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L'isola di Gaia
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E-book561 pagine8 ore

L'isola di Gaia

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Info su questo ebook

E se tutta la tua vita, tutti i tuoi ricordi, tutto ciò che sei fosse solo un inganno?

Nel ventiduesimo secolo le conseguenze di un improvviso evento catastrofico di portata globale avvenuto pochi anni prima ha alterato profondamente le priorità di nazioni e governi e ha dato una grossa spinta verso un maggiore sviluppo tecnologico, con un particolare interesse verso la conquista dello spazio.
Ma, per quanto l’Agenzia Spaziale Internazionale sia in grado di costruire mezzi sempre più sofisticati per andare ben oltre i confini del sistema solare, ciò che impedisce veramente all’umanità di compiere lunghi viaggi verso altri mondi è la sua stessa natura fisica, perfezionata per vivere sulla Terra, ma inadatta ad affrontare per molti anni le condizioni estreme dello spazio profondo.

Gli scienziati inglesi Gabriel Asbury e sua moglie Elizabeth Caldwell hanno, però, trovato un modo per ovviare a questo problema: migliorare l’Uomo stesso.

“L’isola di Gaia” è ambientato nello stesso universo immaginario di “Deserto rosso”, 35 anni dopo la sua fine, ed è la seconda parte del ciclo di fantascienza dell’Aurora. Nel romanzo sono presenti nuovi personaggi e nuove storie, ma fa una breve apparizione anche qualche vecchia conoscenza.

LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2014
ISBN9781310531279
L'isola di Gaia
Autore

Rita Carla Francesca Monticelli

Note: please scroll down for the English version.Nata a Carbonia nel 1974, Rita Carla Francesca Monticelli vive a Cagliari dal 1993, dove lavora come scrittrice, oltre che traduttrice letteraria e tecnico-scientifica. Laureata in Scienze Biologiche nel 1998, in passato ha ricoperto il ruolo di ricercatrice, tutor e assistente della docente di Ecologia presso il Dipartimento di Biologia Animale ed Ecologia dell’Università degli Studi di Cagliari.Da bambina ha scoperto la fantascienza e da allora è cresciuta con ET, Darth Vader, i replicanti, i Visitors, Johnny 5, Marty McFly, Terminator e tutti gli altri. Il suo interesse per la scienza si è sviluppato di pari passo, portandola, da una parte, a diventare biologa e, dall’altra, a seguire con curiosità l’esplorazione spaziale, in particolare quella del pianeta rosso.Ma soprattutto ama da sempre inventare storie, basate su questi interessi, e ha scoperto che scriverle è il modo più semplice per renderle reali.Tra il 2012 e il 2013 ha pubblicato la serie di fantascienza “Deserto rosso”, composta di quattro libri disponibili sia separatamente che sotto forma di raccolta. Quest’ultimo volume è stato un bestseller Amazon e Kobo in Italia, raggiungendo anche la posizione n. 1 nel Kindle Store nel novembre 2014, ed è tuttora uno dei libri di fantascienza più venduti in formato ebook.Grazie alla pubblicazione della serie, nel 2014 è stata indicata da Wired Magazine come una dei dieci migliori autori indipendenti italiani e ciò le è valso la partecipazione come relatrice al XXVII Salone Internazionale del Libro di Torino e alla Frankfurter Buchmesse 2014.“Deserto rosso” è anche la prima parte di un ciclo di opere di fantascienza denominato Aurora, che comprende inoltre “L’isola di Gaia” (2014), “Ophir. Codice vivente” (2016) e “Sirius. In caduta libera” (2018).“Nave stellare Aurora” è l’ultimo volume di questo ciclo ed è il suo quindicesimo libro.Oltre a quelli del ciclo dell’Aurora, nel 2015 ha pubblicato un altro romanzo di fantascienza, intitolato “Per caso”.La sua produzione include anche quattro thriller, vale a dire “Affinità d’intenti” (2015) e la trilogia del detective Eric Shaw: “Il mentore” (2014), che nella sua prima versione inglese edita da AmazonCrossing è stato nel 2015 al primo posto della classifica del Kindle Store negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Australia, raggiungendo oltre 170.000 lettori in tutto il mondo, “Sindrome” (2016) e “Oltre il limite” (2017).Una nuova versione di “The Mentor” e il resto della trilogia in inglese saranno pubblicati tra il 2022 e il 2023.Dal 2016 è docente del “Laboratorio di self-publishing nei sistemi multimediali”, nell’ambito del corso di laurea triennale in Scienze della Comunicazione e del corso di laurea magistrale in Scienze e Tecniche della Comunicazione presso l’Università degli Studi dell’Insubria (Varese). Da questo laboratorio è tratto il suo saggio “Self-publishing lab. Il mestiere dell’autoeditore” (2020).Oltre che al Salone e alla Buchmesse, è stata chiamata a intervenire in qualità di autoeditrice, divulgatrice scientifica nel campo dell’esplorazione spaziale e autrice di fantascienza hard in eventi quali COM:UNI:CARE (2013) all’Università degli Studi di Salerno, Sassari Comics & Games (2015), Festival Professione Giornalista (2016) a Bologna, la fiera della media e piccola editoria Più Libri Più Liberi (2016) a Roma, Scienza & Fantascienza (2014, 2016, 2018, 2019 e 2020) all’Università degli Studi dell’Insubria (Varese) e Voci e Suoni di Altri Mondi (2018) nella sede di ALTEC a Torino.I suoi libri sono stati recensiti o segnalati da testate nazionali quali Wired Italia, Tom’s Hardware Italia, La Repubblica, Tiscali News e Global Science (rivista dell’Agenzia Spaziale Italiana).Appassionata dell’universo di Star Wars, in particolare della trilogia classica, è conosciuta nel web italiano con il nickname Anakina e di tanto in tanto presta la sua voce e la sua penna al podcast e blog FantascientifiCast. È inoltre una rappresentante italiana dell’associazione internazionale Mars Initiative e un membro dell’International Thriller Writers Organization.ENGLISH VERSIONRita Carla Francesca Monticelli is an Italian science fiction and thriller author.She has lived in Cagliari (Sardinia, Italy) since 1993, earning a degree in biology and working as independent author, scientific and literary translator, educator and science communicator. In the past she also worked as researcher, tutor and professor’s assistant in the field of ecology at “Dipartimento di Biologia Animale ed Ecologia” of the University of Cagliari.As a cinema addict, she started by writing screenplays and fan fictions inspired by the movies.She has written original fiction since 2009.Between 2012-2013 she wrote and published a hard science fiction series set on Mars and titled “Deserto rosso”.The whole “Deserto rosso” series, which includes four books, was also published as omnibus in December 2013 (ebook and paperback) and hit No. 1 on the Italian Kindle Store in November 2014.“Deserto rosso” was published in English, with the title “Red Desert”, between 2014 and 2015.The first book in the series is “Red Desert - Point of No Return”; the second is “Red Desert - People of Mars”; the third is “Red Desert - Invisible Enemy”; and the final book is “Red Desert - Back Home”.She also authored three crime thrillers in the Detective Eric Shaw trilogy - “Il mentore” (2014), “Sindrome” (2016), and “Oltre il limite” (2017) -, an action thriller titled “Affinità d’intenti” (2015), five more science fiction novels - “L’isola di Gaia” (2014), “Per caso” (2015), “Ophir. Codice vivente” (2016), “Sirius. In caduta libera” (2018), and “Nave stellare Aurora” (2020) - and a non-fiction book titled “Self-publishing lab. Il mestiere dell’autoeditore” (2020).“Il mentore” was first published in English by AmazonCrossing with the title “The Mentor” in 2015. A new edition will be published on 30 November 2022. The other two books in the trilogy, “Syndrome” and “Beyond the Limit”, are expected in 2023.“Affinità d’intenti” was published in English with the title “Kindred Intentions” in 2016.All her books have been Amazon bestsellers in Italy so far. “The Mentor” was an Amazon bestseller in USA, UK, Australia, and Canada in 2015-2016.She is also a podcaster at FantascientifiCast, an Italian podcast about science fiction, a member of Mars Initiative and of the International Thriller Writers Organization.She is often a guest both in Italy and abroad during book fairs, including Salone Internazionale del Libro di Torino (Turin Book Fair), Frankfurter Buchmesse (Frankfurt Book Fair) and Più Libri Più Liberi (Rome Book Fair), local publishing events, university conventions as well as classes (University of Insubria), where she gives speeches or conducts workshops about self-publishing and genre fiction writing.As a science fiction and Star Wars fan, she is known in the Italian online community by her nickname, Anakina.

