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Una fra tante
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E-book150 pagine2 ore

Una fra tante

Di Emma

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Letteratura - romanzo (120 pagine) - Un romanzo amaro che però lascia un ottimo sapore in bocca, grazie allo stile potente con cui viene raccontata la sciagurata vicenda di una schiava del sesso capace di ribellarsi alla violenza di un’intera società che sembra allearsi contro i deboli per illudersi di essere forte.


Nessuna volgarità ha diritto di entrare in un’opera di denuncia, in cui non c’è spazio per descrizioni piccanti e allusioni voluttuose, ma solo per la rappresentazione dei pidocchi brulicanti nelle pestilenziali cancrene nascoste sotto le parrucche imbellettate. Il contrasto tra il candore della protagonista e il putridume che la circonda e cerca, nonostante tutto, di contaminarla, è la cifra narrativa di un romanzo ottocentesco (fu pubblicato nel 1878) che si proietta già nel panorama primonovecentesco. Teatro della vicenda Lei, la Milano postunitaria tra luci e ombre, indiscussa catalizzatrice di affari, puliti e sporchi. Un testo che provoca indignazione anche nei lettori di oggi, perché le tematiche affrontate – l’ingiustizia sociale, l’ipocrisia, l’indifferenza, l’egoismo dilagante – sono più che mai attuali. E si ha come la sensazione che sotto gli imperiosi grattacieli di CityLife o Piazza Gae Aulenti pulsino ancora le ossa inquiete delle vittime del trionfo borghese.


Su Emma, nom de plume di Emilia Ferretti Viola (Milano, 1844 – Roma, 1929), le notizie sono scarne: appartenente alla buona società meneghina, ricevette un’istruzione di alto livello (tra le altre cose, pare conoscesse ben tre lingue straniere: inglese, tedesco e francese) che le permise di collaborare con il prestigioso periodico fiorentino “Nuova Antologia”, prima come ghostwriter, poi firmando recensioni e articoli di critica letteraria e infine rivestendo importanti mansioni organizzative, non ultima la redazione del Bollettino Bibliografico. Oltre a dedicarsi alla pittura, scrisse vari racconti e romanzi (La leggenda di Valfreda, 1877; Le mediocrità; 1881; La messa a Psiche, 1892), tra i quali fece particolare successo (e scandalo) Una fra tante (1878), dedicato al mondo della prostituzione. Una lunga malattia le impedì per anni di scrivere e, una volta guarita, trovò un panorama editoriale tanto trasformato da indurla ad allontanarsene definitivamente. Dimenticata per molto tempo, negli ultimi anni si registra un risveglio dell’interesse per Emma, oggi ancora timido, ma destinato (ci auguriamo) a irrobustirsi.

LinguaItaliano
Data di uscita1 giu 2021
ISBN9788825416527

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    Anteprima del libro

    Una fra tante - Emma

    irrobustirsi.

    Introduzione

    di Milena Contini

    Ancora un libro dedicato all’abnorme e putrescente ascesso della prostituzione. Perché? Non certo per appagare la prouderie dei lettori sempre desiderosi di scandalizzarsi, ma per testimoniare come l’osservazione del microcosmo postribolare consenta di mettere a nudo le deformità di un’intera società. Questa volta a impugnare la penna con indignazione è una donna, Emilia Ferretti Viola, meglio nota con lo pseudonimo di Emma (Milano, 1844 – Roma, 1929), che, nonostante venga rappresentata da molti come un’antesignana del femminismo italiano, aveva aspirazioni letterarie più che politiche. Siamo nel 1877 e l’autrice giura di essersi ispirata a un avvenimento realmente accaduto. Che siano vere o no le sue assertive dichiarazioni preliminari (Il fatto che narro in questo libro è un fatto vero. E chi, se non fosse vero, l’avrebbe voluto scrivere?) a noi poco importa, quello che ci interessa davvero infatti è la potenza espressiva con cui viene raccontata la storia di Barberina, povera contadina ghermita dagli artigli di una spietata metropoli chiamata X, ma dietro la quale non è difficile ravvisare la pulsante e rapace Milano postunitaria. Una città che la Ferretti Viola conosceva molto bene, come si evince dalle asciutte e al contempo ficcanti descrizioni dei quartieri alti come della disordinata periferia (quelle case alte e oscure, che si facevan ombra tra loro, consumandosi a vicenda la luce e l’aria).

