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I vermi
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I vermi
E-book381 pagine5 ore

I vermi

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Info su questo ebook

Ambientato in una Napoli sotterranea, brulicante di delinquenti e malfattori che abitano le sue bettole, il romanzo prende le mosse dall'incontro fra tre scafati camorristi e un certo Ciccillo Murolo, che desidererebbe entrare a far parte della "paranza". Angelo, a capo dell'infame combriccola, sta architettando un piano di estremo cinismo: intenzionato a sposare la ricca usuraia Filomena Pozzi per mettere le mani sul suo patrimonio, il delinquente dovrà prima preoccuparsi di far fuori suo marito Nicola e, ovviamente, i suoi figli. Ma se al mondo esiste una giustizia – sia essa degli uomini o di Dio – i loschi disegni di Angelo dovranno trovare qualche ostacolo…
LinguaItaliano
Data di uscita28 mar 2024
ISBN9788728564813
I vermi

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    Anteprima del libro

    I vermi - Francesco Mastriani

    I vermi

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 2024 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728564813

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    PREFAZIONE

    Da molto tempo avevamo concepito il disegno di quest’opera, che ora, la mercè delle nostre libere istituzioni, ci è stato conceduto di scrivere e pubblicare. Il suo scopo principale è di gittare alquanta luce su le pratiche insidiose di quelle numerose classi che, o per accidia naturale ed abborrimento ad ogni onesto lavoro, o sedotte dalla speranza di uscire, piu presto che col lavoro, dallo stato di miseria in cui giacciono, o sopraffatte per ignoranza da’ più astuti, si dànno a vivere d’illeciti guadagni. Queste classi, figlie della corruzione, formano appunto la sciagurata generazione de’ vermi sociali.

    Tutti i grandi centri di popolazioni sono formicolai di questi vermi, chesfuggono l’aperta luce per coscienza della propria degradazione e per sottrarsi all’occhio della legge punitrice o alla incomoda sorveglianza dell’autorità governativa.

    Un fatto fisiologico, che la civiltà sviluppa fino al grado d’imperioso bisogno, obbliga i governi, per tutela dell’onore delle famiglie e della pubblica salute, a tollerare non solo, ma eziandio a sottoporre ad un codice speciale di regolamenti una grande sezione femminile di queste classi pericolose. Ma i governi, i quali sorprendono l’infame esercizio della prostituzione e il sottopongono alla loro benefica vigilanza perchè la pubblica morale e sanità non ne rimangano lese, non possono sorprendere la misteriosa influenza che la cupidigia del lucro, la dissolutezza de’ costumi esercitano su vittime infelici, le quali, dove a tempo fossero illuminate a segno da schivare il funesto pendio, si sottrarrebbero al marchio di obbiezione che le colpisce.

    L’innocenza, la virtù, l’onestà sono circondate nelle grandi città da innumerevoli pericoli, soprattutto se la povertà le accompagna nell’arduo sentiero della vita. Nè men circondata da seducenti pericoli è la ricchezza, a cui guardano con infinite aspirazioni tutt’i vermi sociali, e che ha in sè stessa il serpe più insidiatore, qual si èl’ozio. Illuminar quindi, per quanto è possibile, il povero onesto, la innocente figlia del popolo e il giovin signore su gli agguati che lor tendono incessantemente quelli che speculano sul’ozio, su la miseria e sul’ignoranza, ci sembra opera santa, quali si vogliano i mezzi che a ciò s’impieghino.

    Benchè abbiamo messo in questo libro tutta quella riservatezza, di cui ci faceva una legge la morale dello scopo a cui miriamo, pure l’indole delle piaghe che abbiam dovuto svolgere e toccar con mano ci ha costretti a scendere in alcune particolarità che potrebbero giustamente adombrare la schifiltà di quelle persone che per la loro età, pel loro sesso, pel loro carattere o peloro principi non ebbero mai o non possono mai avere il più lontano contatto colle classi pericolose della società. Questo libro non è per essi: la nostra speranza è che sia letto e propagato tra le classi medesime, di cui ci occupiamo, e verso le quali non abbiamo che un sentimento di profonda commiserazione e un desiderio vivissimo di cooperare, al salutare ritorno di qualcuno di questi miseri nel seno degli onesti e nelle ordinarie condizioni della vita sociale, da cui si trovano oggidì segregati ed espulsi.