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    Anteprima del libro

    L'isola di Gaia - Rita Carla Francesca Monticelli

    Introduzione a L’isola di Gaia

    La prima volta che immaginai la storia di questo libro era addirittura il 2006. Come spesso mi capita, avevo fatto un sogno di quelli in cui ti sembra di essere finita dentro un film. Da lì nacque un’idea che iniziò a svilupparsi molto più avanti, nel 2009, ma già da allora a quell’idea avevo dato un titolo: L’isola di Gaia.

    Il suo significato è duplice. Nella storia c’è un personaggio che si chiama Gaia, ma col termine Gaia mi riferivo anche al nostro pianeta e in particolare alla cosiddetta Ipotesi Gaia (1979) di James Lovelock, che a sua volta prende il nome dalla divinità greca, detta anche Gea, che si riferisce alla Terra. In questo senso mi sono fatta influenzare dal mio background scientifico di biologa ecologa e all’interno della storia ci sono infatti alcuni elementi di carattere ecologico (ecologia intesa come scienza che studia le interazioni tra gli esseri viventi e l’ambiente non vivente, e non come ambientalismo), sebbene non riguardino nello specifico la teoria di Lovelock, e più in generale biologico.

    Tra il 2009 e il 2011 scrissi la prima stesura di questo romanzo, prima ancora di cimentarmi in Deserto rosso. Solo successivamente, nel 2013, nel rimettere mano a quel manoscritto mi resi conto che i fatti in esso narrati, con qualche opportuno aggiustamento, potevano essere inseriti nello stesso universo immaginario della serie ambientata su Marte. E così decisi di espandere questo universo dando luogo a un ciclo fantascientifico più ampio, chiamato Aurora.

    Nel settembre 2013, con l’uscita di Deserto rosso - Ritorno a casa, si è chiusa la serie di Deserto rosso. Le stesse parole del titolo di questo romanzo, dall’aria così conclusiva, sono quelle con cui esso termina, ma allo stesso tempo fanno presagire che la storia non è affatto finita.

    Deserto rosso è, infatti, solo la prima parte del ciclo dell’Aurora.

    Questo comprende altre quattro parti, nella forma di romanzo singolo, che verranno pubblicate da qui al 2020. Il ciclo, cui ho dedicato un sito monotematico (www.desertorosso.net), include in tutto cinque parti, ognuna delle quali, a eccezione delle prime due, per una completa comprensione della trama richiede la lettura delle precedenti. Aggiungerei anche che, per evitare anticipazioni, se si ha intenzione di leggere anche gli altri libri, è sempre meglio farlo in ordine di pubblicazione, anche se non corrisponde a quello dello svolgimento cronologico dei fatti.

    La seconda parte è, appunto, L’isola di Gaia, che cronologicamente si inserisce 35 anni dopo la fine di Deserto rosso, quindi circa un secolo avanti rispetto al nostro presente. Non è però il suo sequel naturale. Tra questo e la serie originale avranno luogo gli eventi che verranno narrati nei libri successivi, Ophir e Sirius. Infine ci sarà l’ultimo libro del ciclo, da cui esso prende il nome, Aurora, la cui comprensione richiede per forza di cose la lettura dei precedenti.

    È possibile leggere L’isola di Gaia anche senza aver letto Deserto rosso, poiché si inserisce nel ciclo dell’Aurora partendo da una prospettiva diversa, quella appunto della Terra. Questo romanzo, infatti, può essere considerato uno spin-off di Deserto rosso.

    Qui vengono presentati nuovi personaggi, anche se qualche vecchia conoscenza fa la sua apparizione in un cameo, e si assiste a nuove situazioni e minacce. Ma, osservando da vicino gli eventi, chi ha letto Deserto rosso riconoscerà qualche dettaglio, avrà l’impressione di aver già sentito qualcosa del genere, mentre i personaggi del romanzo ne sono all’oscuro. La peculiarità di questa storia è che i suoi protagonisti non sanno nulla di ciò che è accaduto su Marte decenni prima, ma il lettore di Deserto rosso sì. E le sue conoscenze gli permettono di valutare i fatti con occhio ben diverso.

    Non aspettatevi però un altro Deserto rosso.

    A cambiare non sono solo luoghi, tempi e personaggi. Con questo romanzo si osserva un maggiore distacco dalla scienza reale, quindi dalla fantascienza hard, e ci si sposta appena verso un altro sottogenere, il cyberpunk. Ma si tratta più che altro di un techno-thriller, con numerosi elementi di suspense.

