli occhi sporgendosi in avanti, alzò un dito ammonitore e tuonò: «La fattura. Diciotto».

    Meno pittoresco era il Prof. Piero Calamandrei, luminare di Procedura Civile e padre di uno degli attentatori di Via Rasella. Aveva una bassa considerazione dei Giudici: sosteneva che non conoscevano la procedura.

    Un giorno, in Pretura, mentre svolgeva la sua arringa, Calamandrei si accorse che il giovane Pretore era distratto e guardava fissamente una bella ragazza del pubblico e che poi, unendo e aprendo le punte delle dita di una mano, gli aveva fatto cenno di sintetizzare e concludere.

    Allora Calamandrei esclamò: «Signor Pretore, per accontentare lei, potrei anche dire una parola sì e una parola no, tanto lei...» ed aprì le braccia in un gesto sconsolato. Lui se lo poteva permettere.

    II – FINISHING SCHOOL

    All’inizio degli anni Cinquanta qualche College femminile della costa orientale degli Stati Uniti, come per esempio Radcliffe, che è parte di Harvard University o Bryn Mawr in Pennsylvania, aprirono delle succursali a Roma o a Firenze al fine di rifinire (finish) l’educazione di ragazze provenienti da buone famiglie dotate di molto denaro anche se di modesto cervello. A tale scopo i College offrivano in loco corsi di storia dell’arte, storia europea, cultura e lingua italiana.

    Le lezioni di Giulietta e le letture dei fumetti che mi faceva mia zia avevano fatto sì che cominciassi ad arrangiarmi nella lingua inglese.

    «Ora che conosci la lingua – mi disse mio padre che era sempre un ottimista – è venuto il momento di metterla a profitto. La zia Carla ha parlato con Mrs. Evers, la Direttrice dell’omonima Finishing

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