    I fatti su cui si appoggiano i nostri studi storici sono, la maggior parte, veri: i particolari che diamo su i costumi, su le pratiche, sul linguaggio di queste classi sono esattissimi, perciocchè, vincendo la ripugnanza che c’ispiravano i luoghi più abbietti, abbiam voluto studiarli da vicino, per offrirne un quadro sincero, comechè sempre velato da quel santo pudore che le lettere non debbono mai abbandonare.

    I personaggi che figurano in questi nostri racconti sono la maggior parte esistenti; ma i loro nomi sono nascosti dallo pseudonimo, tranne quando abbiamo avuto a lodare le virtù di qualche egregio, nel qual caso ci siam permesso di additarlo alla pubblica stima. Della più parte di questi personaggi abbiam ritenuto il linguaggio caratteristico per rendere questa lettura più svariata e originale.

    Noi avevamo concepita quest’opera molto innanzi che fosse venuto a luce il libro stupendo de’ Miserabili di Vittor Hugo. Confessiamo che la lettura di questo ammirabile lavoro del romanziere francese ci avrebbe scoraggiati dallo intraprendere il nostro, qualora non ci fossimo avveduti della differenza della indole dell’opera, differenza che i nostri lettori rileveranno di per sè, dove attentamente si facciano a leggerci. Nel resto, non bisogna mai diffidare delle proprie forze quando si ha in vista, non un titolo di vanagloria, ma uno scopo utile e morale, e il bene de’ proprii concittadini.

    Da ultimo, sentiamo l’obbligo di rendere le debite grazie a quelli tra i pubblici funzionari che ci sono stati benigni d’indagini e di notizie in questo scabroso lavoro.

    F. M.

    PRIMA PIAGA

    L’ OZIO

    PARTE PRIMA

    LA CAMORRA ELEGANTE

    I

    A POSILLIPO

    … Una sera, io dovea rivedere i miei amici al Caffè d’Europa, verso le dieci. Mi servo di questo nome di amici, nella comune significazione in cui tal voce suol prendersi. Io non sono nè ottimista nè pessimista su questo genere di roba. Quelli che sognano le amicizie spirituali, eterne miniere di sacrifici e di annegazione, vadano a pescar gli amici in qualche altro pianeta, giacchè nel nostro bisogna contentarsi di un poco di buon cuore e di qualche servizio prestato opportunamente.

    Senza palesare lo scopo che io mi prefiggeva, avea pregato il mio amico Augusto di menarmi da Madama Antonetta, dopo una cenetta che intendevamo fare a Posillipo.

    Era la luna piena del mese di luglio, del 1858, se non isbaglio. D’altra parte, che importa al mondo se sia stato nel 58 o nel 59 la notte in cui raccolsi nel mio taccuino non poche particolarità per questo libro, il cui embrione io avea da gran tempo concepito nel mio pensiero? Importa però sapere che nel 1858 noi altri poveri Napolitani, segregati dal resto del mondo da un muro cinese, o, per dir meglio, da un muro napolitano, che era assai più fitto di quello che segregava il Celeste Impero prima delle guerre con l’Inghilterra, non avevamo altro bene che la luna piena, il nostro bel cielo e Posillipo, tre creature del buon Dio che la polizia non avea messe ancora nell’elenco degli attendibili. Or dunque, nell’anno di grazia 1858, il governo partenopeo ci concedeva limitata libertà di guardare la luna piena, ed anco di abbaiare ad essa se ce ne prendea vaghezza, di mangiare i nastrini o i vermicelli al succo di pomidoro, e di respirare le aure di Posillipo, tenendoci pertanto a rispettosa distanza da certi siti che aveano l’onore di essere annotati nella scrivania del direttore o del prefetto di polizia; e tra questi siti erano pur di quelli che erano vergati nel mio taccuino.