    Cambiano anche gli equilibri tra i personaggi. Deserto rosso era essenzialmente la storia di Anna Persson e tutto alla fine girava intorno a lei, per quanto si potevano individuare alcuni comprimari d’eccellenza, quasi dei co-protagonisti.

    Ne L’isola di Gaia esiste una voce narrante, la cui identità si scopre a circa un terzo del romanzo. La storia raccontata è la sua, ma non è l’unica protagonista, né il personaggio più in scena durante tutto il suo corso.

    Oltre a lei ci sono dei veri e propri co-protagonisti, si chiamano Gaia, Andrew e Gabriel. Accanto a loro ci sono tutta una serie di comprimari, alcuni dei quali ritornano più volte lungo il corso del romanzo (come Rivus Gado, John Wright, Isabella Gredani, Raviv, Angelica, Samir), mentre altri appaiono per un solo capitolo per poi scomparire (come Virginia Logan, il cui nome dovrebbe ricordare qualcosa a chi ha letto Deserto rosso).

    Come al solito nei miei libri non ci sono né buoni assoluti né cattivi assoluti, la maggior parte dei personaggi tira l’acqua al suo mulino. Chi è troppo buono o troppo cattivo è destinato a soccombere o a non ottenere ciò che vuole. Tutti comunque, volenti o nolenti, devono affrontare degli eventi più grandi di loro contro i quali provano a combattere, ma alla fine non possono vincere.

    L’elemento sentimentale, che in Deserto rosso viaggiava parallelo alla trama fantascientifica, è qui meno importante. Dover orchestrare insieme più protagonisti con relativi filoni di trama rende quasi impossibile approfondirli tutti in questo senso. La particolare natura di ognuno di loro impedisce che abbiano un passato degno di questo nome. Ciò fa de L’isola di Gaia un romanzo corale.

    Sfruttando il fatto che la storia è ambientata fra circa cento anni, mi sono spinta un bel po’ in là nel raccontare questo mondo del ventiduesimo secolo. Involontariamente si potrebbe scorgere qualcosa di distopico in esso e allo stesso tempo molti elementi utopici, perché in fondo io sono un’ottimista quando si parla di futuro. Da una parte c’è un mondo cinico e perverso e dall’altra chi almeno in apparenza agisce in buona fede secondo dei principi altruistici. Purtroppo, anzi direi ovviamente, però lo fa solo alla ricerca di un proprio appagamento, di fronte alla situazione di disagio in cui vive.

    Come sempre, cerco di mostrare tutto questo senza dare giudizi. Non c’è nessun messaggio dietro le mie storie, se non quello che ogni punto di vista presenta del buono e del cattivo, ogni personaggio sa essere egoista e altruista secondo le circostanze e la propria convenienza.

    Preferisco fornire degli spunti insoliti e lasciare al lettore il compito di trarne il proprio messaggio personale.

    Come ambientazione principale della storia ho scelto l’Antartide, che è senza dubbio il luogo del nostro pianeta che più di tutti sembra essere alieno.

    Il romanzo, inoltre, comprende cinque parti, i cui titoli sono: Sole a mezzanotte, Neve, BioSynth, L’isola che non c’è e Aurora australe.

    A differenza di Deserto rosso, le cui quattro parti erano dei libri individuali scritti separatamente, in ognuno dei quali alcuni aspetti della storia si chiudevano per lasciare posto a nuovi interrogativi, quelle de L’isola di Gaia non potrebbero mai essere concepite come unità singole. La trama si dipana attraverso di esse e solo alla fine si ottengono tutte le risposte.

    Anzi, diciamo quasi tutte.

    A questo punto non mi resta che darvi il benvenuto ne L’isola di Gaia e augurarvi una buona lettura. Spero che il viaggio sia di vostro gradimento.

    L’ISOLA DI GAIA

    Seconda parte del ciclo dell’Aurora

    Nessuno riesce a farci del male quanto noi stessi.

    Sole a mezzanotte

    1

    Non so se la nostra storia ebbe inizio con la nostra nascita, o quando Andrew decise che era giunto il tempo di cambiare le cose, o solo dopo la nostra separazione, ma so per certo quando lui pensò per la prima volta di aver fallito. Fu quella mattina, mentre incespicava sul ghiaccio, il viso sferzato dal vento gelido, gli occhi annebbiati dal riverbero della luce. Aveva freddo, ma non per via della temperatura. Il suo cuore era freddo per il terrore. Sapeva che lei era là fuori da sola, indifesa, confusa, ma non riusciva a vederla.

    Urlò il suo nome nell’aria tersa di quel lungo giorno in cui i raggi del sole si riflettevano sul bianco, come avevano sempre fatto e come avrebbero continuato a fare. La condensa che usciva dalla bocca di Andrew, intruso in mezzo al ghiaccio, formò una piccola nuvola destinata a dissolversi in un secondo. La sua voce venne assorbita dal silenzio, senza che esso gli restituisse una risposta.

    Riattivò la ricetrasmittente. Riesci a sentirmi? Un disturbo di fondo giunse dall’auricolare.

    Doveva essere là intorno, ma dove? La capsula era abbandonata con il portello spalancato. Posò una mano sulla fusoliera. Era ancora tiepida. Non poteva essere lontana.

    Dove accidenti sei?! Aveva parlato in tono rabbioso, ma non ce l’aveva con lei.

    Si sentiva in colpa, non che fosse una novità. Il senso di colpa per ciò che era l’aveva accompagnato sin dal primo momento in cui aveva preso coscienza di sé. Sapeva di non essere lui il responsabile, di essere una vittima, eppure sentiva che spettasse a lui trovare una soluzione. Aveva dedicato quell’ultimo anno a perseguire tale scopo, ma gli eventi gli erano sfuggiti di mano. O forse era stato lui a sottovalutarli, a pensare di poterli davvero controllare. E adesso lei era in pericolo.

    La disperazione lo portò ad allungare il passo, a correre senza sapere in quale direzione. Un piede scivolò e in un attimo si ritrovò disteso a terra, a guardare l’azzurro del cielo. E così iniziò a pregare, a chiedere a Dio di ascoltarlo, anche se non si sentiva affatto degno di ottenere il Suo aiuto.

    Si sollevò su un fianco e si mise seduto. I suoi occhi osservarono l’orizzonte e percorsero la distanza che lo separava da lui. Ma qualcosa interruppe il loro movimento, un’imperfezione nel bianco. Un’impronta.

    Gaia! Il suo grido riecheggiò in lontananza, riempiendo il silenzio, per poi svanire.