    Certo, risulta quasi ossimorico il fatto che una trentatreenne proveniente da una famiglia bene decida di brandire la sferza moralizzatrice, senza timore di incespicare nelle immondizie morali della propria città, e poi si firmi con un nom de plume che strizza l’occhio a Madame Bovary, emblema della donna fedifraga e meschina, ma forse (e sottolineo forse) solo a una narratrice che conosce il mondo sarebbe stato possibile descrivere la descente aux enfers della protagonista. Ecco, focalizziamo la nostra attenzione sull’eroina del romanzo: Barberina, nonostante il nome di sapore piratesco, di esotico non ha proprio nulla, anzi, prima della partenza per il servizio presso una rispettabile casa milanese, quando si trova ancora nella sua campagna, non è altro che un coacervo di candore e placida semplicità, quasi una Heidi ante litteram. Ad aspettare Barberina in città non troveremo però, purtroppo, nessuna signorina Rottermeier, ma una serie infinita di personaggi meschini, abietti e perfino diabolici, dalla padrona, che parte alla chetichella con la famiglia dopo il fallimento del marito, abbandonandola in ospedale, all’infida mezzana fino alla tenutaria del bordello (dove la ragazza viene condotta con l’inganno), vera rivisitazione romanzesca delle streghe malvage di tradizione fiabesca.

    E poi non può essere taciuto un personaggio minore che compare solo in qualche paginetta, ma risulta davvero indimenticabile nella sua turpitudine: Giustina, la sguattera tredicenne della mezzana. Creatura grottesca, inquietante e a tratti demoniaca, anima decomposta prima ancora di sbocciare, sembra un misto tra uno spiritello infernale, una malata di mente e un animale domestico cresciuto allo stato selvatico: della bambina non aveva che la statura e le forme; il viso e il tratto erano di donna. Le si leggeva nel volto il desiderio del vizio, l’abitudine del soffrire, il bisogno fisico e morale di viver male, e nello stesso tempo un’insofferenza, un’ira nascosta per il dolore e le privazioni che portava seco il vivere in tutta quella miseria del corpo e della mente, miseria che l’avvolgeva e la soffocava ancor prima che avesse finito di crescere. La descrizione della scena in cui Giustina segue con lo sguardo la propria padrona e la ragazza maledicendole ([la] triste gioia che le balenava nel volto sfacciato e maligno, mentre, facendo le corna alla vecchia e alla Barberina, rideva sgangheratamente) è degna dei migliori film horror dedicati agli istituti manicomiali. Come anche memorabili nella loro vocazione quasi splatter sono le pagine dedicate al primo ricovero in ospedale di Barberina, in cui l’abbruttimento dei corpi infetti è amplificato da un pattume esistenziale che non può essere sanificato nemmeno dal più efficace dei disinfettanti.

    Magistrale è il ritmo della narrazione che, senza fretta, ci accompagna lungo il tragico cammino di Barberina, vittima assoluta della propria ingenuità. Si evince fin dalle prime pagine dove rotolerà la sciagurata esistenza della protagonista, eppure, con un sapiente uso della suspense, Emma ci tiene incollati alla pagina, facendoci sperare fino all’ultimo che la fanciulla non varchi nuovamente la soglia della casa di tolleranza. Il testo ha tutta l’aria di un romanzo di formazione in cui la timida, ignorante e candida campagnola scopre le brutture del corrotto mondo cittadino, quasi un’ode al bon sauvage di rousseauiana memoria, ma c’è molto di più. Barberina all’inizio della vicenda sembra totalmente sprovvista di volontà e si mostra capace solo di chinare la fronte e ubbidire ciecamente ai genitori, come fosse un capo di bestiame di loro proprietà (Si ricordò allora delle pecore che il babbo conduceva al mercato, le quali tornavano segnate di rosso o di turchino da chi l’aveva comprate; e le parve di dover avere anch’essa in qualche parte del corpo un segno simile a quello delle pecore, che indicasse come ella non apparteneva più alla famiglia sua, alla mandra, alla valle), mentre nel prosieguo della narrazione scopre di sapere non tanto quello che vuole, ma sicuramente quello che non vuole e lotta con tutte le proprie forze contro il giogo della depravazione. La volontà, però, non basta, ci dice Emma, facendo precipitare nella fogna maleodorante della metropoli il mito rinascimentale dell’homo faber fortunae suae: per sfuggire al male e realizzarsi ci vuole quel famigerato sostantivo con la c e l’aiuto di persone generose e caritatevoli. La lotta tra il bene e il male non si combatte quindi nell’animo della ragazza (che nemmeno per un secondo cede alle lusinghe della libidine e del lusso), ma tra le strade di Milano: i buoni da una parte e i cattivi dall’altra, gli uni contro gli altri armati come in certi affreschi medievali raffiguranti l’Apocalisse. Chi vincerà? Lascio tale scoperta ai lettori.