    Alle dieci in punto io trovai i miei tre amici al Caffè d’Europa, in quella torre di Babelle piantata tra Toledo e Chiaia, dove convengono la sera tutti gli sfaccendati del bel mondo e tutti i forestieri che han voluto veder Napoli e poi morire, Permettete che io vi presenti i miei tre amici, e contentatevi che ve li presenti co’ soli loro nomi di battesimo, giacchè la loro modestia mi vieta di svelarne i cognomi, tra cui è qualcuno che difficilmente potreste pronunziare senza sapere il tedesco.

    E primamente, eccovi il signor Augusto….. Egli era tornato da pochi mesi da un terzo viaggio che avea fatto in Germania per raccogliere l’eredità di un suo zio… Augusto è ora un uomo della mia età, e ci conosciamo dacchè entrambi eravamo condannati alla galera della scuola. Quando dico della mia età, è un favore che gli faccio, perchè voglio conservagli tutte le illusioni di che debbe circondarsi un personaggio che per sorte mi capita il primo tra le mani tra i tanti che dovrò presentarvi. In verità, che non ci è il senso comune a toccare quella benedetta quarantina, che è assai peggiore della sessantina, imperciocchè a sessant’anni un uomo si accorge che si è fatto vecchio, e buona sera, non ci pensa più, si mette l’animo in pace, si veste di flanella, si persuade che il genere femminile non ha nulla più di comune con lui, si converte colla moglie a cui delega l’ufficio d’infermiera, si diverte a far della morale, come dicono i francesi, che trattano ogni più santa cosa come se fosse pasticceria, e si apparecchia a dire il famoso Je m’en vais ou je m’en vas dell’accademico Desmarais. Ma un uomo a quarant’anni, nel mezzo della nostra così detta civil società, è un animale anfibio, mezzo pesce e mezzo becco, anzi è un vero mollusco, cui Buffon s’imbroglierebbe a trovare un posto assegnato ne’ tre regni della natura. Un uomo a 40 anni è nato troppo presto o troppo tardi, è giovine e vecchio al tempo stesso, onde una lotta perpetua è in lui tra i bisogni della gioventù e quelli della vecchiezza: spesso una pancia ribelle a’ corpetti tradisce gli otto lustri di servizio digestivo, e gl’rimpedisce di ballare con islancio il valzero o la polca: il ridicolo il circonda da ogni parte; e se egli non è più che sennato e accorto può inciamparvi ad ogni passo; se è ammogliato, i suoi quarant’anni non lo salvano nè dalle gelosie nè da’ furori uterini della consorte; se è celibe e ricco, sarà assediato dal magnetismo di tutte le zitelle che han passato i 30, e che dicono voler fare un matrimonio basato; se è celibe e povero, è bello e spedito per questo mondo.

    Panni con queste chiacchiere aver commesso l’indiscrezione di dirvi l’età del mio amico e coetaneo Augusto. Non monta! Egli ha tanto spirito da non affliggersi de’ suoi quarant’anni; anzi ei suol dire che comincia a diventare rispettabile, aggettivo che egli non avrebbe potuto mai sperare per le qualità del suo carattere. Vi ho detto che Augusto era stato mio compagno di catena alla scuola dell’Abate V….., d’imprecata memoria. A proposito di scuole, mi ricordo che, a mo’ di celia, egli solea dirmi: Sapresti indicarmi chi fu l’inventore delle pubbliche scuole? Ho sfogliato tutti’i repertorii di invenzioni e scoperte; ho rovistato in tutt’i dizionari delle origini; ho fatto le più minute ricerche ne’ libri che trattano de’ famosi scellerati; ho letto attentamente la storia de’ Delitti Celebri; speravo di trovarlo in qualcuna delle bolge di Dante; ma il nome di questo malfattore si è involato alle mie particolari maledizioni ed a quelle di tutti gl’infelici vertebrati che hanno, al pari di me, sofferto in questi lazzaretti che si addimandano scuole la tormentosa quarantena, che si espia pria di entrare nel regno della vita umana.