    Dopo un lungo istante un gemito sommesso emerse dal profondo del ghiaccio.

    Una remota percezione di freddo la raggiunse per prima. Era indistinta, lontana, ma si muoveva in fretta, accresceva d’intensità e presto la strinse in una morsa di gelo. Ma quello fu solo l’inizio.

    Poi arrivò il dolore, palesandosi dapprima come un formicolio quasi piacevole, divertente. Gaia avrebbe riso, se fosse stata in grado di farlo. Ma subito dopo avrebbe voluto piangere, poiché la sua carne le pareva attraversata da milioni di piccolissime lame. Un timido tentativo di muovere le dita amplificò la sua sofferenza, costringendola a desistere.

    Allora si concentrò sulle palpebre. Col passare dei minuti aveva iniziato a individuare un bagliore in grado di attraversarle e raggiungere i suoi occhi, ma lei voleva aprirle per vedere cosa ci fosse dall’altra parte. Trasse un respiro e provò a schiuderle appena. Una luce abbagliante squarciò le tenebre della sua mente, sottraendola con prepotenza dal mondo in cui i suoi sensi cercavano a tutti i costi di indugiare. Le richiuse subito, poi le riaprì, stavolta più piano. Cercò di mettere a fuoco quell’immagine priva di senso. Non poteva essere naturale, ciò che vedeva non poteva essere una finestra, no, una parete di vetro. I raggi che la attraversavano non potevano essere quelli del sole. Non così alto.

    Voleva muoversi, avvicinarsi a quella sorgente impossibile di luce, ma il suo corpo si rifiutava di rispondere alla sua volontà. Ogni tentativo restituiva altro dolore. Udì un lamento, per poi rendersi conto di essere stata lei a emetterlo.

    La sua mente era in subbuglio. I dettagli della fuga andavano sempre più offuscandosi, come quelli di un sogno. Del poco che ricordava vi era davvero qualcosa di reale? O era tutto frutto della sua fantasia? Un inganno, ecco, era un inganno. Ma non riusciva a ricordare cosa fosse tale inganno.

    Poi l’ennesima ondata di stanchezza la investì. Sopraffatta dal sonno, incapace di combatterlo, lasciò che i suoi occhi si chiudessero, trascinandola di nuovo in quel consolatorio oblio.

    ***

    Rise forte. Era così elegante col suo frac, quell’essere buffo. Si faceva beffe di lei, ne era certa. Gaia se ne stava seduta su una roccia, le gambe raccolte vicine al corpo, le braccia che le avvolgevano, come se sentisse freddo, ma non era così. Non percepiva alcun freddo. Il sole, sebbene basso all’orizzonte, pareva irradiare un calore intenso, che ogni parte del suo corpo, non solo la pelle esposta all’aria, sembrava in grado di concentrare su di sé.

    Sfilò la fascia dalla testa. Era impregnata di sudore, dopo la corsa fatta per arrivare fino a lì. La mise in tasca, poi si passò le dita fra i capelli, smuovendoli affinché si asciugassero. L’irritazione per il mancato appuntamento di quella sera era ormai scemata. Avrebbe dovuto uscire con Rivus. Era da qualche tempo che si frequentavano. Non era precisamente un bell’uomo, per niente, ma era simpatico, ed era più giovane di lei. La faceva sentire una ragazzina. Quella sera sarebbero dovuti uscire insieme, ma non si era presentato. La cosa l’aveva talmente indispettita che non aveva neanche cercato di chiamarlo per sapere cosa gli fosse successo. Ma poi cosa poteva mai essergli successo? Proprio nulla. Se n’era dimenticato, tutto qui.

    Eppure quel contrattempo la infastidiva oltremodo. Era come se fosse anomalo, fuori schema.

    No, non valeva la pena pensarci. In fondo la compagnia che aveva appena trovato non era affatto male. Di certo era più elegante.

    Rise di nuovo, nel vedere il piccolo pinguino avvicinarsi curioso. Il mare era calmo. Se fosse venuto più vicino, magari si sarebbe lasciato toccare. Gaia provò a sporgersi, ma, appena sentì la suola della scarpa slittare sulla pietra umida, indietreggiò di scatto, allargando le braccia per controbilanciare il movimento.

    Uh, aveva davvero rischiato di cadere in acqua. Provò un atavico senso di paura. Aveva timore dell’oceano. Perché? Non sembrava minaccioso. Allungò una mano intenzionata a sfiorarne la superficie, per sentire quanto fosse freddo, ma non riuscì a farlo. Si fermò, terrorizzata. Non poteva farlo. Non l’aveva mai fatto e non l’avrebbe fatto mai.

    Riprese la sua posizione rannicchiata. La scogliera era deserta, ma era normale a quell’ora del giorno o, meglio, di quella che sarebbe dovuta essere la notte. Erano le due del mattino e a quella latitudine il sole non tramontava da quasi un mese, e non l’avrebbe fatto ancora per alcune settimane. La maggior parte delle persone, però, dormiva. Avrebbe dovuto dormire anche lei. Fra sette ore avrebbe dovuto presentarsi al lavoro, ma qualcosa la tormentava. Aveva di continuo l’impressione di dover svolgere un compito importante, ma, per quanto si arrovellasse, non riusciva a ricordare di cosa si trattasse. Forse Rivus non era l’unico a soffrire di una qualche forma di amnesia, in fondo.

    Gaia volse lo sguardo verso la terraferma e i rilievi situati ancora più a sud. Laggiù vi erano ancora i ghiacciai. Almeno quelli non si sarebbero sciolti durante l’estate. Immaginò se stessa mentre faceva una piccola escursione insieme al suo amico su quelle vette. Sorrise. A lui sarebbe di certo venuto un infarto a camminare così tanto. Ma si trattava di un pensiero ozioso, niente più. Sapeva di non poterci andare.

    Inganno?

    Quella parola risuonò nelle sue orecchie pronunciata dalla voce di Rivus.

    Inganno? Che significa?’ Scosse la testa con forza per ricacciare quel pensiero. Non voleva affatto saperlo.

    Tornò a guardare le montagne. Laggiù sotto la linea immaginaria della neve si trovavano foreste fittissime. Col diminuire dell’altitudine si trasformavano in giungle inospitali, in un gradiente di tonalità di verde, che lambiva la costa e copriva anche la parte inabitata dell’isola su cui si trovava. Girando il capo alla propria destra, vedeva quel colore ricoprire le colline oltre le mura della città, di pietra, altissime, impenetrabili a quella natura selvaggia e incontrollata.