    Il vero protagonista negativo del romanzo non coincide però con la mezzana che cattura Barberina, con la maîtresse che la vuole schiavizzare e nemmeno con gli uomini che la stuprano in gruppo facendola ammalare e quasi morire, ma si identifica con l’egoismo. Questo è il mostro che mastica e sputa le vittime innocenti del sistema. La maggior parte dei personaggi dell’opera riesce, infatti, a pensare solo al proprio orticello, fregandosene delle sciagure altrui, senza rendersi conto di alimentare il circolo vizioso del male che, prima o poi, agguanterà anche i carnefici, trasformandoli in oppressi. La prostituzione, quindi, si riduce quasi a epifenomeno in confronto alla miseria morale dilagante in ogni ambito dell’esistenza. Non si tratta di perbenismo d’accatto, ma di una denuncia contro l’ipocrisia urlata a squarciagola da una coraggiosa donna dell’Ottocento: Se v’ha cosa ancor più brutta di questa vergogna sociale, così com’ella esiste ora fra noi, è forse la triste ipocrisia con la quale la società sprezza il male che ha fatto da sé.

    Mi si permetta infine una rapida polemica: in più di una presentazione di Una fra tante mi è capitato di imbattermi in frasi come intense e indimenticabili le pagine dello stupro collettivo subito dalla protagonista, peccato che la violenza carnale non viene minimamente descritta, ma si allude solo al fatto, seguendo la logica del show, don't tell. C’è un preciso stacco tra l’entrata dei tre eredi di Tereo nella stanza di Barberina e le strazianti grida della giovane delirante, devastata nel corpo e nell’anima per l’osceno sopruso subito. Forse converrebbe leggere i libri, prima di presentarli al pubblico…

    Nota introduttiva

    Il fatto che narro in questo libro è un fatto vero.

    E chi, se non fosse vero, l’avrebbe voluto scrivere?

    Quando giunse a mia notizia, provai subito con l’indignazione e il dolore che esso suscitò in me, l’impulso di raccontarlo, di denunciarlo a tutti. Ma poi esitai. Una falsa vergogna, una ripugnanza quasi insuperabile mi tratteneva. La smisi soltanto quando accingendomi di nuovo a idear novelle e volgendo il pensiero alle opere della fantasia, provai in me un’altra vergogna e un’altra ripugnanza le quali contrastavano singolarmente con quelle di prima.

    Sentiva che non era più possibile, sapendo quel fatto, di negare alla triste verità il suo diritto di precedenza di fronte alle mie fiabe.

    E il mio primo impulso prevalse.

    E spero che in avvenire anche quando fosse più vivo e fervido il lavoro della mia immaginazione, quando mi apparisse più seducente e cara un’immagine della mia fantasia, mi basti però sempre l’animo di cacciarli lontano, qualora accanto a lei mi si presenti triste, miserabile o anche ributtante la sembianza di cosa vera cui l’umile penna della scrittrice di fiabe possa giovare.

    Firenze, 15 dicembre 1877.

    Emma

    Capitolo primo

    Barberina aveva sedici anni quando venne in X, una delle principali città d’Italia, per entrar al servizio di una famiglia d’agiati commercianti.

    Era fresca e robusta, timida come una signorina appena uscita di convento, ignorante come le pecore e le capre che aveva portato a pascere per tanti anni nei monti ove era nata.

    Essa esciva dalle valli solitarie delle sue montagne, come l’educanda esce dalle mura del chiostro: ingenua, vergognosa, maravigliandosi di tutto e di tutti. Anch’essa, come l’educanda, era stata rinchiusa in un breve spazio di terra segregato dal resto del mondo; anch’essa era stata abituata ai lunghi silenzi, alle placide e dolci contemplazioni, e alla monotona disciplina del lavoro.

    Barberina di casa sua era poverissima.

    Essa lo sapeva da un pezzo, perché glielo dicevano i genitori, non perché se ne fosse accorta da sè: aveva già sedici anni e ancora non capiva bene che cosa volesse dire la povertà. Mentre era ancora a casa sua, indovinava che la miseria era cosa che non soltanto la minacciava allora, per la quale pativano e si tormentavano i genitori, ma che era una disgrazia che l’avrebbe sicuramente perseguitata nell’avvenire, ed alla quale non poteva sfuggire in nessun modo.

    Essa non aveva mai patito per il freddo dell’inverno o per il sole cocente dell’estate; la polenta dura e stantia che le davano i genitori aveva sempre bastato al suo gagliardo appetito, e al suo gusto era parsa ognora squisita; il vecchio giaciglio di paglia bastava ai suoi sonni placidi e profondi, e non aveva ancora provato il desiderio di cose migliori. Con la forza viva della giovinezza essa attingeva vigore e salute in tutto ciò che era intorno a lei. Attingeva nell’aria vibrata del monte, nel calore del sole, un piacere di vivere che era fecondo di vita.

    Cresceva come un fiore esposto alla brezza pura e fragrante della montagna. E in quel lusso di natura l’essere povera le sembrava cosa assurda, e non l’intendeva più di quello che l’intendessero i fiori e le pecore della sua mandria.

    Il suo sviluppo intellettuale fu lento.

    Non era provocato artificialmente, ma nasceva spontaneamente in lei per combinarsi poi con quello che era fuori di lei.

    I suoi pensieri si risvegliavano lenti e maravigliati

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