    Augusto ed io avevamo una dichiarata antipatia pel Portoreale, per Torquato Tasso (ce lo perdoni il gran poeta), per le favole di Fedro, eccetto per quelle che il maestro ci facea saltare come immorali e che Augusto traduceva subito con una invidiabile facilità, per le matematiche e pel professore D. Andrea, che era egli stesso un problema vivente, per l’arimmetica che ci sembrava una scienza da servi, da cocchieri e da cuochi, e presso a poco per tutto lo scibile sotto forma di libri che ci si volea far tranguggiare a furia di spalmate e di digiuni. Questa antipatia che entrambi avevamo spiegata contro il maestro, i professori ed i libri, ci avvicinò per un sentimento opposto di simpatia tra noi: ci comprendemmo, ci sedemmo l’uno a fianco dell’altro su la stessa panchetta, e ci giurammo scambievolmente un’alleanza offensiva e difensiva. Non vi dirò di quel che facemmo ne’ cinque o sei anni che piacque a’ nostri genitori di tenerci su quel pontone. Non patì volontariamente tanti digiuni S. Erasmo l’anacoreta quanti ne patimmo noi due per volontà dell’Abate V…, del professore D. Andrea ed anco un poco per l’Autore della Gerusalemme Liberata. Oh quante volte maledicemmo a Goffredo Buglione, ad Olindo e Sofronia, a Tancredi ed Erminia Io non so, diceva Augusto, quello che ci guadagnarono i nostri genitori nel tenerci dieci anni alla scuola, tranne che non avessero avuto in animo di farci scontare la bestialità che essi aveano fatta di metterci al mondo, senza prima interrogarci. Il fatto è che Augusto uscì da quella galera a 14 anni, bestia al completo, ed io a quindeci, senz’altro corredo di cognizioni che quelle di umanità che avevamo imparate auricolarmente dagli stessi nostri compagni.

    Augusto era uscito di scuola prima di me. Suo padre, nativo del granducato di Baden, esercitava in Napoli il commercio di gioielliere, di orafo, di oriuolaio; era ricco, e si era ficcato in testa che un uomo non possa essere uomo senza una buona dose di lingua latina in corpo: avea mandato il figliuolo dallo Abate V… per fargli apparare questa lingua e l’abbaco: sarebbe stato felice se il piccolo Augusto avesse parlato il latino come egli parlava il tedesco; ma Augusto parlava invece il dialetto napolitano in tutta la sua purezza e con tutta quella estesa fraseologia immaginosa ed erotica per cui si distinguono i nostri popolani.

    Dopo che Augusto uscì di scuola, ci vedevamo quasi ogni giorno. Suo padre, disperato che il figliuolo non aveva apparato la lingua di Cicerone e di Virgilio, il tolse addirittura agli studi, ed il pose appresso a se per addestrarlo nel suo medesimo mestiero. Il giovanotto mostrò tanta antipatia pel mestiere del padre quanta ne avea mostrata pe’ libri; ma la natura gli avea fatto dono di molta sottigliezza di spirito e, quel che forse vale più nel mondo, d’una bella persona e di una salute da sfidare tutte le regole dell’igiene. Egli solea dire che, quando Parzanese scrisse il Tutti portan la croce quaggiù, non aveva avuto il bene di conoscer lui. Imperciocchè, dopo il purgatorio che egli aveva sofferto alla scuola, non aveva portato per 25 o 26 anni altre croci che quelle incise su i pezzi da tre carlini della vecchia moneta napolitana. E soggiungeva che si nasce felice o infelice, come si nasce maschio o femmina, bello o brutto, biondo o bruno. Si nasce col bitorzolo della felicità o della sventura.