    Hope, così l’avevano chiamata, speranza. Bianca e imponente si stagliava nel verde, sovrastata da un grattacielo altissimo, la Torre. La sua bellezza commovente serviva forse a distogliere gli abitanti dalla consapevolezza che le barriere che circondavano e proteggevano la città, di fatto, rappresentassero i confini della loro prigione dorata, del mondo a loro concesso.

    Là fuori non vi erano eserciti invasori, non di uomini, ma i più temibili e infimi dei nemici, invisibili: microrganismi che avevano infettato tutto ciò di cui gli stessi uomini avrebbero potuto usufruire, quasi sterminandoli, in una rapida e irrefrenabile pandemia.

    D’altronde da tempo il mondo si era trasformato in un luogo troppo caldo e inospitale e i superstiti dell’umanità, quei pochi che non erano stati lasciati indietro, avevano ripiegato in una piccola isola della Baia di Margherita, al largo della Penisola Antartica, comparsa dal nulla dopo un’eruzione vulcanica, incontaminata. Su di essa avevano costruito una cittadina. Quella pian piano si era estesa verso l’oceano per sfuggire alla natura, che aveva presto preso possesso della terra.

    Così le avevano raccontato.

    Inganno!’

    Basta! urlò Gaia al mare. Scattò in piedi, ansimante. Poi in un attimo si acquietò. Era solo stanca, ecco, niente più. Una bella dormita e sarebbe tornata come nuova. Sorrise tra sé. Sì, non era nulla.

    Si voltò in direzione dello spazioporto. Sua sorella Alicia era partita da più di un anno e adesso era sul pianeta rosso. Un giorno anche lei l’avrebbe raggiunta, insieme alle ultime duemila persone che ancora abitavano quella piccola regione della Terra, ma su Marte non avrebbe trovato nessun oceano da ammirare e nessun animale in frac a farle compagnia.

    Ormai stanca, decise di incamminarsi verso casa, attraversando a passo lento il quartiere che ospitava quel rimasuglio di umanità, vicino al mare e alla Torre. Rispetto al resto di Hope, che era deserto, quella zona pareva fin troppo trafficata, perfino a quell’ora. La gente continuava la propria vita senza curarsi di cosa potesse esserci oltre le barriere, col pensiero rivolto allo spazio, al futuro. Vivevano circondati da macchine e software, che si occupavano di ogni aspetto del loro benessere, compreso il divertimento. Non potevano possedere animali domestici di alcun tipo. Era vietato per via del potenziale rischio biologico che avrebbero potuto rappresentare.

    Nel cielo i gabbiani volavano alti e, come i pinguini, si tenevano a distanza dalla città e dagli uomini. Quelli di essi che avevano tentato di avvicinarsi erano stati tutti uccisi dai sistemi automatici di sicurezza e così gli altri avevano imparato che quella parte della baia era loro interdetta per sempre, o almeno finché gli uomini avessero continuato a occuparla. Il giorno che questi ultimi fossero andati via o morti, gli animali avrebbero ripreso possesso della terra che un tempo era stata loro, quando il livello del mare nel continente era stato di parecchi metri più basso e il panorama all’orizzonte di un solo colore. Bianco.

    La malinconia recata da quei pensieri accompagnava Gaia, mentre entrava nel proprio appartamento. Come la porta si chiuse, una luce si accese nel soggiorno, in parte già illuminato dai tenui raggi del sole, che si facevano strada attraverso la parete di vetro.

    Bentornata, Gaia la salutò una donna in piedi al centro della stanza, sorridente.

    Ignorando quella presenza, Gaia si sfilò le scarpe e, mentre la sua bocca si spalancava in uno sbadiglio, sganciò la catenina che portava al collo, cui era appeso il suo netlink, come se fosse un ciondolo. Lo attivò con un tocco ed esso proiettò davanti a lei l’immagine olografica dell’orario, le due e trentacinque, e la scritta ‘nessun messaggio’.

    Emise un grugnito di insoddisfazione. Sapeva bene che non vi era alcun messaggio, altrimenti il dispositivo l’avrebbe avvertita appena ricevuto, ma non aveva potuto fare a meno di controllare. Non le andava proprio giù che quello sfigato non si fosse fatto vedere e non si fosse neppure degnato di farsi sentire.

    Abbandonò il netlink sul tavolo. Fai buio e lascia un poco di luce soltanto nella zona letto.

    Come vuoi rispose la donna, accompagnando le proprie parole con un cenno della testa.

    In meno di un secondo gli scuri coprirono la parete trasparente, che dava sulla via principale, lasciando il sole all’esterno e una luce soffusa nei pressi del letto.

    E disattiva l’avatar olografico aggiunse Gaia, dirigendosi verso il bagno.

    Buona notte. L’IA sorrise e si smaterializzò.

    L’illuminazione del bagno si accese, come Gaia vi entrò. Si tolse la giacca macchiata di sudore e la gettò per terra. Il resto dei suoi indumenti la seguirono poco dopo, mentre lei entrava nella doccia. Subito quella si attivò e l’acqua, a una perfetta temperatura, la investì, procurandole un immediato sollievo.

    Vi rimase per una decina di minuti, lasciando che quel getto potente drenasse le sue ultime energie. Infine si decise a uscire. Con l’accappatoio addosso scrutò il proprio viso allo specchio. Era tondo e aggraziato, incorniciato da un corto caschetto di capelli dorati, che adesso le si erano appiccicati al volto, e illuminato da due occhi di un azzurro intenso. Lasciò cadere l’indumento e osservò il resto del proprio corpo. Non era che non si piacesse, ma doveva ammettere che la sua ossatura era troppo massiccia e i muscoli, sviluppati in seguito alla sua costante attività fisica, non miglioravano le cose. Fece una smorfia. In realtà avrebbe voluto avere la silhouette di Alicia. Era proprio così. Chi voleva ingannare?

    Inganno.

    Sussultò, il cuore aveva preso a tamburellarle nel petto. Cercò intorno a sé, allarmata, senza conoscerne la ragione. L’appartamento era silenzioso. Non vi era alcun motivo di allarme. Era solo stanca.

    Negli ultimi tempi non dormiva tanto bene. Sognava più del solito, o era più corretto dire che riusciva a ricordare più spesso i propri sogni, e quei ricordi la confondevano. La sua mente le rimandava immagini di episodi della sua vita che non rammentava di aver mai vissuto. Sognava di essere persone diverse. Si svegliava nel cuore della notte angosciata e non riusciva a comprenderne il perché. Anche per quel motivo aveva preso l’abitudine di andare a dormire così tardi, per essere certa di crollare in un sonno profondo. Ma non aveva funzionato un granché.

    Si finì di asciugare e andò a letto. Forse avrebbe dovuto rivolgersi a un addetto medico per farsi prescrivere qualche ansiolitico, magari un ipnotico. No, non le andava di prendere farmaci non necessari.

    Spegni luce.

    Non appena terminò di pronunciare l’ultima parola, il buio calò nell’appartamento. E Gaia si addormentò all’istante. Un silenzio spettrale pervadeva la stanza.

    Spostando l’attenzione da questa alla città là fuori, si sarebbe rimasti stupiti nello scoprire che anch’essa pareva d’un tratto silenziosa, ferma. Il traffico era sparito, nessuno più camminava per strada. Tutti quanti si erano ritirati nei propri alloggi e dormivano dello stesso sonno.

    Per almeno quattro ore nessuno si sarebbe svegliato, poi tutto sarebbe ricominciato.

    Il fruscio degli scuri che si aprivano di scatto la svegliò. Gaia mugugnò, affondando la testa nel cuscino.

    Buongiorno, Gaia, sono le ore otto e un quarto.

    Già. Aveva dimenticato di ordinare all’IA di ritardare la sveglia. Per un attimo valutò di dirle di chiudere di nuovo tutto e risvegliarla fra un’ora, ma poi il rimorso ebbe la meglio. Se avesse fatto tardi al lavoro, avrebbe finito altrettanto tardi. In fondo, anche se aveva dormito abbastanza poco, non si sentiva tanto stanca. Magari avrebbe fatto un pisolino dopo pranzo nel proprio studio.

    Come sempre d’estate, quando di rado si vedeva la notte, le capitava di dormire poche ore più volte al giorno. Vivere a due passi dal polo sud aveva portato la gente di Hope a perdere l’abitudine di distinguere chiaramente le ore del giorno dedicate al sonno e quelle dedicate alla veglia. Tutto veniva regolato dal lavoro e dalle scadenze. Se poi le mansioni da svolgere erano individuali, come quelle di Gaia, non c’era neppure l’assillo di doversi accordare con i colleghi. Ognuno si organizzava come meglio credeva.

    Le uniche ore in cui, in un modo o nell’altro, tutti dormivano erano quelle dalle tre alle sette del mattino.

    Gli abitanti di Hope erano persone di talento. Era l’unico modo adeguato di definirle. Ognuno di essi coniugava un elevato quoziente intellettivo con un ottimo senso della disciplina e dell’organizzazione, oltre che una notevole creatività. Nel momento in cui si era dovuto scegliere chi salvare dell’umanità, coloro che raccoglievano in sé tali caratteristiche erano stati avvantaggiati. Nessuno di loro si era mai posto alcun problema etico a riguardo. Loro avevano lo scopo di favorire lo sviluppo e la conoscenza dell’umanità tutta, sia quella rimasta sulla Terra che quella che viveva su Marte. Le macchine facevano il resto.

    Un ronzio proveniente dalla zona cucina la ridestò. Si era riaddormentata senza volerlo.

    La tua colazione sarà pronta in due minuti. L’IA pareva osservarla, accanto al letto. Era vestita in maniera casual e mostrava un sorriso amichevole. Era stata lei stessa a sceglierne l’aspetto, ma in quel momento le dava sui nervi, e non solo perché avrebbe voluto continuare a dormire.

    Okay biascicò, stirandosi sotto le lenzuola. Poi si mise a sedere, piano, e si massaggiò il viso.

    Aveva di nuovo quella strana sensazione di aver dimenticato qualcosa di importante. Si sforzò di tenere gli occhi aperti e guardare lo schermo olografico, attivatosi davanti alla parete di fronte, che occupava quasi tutto il suo campo visivo. Le principali notizie della giornata scorrevano in riquadri sparsi sulla sua superficie virtuale. Altri riportavano le informazioni meteo e una lista di canali audio e video preferiti. Il suono era silenziato. Per fortuna l’ultima volta l’aveva disattivato. Oggi non avrebbe davvero sopportato di svegliarsi con le note di Bach, che di solito adorava. Oggi non era proprio giornata.

    Mosse la mano in aria, e i suoi gesti generarono altrettante reazioni sull’oloschermo, finché non raggiunse l’immagine di una foresta.

    Audio.

    Dai minuscoli altoparlanti disseminati nell’appartamento emerse il canto degli uccelli, prima tenue, poi più forte, come se si stessero avvicinando. In sottofondo si sentiva il vento agitare le fronde e l’acqua di un ruscello scorrere dietro di lei.

    Sbadigliò ancora e si trascinò sul bordo del letto.

    Nel medesimo istante in cui si sollevò in piedi, vi fu uno sbalzo di tensione e per un microsecondo un suono cupo, ma fortissimo, le riempì le orecchie. Gaia rimase come impietrita, quindi tutto tornò alla normalità.

    Tranne lei. L’inganno! I ricordi le si riversarono con prepotenza nella mente.

    Un bisbiglio proveniente dalla piccola ricetrasmittente abbandonata sul comodino attirò il suo sguardo. Qualcuno la stava chiamando.

    Oh, cazzo…

    2

    La Torre. La prima volta che la vidi ne rimasi incantata. Con questo non intendo che la sua vista mi avesse suscitato una qualche emozione. Fu piuttosto come se tutti i miei sensi venissero obnubilati, tempestando il mio cervello di percezioni contraddittorie. Fu come sbattere contro un muro invisibile. Se riusciva a fare quell’effetto a me a una tale distanza, non mi sorprendeva come potesse svolgere la propria azione su chi era stato su Hope per tutta la sua esistenza, ignaro di quella subdola minaccia.

    Tutto ciò che potevo fare era scrutarne ogni dettaglio. La sua struttura di metallo, plastica e vetro si erigeva imponente all’interno di una distesa di edifici di un bianco brillante, quasi rifulgessero di luce propria. Quel candore era interrotto qua e là da spazi verdi, come verde era la natura che occupava il resto dell’isola, rigogliosa, lussureggiante. Innaturale, in mezzo al blu dell’oceano. Il perimetro della città era percorso da altissime barriere anch’esse bianche.

    Era magnifica e ingannevole. Durò solo per un istante.

    Quando mi sentii stringere la mano da Gabriel, avevo già perso il contatto con quella visione, ma non con l’illusione che le condizioni ambientali fossero perfette. La bassa temperatura non era di per sé un problema, ma adesso sentivo caldo. Il mistero di Hope aveva appena iniziato a svelarsi ai miei occhi.