    Augusto ha oggi quarant’anni; ma voi non gliene dareste neppur trenta, tanto è fresco, vispo, vigoroso; i suoi capelli e la sua barba sono di un ebano invidiabile; la sua faccia è sempre rosea; il suo appetito è sempre uguale, bulimico, benchè fumi più di venti sigari al giorno. E si ha il coraggio di dire che i sigari offendono i nervi dello stomaco! Non mi ricordo che Augusto sia stato mai ammalato, mentre non ci è uomo al mondo che abbia fatto e faccia più spropositi di lui: egli fa la berta a’ medici, e dichiara colla maggiore impudente sicurezza che non darà loro un quattrino in sua vita; ed io sono dispostissimo a credere a questo suo buon volere. Il numero delle innamorate di Augusto è stato così esorbitante e favoloso ch’egli dice, con molto fondamento di verità, di aver lui posseduto il cuore d’un buon terzo della popolazione donnesca di Napoli e dintorni; ed una volta gli accadde di dichiararsi ad una donna, colla quale era stato cinque anni innanzi in intrinsecre amorose relazioni soltanto per quindeci giorni: egli avea completamente obbliato le sembianze di lei, e credeva di averla veduta per la prima volta; nel quale inganno sarebbe certamente vivuto, se la giovine non si fosse affrettata, forse senza volerlo, a richiamarsegli alla memoria. Quando io gli domando come ha fatto per non inciampare ad ammogliarsi tra tanti scogli e sirti, o, meglio, tra tante affettatrici sirene, egli suol rispondermi che il suo cuore ha fatto come il sole, il quale tutto anima riscalda ravviva e feconda, ma non si attacca mai a niente.

    Augusto, pria della morte di suo zio, possedeva una rendita di oltre duecento piastre al mese; oggi che ha avuto la disgrazia di perdere l’amatissimo fratello di suo padre, morto a Carlsrue, e che egli non vide mai in vita sua, oggi l’afflittissimo nipote ha aggiunto alla sua rendita mensuale un altro paio di centinaja di piastre. Unico di sua casa, libero, indipendente, ricco, di ottima salute, di spirito arguto e concettoso, Augusto non ha mai capito perchè il mondo si chiami una valle di lagrime. Bisogna pertanto aggiungere in onor suo che, con tutta questa felicità in corpo che dovrebbe renderlo insensibile a’ mali altrui, Augusto ha un cuore compassionevole e talvolta pur generoso quando si tocchi un poco sulla sua vanità. Oggi Augusto non ha altri parenti che un’altra zia pur dimorante nel Granducato di Baden, vecchia zitella e straricca, che l’affezionato nipote non andò neanco a visitare quando si trovò a Carlsrue. E’ un altro bocconcino di felicità che la morte gli apparecchia.

    Ed eccovi presentato pel primo il più vecchio de’ miei amici, al quale ho dovuto usare questa preferenza per que’ riguardi che si usano ad un amico che è stato per molto tempo fuori del suo paese.