    ***

    Percorreva in scioltezza uno dei corridoi della sezione di microbiologia della Torre, ma Rivus Gado era tutt’altro che tranquillo. Si passò nervoso una mano sul viso, raccogliendo alcune gocce di sudore. L’ultima cosa che avrebbe voluto era trovarsi in quella situazione, costretto ad agire col tempo contato. Fino ad allora si erano preparati con estrema cautela, perché sapevano che un piccolo errore avrebbe fatto saltare il loro piano. E adesso era andato tutto all’aria! Era letteralmente partito un conto alla rovescia, quindi in un modo o nell’altro sarebbero dovuti andare fino in fondo.

    Il compito che stava per svolgere era tutt’altro che difficile, ma non per quello meno importante del resto. Il peso del suo significato lo opprimeva.

    Un collega gli passò accanto, facendogli un cenno di saluto. E Rivus rispose, rivolgendogli un sorriso un po’ troppo ampio.

    Che cavolo stava facendo? Non sopportava quel tipo. Avrebbe dovuto rispondergli come sempre con un grugnito o annuendo. Avrebbe finito per farsi beccare.

    Dopo aver girato l’angolo, si fermò e posò una mano sulla parete. Stava ansimando, come se fosse reduce da una corsa. Doveva calmarsi. Subito. Si asciugò le tempie col dorso della mano. Non riusciva a smettere di sudare. Nel vederlo così, qualcuno avrebbe pensato che stesse male, che avesse contratto qualche malattia, e magari avrebbe riferito la cosa a un addetto. Non doveva succedere.

    Inspirò con forza e si costrinse a calmarsi. Poi riprese a camminare, cercando di mantenere un passo tranquillo, trattenendo la fretta.

    Un minuto dopo era di fronte all’ingresso del Laboratorio 24. Si guardò intorno, sforzandosi di sembrare disinvolto. Agitò la testa, infastidito. Si stava muovendo in maniera troppo meccanica. Se avesse continuato così, avrebbe dato nell’occhio. Per fortuna nessuno si trovava nei paraggi e aveva visto quel suo ultimo sfogo. Solo pochissime persone autorizzate potevano entrare in quei locali e lui ne faceva parte, ma non era affatto prudente che l’unità centrale registrasse il suo ingresso in quella particolare occasione.

    Okay, un altro bel respiro. Era facile.

    Estrasse la scatolina dalla tasca e la aprì. Gli sfuggì una smorfia di disgusto. Il globo oculare al suo interno era poggiato su un angolo. L’iride verde era rivolta verso di lui. Sembrava che lo fissasse, con uno sguardo accusatorio.

    Ah, al diavolo! Lo prese tra il pollice e l’indice, e lo accostò allo scanner sul pannello di controllo posto accanto alla porta.

    Scansione. Pronunciò quella parola con voce strozzata.

    Per un attimo temé che non si fosse udita, poiché parve non accadere nulla. Poi sentì un leggero ronzio e un raggio piano, violaceo, appena percettibile, percorse la superficie dell’occhio, muovendosi dall’alto in basso.

    Benvenuto nel Laboratorio 24, dottor Lacee recitò una voce femminile.

    Rivus quasi saltò sul posto nel sentirla. Avrebbe giurato che l’IA avesse parlato a un volume più alto del solito.

    La porta si spalancò, e lui si affrettò all’interno, aspettando poi che si chiudesse. Rimise il globo oculare nella scatola, che infilò di nuovo in tasca. Adesso si trovava in una piccola anticamera. Alla parete erano appese delle tute di isolamento ambientale, usate nelle aree contaminate. Il laboratorio era una di esse.

    La indossò con calma, come aveva già fatto decine di volte. Si assicurò che tutte le chiusure aderissero alla perfezione. Una volta terminata la vestizione, attivò il respiratore. Un’icona verde comparve davanti ai suoi occhi, prodotta dalla realtà aumentata integrata nella visiera. Mosse la mano come a toccarla e un istante dopo la porta che dava all’interno del laboratorio si aprì.

    Una luce si accese, rivelando l’immensa sala dinanzi a lui e in contemporanea iniziò un concerto di versi tra i più disparati. Ovunque vi erano gabbie con animali di specie diverse. Veri animali, non come le rappresentazioni olografiche riprodotte all’interno della città per il divertimento degli abitanti. Animali in carne, ossa e sangue. Erano tenuti in laboratori come quelli, venivano fatti crescere in cattività, e riprodurre in maniera controllata. Su di essi venivano svolti test clinici non meglio precisati, il cui scopo era migliorare le condizioni di vita degli esseri umani. Nel contempo si tenevano degli esemplari di varie specie nella speranza di poterli un giorno integrare di nuovo nella vita delle persone. O almeno ciò era quello che si sapeva di loro. In fondo nessuno a Hope si faceva troppe domande, neppure coloro che lavoravano con quegli animali.

    Nessuno a eccezione di Rivus, che però conosceva già gran parte delle risposte.

    Per esempio, sapeva che in quel particolare laboratorio non si faceva alcun test, ma il suo scopo era preservare non tanto gli animali che vi vivevano, piuttosto ciò che viveva all’interno di quegli animali. Un particolare tipo di agente patogeno, un virus, denominato KV62. Quel luogo era un serbatoio di virus. Ce n’era una tale quantità da infettare tutta la città in meno di un’ora. Sarebbe stato così semplice, se avesse potuto liberare quelle bestioline di piccola taglia e lasciarle scorrazzare per le vie di Hope. Purtroppo non avrebbero superato indenni i dispositivi di sicurezza della Torre, sarebbero state rilevate e uccise appena uscite dal laboratorio.

    Per fortuna, però, per i suoi scopi a Rivus bastava molto meno.

    Adesso che si trovava là dentro, era riuscito infine a calmarsi. L’adrenalina che da principio gli aveva causato una crisi di panico sembrava ora alimentarne la concentrazione per il raggiungimento del suo scopo. Si diresse alla gabbia di una gatta siamese. Era un bell’esemplare di razza pura, con il pelo lucido che faceva venire voglia di accarezzarlo. Insieme a lei si trovavano tre gattini.

    Toccando un sensore, attivò il display olografico e vi aprì una sessione. Nella schermata era riportato il codice dell’animale, con indicazione della specie, della razza, le informazioni sul peso, dimensioni, colore degli occhi, impronte dentarie, come pure lo stato attuale, vale a dire il fatto di aver partorito tre piccoli trentanove giorni prima. A ogni cucciolo era stato assegnato a sua volta un codice. Una volta abbastanza grandi, sarebbero stati spostati in gabbie separate.