    Ora eccovi in secondo luogo il mio Federico… Chi noi conosce? Dalla Villa Majo su l’Infrascata fino alle Fosse del Grano, da Montesanto fino al Caffè di Nocera al Mercatello, Federico… è conosciuto da tutti gli ottantamila abitanti della sezione Avvocata! Basta aver veduto, o, per dir meglio, basta aver inteso a parlare Federico una volta sola, per non dimenticarlo mai più, giacchè la sua voce altisonante vi rimarrà nei meati dello orecchio per tutta la vostra vita. Se voi siete nella piazza di Tarsia, sentirete la voce di Federico che parla sul Piede di S. Anna; se siete a Toledo, nonostante il rumore di questa strada, lo sentirete dalla Piazza del Mercatello. Federico non è propriamente quel che dicesi un originale, ma è un tipo sui generis:suo padre e sua madre meriterebbero un brevetto d’invenzione. Egli è un giovine di circa trent’anni, con una ventina di peli sul mento i quali figurano un moscone e con altrettanti su i due lati del labbro superiore rappresentanti il simulacro di un paio di baffi. Tutto anima, tutto cuore, dà del tu al primo con cui si avviene a parlare, lo afferra pel braccio e, non ci è caso, lo strascina per forza a far secolui colezione,… beninteso in un certo caffè dove egli spende a parola; onde, talvolta fa fare a’ suoi amici un miglio di cammino per far loro complimento di una tazza di caffè; e i suoi amici, che non conoscono appuntino le ragioni di certe cose, fanno le più grandi maraviglie nel vedere che egli preferisca di entrare in un caffè di poco lusinghevole apparenza, mentre sarà passato dinanzi ai più splendidi ed accorsati caffè di Toledo. Federico è un modesto applicato, le cui uniche speranze sono fondate sul nuovo organico. Con 34 lire al mese di soldo, menò all’altare una vittima, per non dire, una moglie, che per tutta dote gli regalò una figliuola dopo il termine legittimo di mesi nove, e Federico si credè felice nell’esser padre, benchè avesse anzi desiderato un maschio che una femmina. Tra i guai che lo perseguitano, tra cui bisogna porre un appetito straordinario, ci è la parte di giovane allegro e spiritoso che egli sostiene con molto buon successo nelle brigate, e che il mette nella necessità di non esser mai di malumore anche quando si trova nello stato di un sorcio da sagrestia. Federico ha pertanto un cuore che è un gioiello; il suo borsellino, quando non è floscio, è a disposizione di tutti gli amici; il che vuol dire, a un dipresso, di tutti gli abitanti del suo quartiere. Federico ha prontezza di spirito e ingegno non comune; racconta con facilità e piacevolezza graziosi anneddoti e fatterelli, ed ha l’arte di snebbiar la fronte di un Eraclito.

    Vi presento in terzo luogo il giovine letterato Eduardo Avrete letto il suo nome in parecchie effemeridi della nostra città, nelle quali scrive per lo più articoli umoristici con molto brio e spontaneità. E’ un giovine a 27 anni, appartenente a patrizia famiglia napolitana; è celibe, e dice di non essersi ammogliato perchè non ha trovato ancora l’anima gemella: ha passato a rassegna le cinquantamila zitelle partenopee, e nessun’anima in crinoline ha risposto all’appello: si è rivolto in ispecialità alle fanciulle che hanno un lungo naso, sperando che l’anima gemella si ascondesse sotto questo punto di somiglianza con quel membro del suo corpo. Un giorno Eduardo credette aver trovato il fatto suo; si era imbattuto in una fanciulla di onesta ed agiata famiglia: l’anima gemella parea si fosse appalesata fin dalle prime occhiate che egli scambiò con lei: era la virtù più austera, più puritana; la mammà dicea che la figliuola non avea mai levato gli occhi addosso ad un uomo, e specialmente a quelli che aveano come lui un etmoidèo assai prolungato nel mezzo della faccia; esser lui cascato proprio sovra una rara eccezione a’ dì nostri che l’immoralità si poppa col latte materno (e in questo la mamma diceva il vero), non aver la ragazza malizia alcuna, tanto che si facea baciare e baciava in ricambio il cuoco e il cocchiere, che la trattavano come una bimba di sei anni. Eduardo fu preso all’amo di queste lunatiche virtù, e promise solennemente impalmare la colomba tra un anno. Si aggiustò l’articolo dote; ci furono i soliti officiosi abboccamenti tra i rispettivi genitori, i quali si accordarono pienamente, e si apparecchiavano ad alzar le mani per benedire, allorchè, alquanti mesi pria del tempo fissato alla sospirata unione, la mamma della colomba fece una scoverta, che fu come una specie dell’uovo di Cristoforo Colombo. Ci fu chiasso, subuglio, ira del cielo: furono mandati via il cuoco e il cocchiere; e Eduardo, a cui una vicina officiosa avea rivelata la scoperta fatta dalla madre della sua fidanzata, fuggi per sempre da quella casa, pensando da uomo di senno che se la colomba si trovava in uno stato interessante, ciò non poteva interessar che lei, la quale forse avea trovato l’anima gemella nel corpo del cocchiere o del cuoco.

    Eran questi i tre amici co’ quali mi ritrovai nel Caffè d’Europa in quella sera di luglio. Riabbracciammo Augusto con vera espansione di cuore; lo assediammo d’interrogazioni; e fu un fuoco di fila di epigrammi che non finivano mai. Augusto parea tornato più giovane e più bello; una barba nera come il velluto facea più spiccare il fresco e roseo suo volto che non era stato giammai annebbiato da tristi pensieri o da cure moleste.

    — Amici miei, egli ci disse, Voltaire avea ragione di scrivere che chiunque non ha visto che il proprio paese non ha letto che il frontespizio della vita. Bisogna uscire per vivere; i funghi sono attaccati alla pianta su cui son nati, gli alberi al suolo in cui sono abbarbicati, i licheni alle pietre su cui crescono, i vermi alla putredine donde son nati; ma gli uomini si hanno da muovere, e non ci è paura che si urtino tra loro su questa spaziosa palla che chiamasi mondo. Noi altri Napolitani crediamo che il finis terrae (vedete che ho fatto qualche progresso nella lingua latina) sia Porta Nolana o la punta di Posillipo: abbiamo paura di muoverci come i bimbi usciti di fresco dal cestino o dalle falde: si direbbe che siamo peritanti di sdrucciolare su questa palla del mondo, ovvero si direbbe che temiamo, usciti fuori del nostro natio luogo, di non trovare bastante azoto od ossigeno nell’aria. I forestieri dicono Vedi Napoli e poi muori; noi altri napolitani diciamo Rimani a Napoli finchè muori. Amici miei, bisogna veder Parigi, Londra, la Svizzera, la Germania per imparare un poco a vivere. Noi qui stiamo, scusate, all’arrière-ban de’ popoli civilizzati. Parigi, o cara Parigi, oh se riavessi i miei venti anni! Abbiate venti anni, una buona salute, e duecento piastre di rendita al mese, e vivete a Parigi. Voi non avrete il tempo di respirare per dare udienza a tutt’i piaceri che vi assediano. Io per me penso che altrove forse si pensa, si cammina, si mangia, si dorme, si piange o si ride, si fa all’amore e si fanno figli, ma solo a Parigi si vive. Con venti o trent’anni in corpo, con mille napoleoni in saccoccia, voi non dovete far altro che vous laisser vivre, come dicono que’ cari nasini all’aria. A proposito di donne, io mi faccio eremita perchè tutte le donne di quì mi parranno d’ora in poi tante macchinette più o meno graziose, ma sempre macchinette ottime solo a propagar la razza…

    Qui Federico, Eduardo ed io ci levammo furibondi per prendere le difese delle Napolitane.

    — Basta, basta! gridò Federico con quella sua voce di venditore ambulante, che attirò l’attenzione di tutti quelli che erano nel Caffè — or non toccarmi le donne del mio paese, se non vuoi ch’io ti rimbecchi le parole. Che le francesi e massime le parigine abbiano spirito, sveltezza, gusto e civetteria, nissuno tel contrasta; ma io non isposerei una di quelle donne neppure se mi desse la fortuna d’un Rothschild. Non è vero, M….?

    Io mi accingevo a porre il mio parere, quando Eduardo mi chiuse la bocca.

    — M…., egli disse, non può fare da giudice in questa materia; l’autore del Federico Lennois è troppo severo giudice contro tutto ciò che è francese.

    — Ammiro i pregi particolari di ogni nazione, io risposi con pacatezza, ma non estimo e lodo che la virtù e l’ingegno.

    — Per carità, lasciamo da banda la morale, esclamò Augusto gittandoci in faccia un buffone di fumo di Avana; io per me non conosco altra morale che quella di non far male a nessuno e di godermi di tutt’i beni che Domineddio ha messo a mia disposizione.

    — Tu sei un Epicureo nel midollo delle ossa, disse Eduardo.

    — E buon pro gli faccia! gridò Federico. Avessi anch’io i mezzi di esserlo, affè mia che non mi farei pregare!

    Non voglio tediare il lettore con tutte le altre sciocchezze che furono eruttate, le quali, per buona sorte, si dissiparono unitamente a’ vortici di tabacco vaporizzato che accompagnavano le parole.

    Alle undeci uscimmo dal Caffè, facemmo avvicinare una carrozza da nolo, vi montammo, e Augusto disse al cocchiere:

    — A Posillipo.

    I due cavalli si posero in moto per istrascinare quattro fumaiuoli animati.

    Ma quella sera noi eravamo più disposti ad ammirare e saggiare i prodotti della natura anzi che a contemplarne le bellezze. Avevamo tutti e quattro una fame degna di Posillipo; nè nessuno di noi facea parte di qualche società di continenza e di sobrietà; onde lascio all’alacrità della vostra immaginazione tutto il campo delle congetture gastronomiche. Non adulerò nessun di noi dicendo che sarebbe stato assai malagevol cosa il decretare il primato all’uno più che all’altro. Trasformammo in chilo quaranta franchi della repubblica francese, di quella gloriosa repubblica che trasformò in governo clericale un’altra repubblica. Non ci è che dire! Tutto si trasforma quaggiù! La natura non fa che trasformarsi continuamente: si direbbe che avesse preso lezioni da qualche uomo politico de’ nostri tempi.

    Ci ponemmo a cena alla mezza dopo la mezzanotte, e ci levammo alle due in punto. Quando dico che ci levammo è una maniera di dire, giacchè intendo che si sparecchiò; e noi rimanemmo a’ nostri posti, che non parea che avessimo l’intenzione di abbandonare, neppure se avessimo sentito traballarci sotto il suolo per tremuoto.

    — Ecco, esclamò Federico gesteggiando come un attore, — abbiamo innanzi a noi questo seno di mare che Dio creò nel parosismo del suo secondo amore, giacchè Dante disse che nel primo amore creò l’inferno, ed in questo ci accordiamo perfettamente. Questo seno di mare rischiarato dalla luna piena, nelle chete ore d’una notte di luglio, e contemplato tra i vapori dello sciampagna e i vortici di un buon sigaro napolitano, questo seno di mare che ha fatto ingoiare tante vongole e consumare tanti calamari, questo seno di mare che ha fatto scrivere tante corbellerie, sta innanzi a noi con quella stessa beffarda indifferenza onde una bella donna, avvezza da lunga pezza alle adorazioni, sta innanzi ad un imbecille che si limita ad ammirarla senza dirle niente.

    — Abbiamo ammirato abbastanza la luna, le stelle ed il mare, esclamò Augusto alzandosi e traballando, andiamo a passare una mezz’ora da Madama Antonetta, a cui debbo presentare il nostro M….

    — Alle due e mezzo! disse Federico maravigliato di quella proposto.

    — Appunto l’ora più allegra della serata. Vedrai, caro M…., una scelta compagnia: si giuoca al zecchinette, si beve la birra, il cognac, il curacao, il kirschwasser, si fuma fino all’asfissia e si fa l’amore con molta comodità. Da Madama Antonetta si vive bene da mezzanotte in poi. Si capisce che que’ poveri diavoli che han da lavorare il giorno appresso non ci vanno a passar la notte. Da Madama Antonetta non vanno che i beati figli dello ozio come me, i quali possono starsene in letto fino al tramonto del dì seguente…

    — E dove abita Madama Antonetta? dimandò Federico, la cui voce altisonante era alquanto annebbiata da’ fumi dello sciampagna bevuto senza troppo numerare le libagioni.

    — Qui presso al casino di Anzelotti.

    Ragionando o, per dir meglio, sragionando su molti altri subbietti, toccammo

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