    Nell’angolo dello schermo era riprodotta una rappresentazione dall’alto della gabbia, in cui però al posto degli animali comparivano dei puntini luminosi. Accanto a ognuno di essi vi era un codice. Rivus visualizzò le informazioni relative a uno dei gattini. Era molto più piccolo degli altri due. Forse sarebbe cresciuto senza problemi, ma, dovendo sceglierne uno, era di certo quello che con più probabilità avrebbe potuto non farcela.

    Lo individuò all’interno della gabbia. Fece scattare l’apertura e lo prese con una mano inguantata.

    Il gattino miagolava, disperato per essere stato separato dalla madre. L’uomo iniziò ad accarezzarlo, mentre lo posava sul ripiano. Era così carino. Okay, doveva ammettere di avere un debole per quelle bestiacce, anche se cercavano sempre di graffiarlo. I loro artigli sulla superficie della tuta producevano quel rumore fastidioso. Il solo ripensarci lo fece rabbrividire.

    Intanto il cucciolo si era tranquillizzato. Con l’altra mano l’uomo prese una siringa autoiniettante. Spostò il pelo, in modo da farla aderire alla pelle, e premé il pulsante. Si udì uno scatto. Il gattino sussultò appena, poi nel giro di pochi secondi si rilassò e si addormentò.

    Bene, adesso doveva essere preciso.

    Gettò la siringa nei rifiuti biologici e prese un bisturi. Tastando il corpicino dell’animale, individuò un punto sul retro del collo. Praticò un’incisione, che rivelò la presenza di un minuscolo oggetto di metallo. Lo bloccò con una pinzetta, in modo che non scivolasse, mentre vi avvicinava un lungo e sottile ago. Con mano ferma, lo fece penetrare in una fessura.

    Vide una scintilla. In quello stesso istante un allarme lampeggiò sul display e apparve la scritta ‘Esemplare deceduto?’, seguita dalle scelte ‘Conferma’ e ‘Annulla’.

    Rivus posò l’ago e sfiorò la parola ‘Conferma’.

    La schermata cambiò ancora. ‘Conferma decesso esemplare #D78 - Autorizzazione Lacee 115. Smaltimento del materiale biologico approvato’. Poi riapparve la schermata di partenza, ma stavolta lo stato indicava la presenza di due cuccioli.

    Solo allora Rivus si accorse di trattenere il fiato. Lasciò andare l’aria e tornò a concentrarsi sull’animale. Con un movimento deciso estrasse l’oggetto metallico e lo gettò insieme a tutto il resto nella cassetta che sarebbe finita nell’inceneritore. Applicò una barretta per suture sulla ferita, chiudendola in pochi istanti.

    Lasciò il gattino privo di sensi sul bancone e si avvicinò al terminale principale del laboratorio, da cui si collegò al reparto di sorveglianza della città. Alla comparsa della finestra di dialogo, estrasse dalla tasca un’unità portatile insolitamente piccola e la attivò. Un disturbo attraversò l’immagine sullo schermo, subito dopo il campo utente e password apparvero compilati. Rivus sfiorò l’icona di accesso e richiamò la finestra ‘Ultimi allarmi biologici’.

    Il suo nervosismo stava di nuovo aumentando, mentre attendeva che la ricerca venisse portata a termine. Odiava essere intrappolato dentro quelle tute. Si sentiva impacciato nel compiere ogni minimo movimento. Ma rimanere fermo in attesa non era molto più piacevole. Una goccia di sudore prese a scorrere sulla sua fronte e gli finì nell’occhio destro. Gli bruciava, facendo lacrimare anche l’altro.

    Ci mancava solo questa.

    ‘Nessun allarme biologico in corso’ apparve infine sullo schermo.

    Finalmente.

    Chiuse in fretta la sessione, quindi raggiunse una fila di armadietti disposti lungo la parete sinistra del locale. Utilizzando ancora una volta l’unità portatile, comandò l’apertura di uno di essi e ne tolse fuori una valigetta contenente un kit di analisi. Con cura ripose tutto il contenuto nel mobile e lo chiuse. Tornò al bancone e vi posò la valigetta. Da sotto il ripiano prese un contenitore a chiusura ermetica, abbastanza piccolo da stare all’interno della valigetta. Giorni addietro ne aveva provato diversi, finché non aveva trovato quello che avrebbe fatto al caso suo. Contenitori di quel tipo, con una presa d’aria con filtro, venivano usati per trasportare in sicurezza gli esemplari infetti da un laboratorio all’altro.

    Vi adagiò il gattino e, nel chiuderlo, il contenitore emise una sorta di sbuffo, a riprova che era stato sigillato. Infine lo inserì nella valigetta e la chiuse a sua volta.

    Con entrambe le mani posate su di essa, Rivus diede un’ultima occhiata agli animali nelle gabbie, poi afferrò la maniglia e si diresse verso la porta.

    3

    "Cosa posso fare per lei, dottor Asbury?" Stavo in piedi sulla porta, sostenendomi con una spalla contro lo stipite. Piegai la testa e gli sorrisi.

    Gabriel sollevò lo sguardo. Ti muovi come un gatto. Non ti avevo sentito arrivare.

    Miao dissi, mantenendo un’espressione compita e strusciando la testa contro la parete.

    Lui scoppiò a ridere. E questa da dove viene fuori?

    Avevo visto un’attrice fare così in un film. Guardavo spesso la tivù o leggevo libri nei tempi morti. Erano fonte di spunti molto utili, che rendevano il mio repertorio più variegato e mi permettevano di adempiere meglio ai miei doveri. Ma qualcosa mi diceva che in quella particolare occasione non avrei dovuto rispondere alla sua domanda. Ero certa che lui non volesse affatto conoscere la risposta. Era il fatto di non saperlo a divertirlo. E divertirlo era uno dei miei doveri.

    È molto tardi. Dovresti smettere di lavorare. Ero passata dal tono di assistente a quella di amorevole compagna.

    Annuì. Eh, sì… mormorò, lasciandosi sfuggire un sospiro. Disattivò lo schermo olografico del proprio terminale e si rilassò sulla poltrona.

    Mi staccai dalla porta e con passo lento girai intorno alla scrivania, facendo scivolare l’indice sulla sua superficie. Mi fermai di fronte a lui. Gli passai una mano sui capelli e sul viso, mentre i suoi occhi mi fissavano incerti, poi portai entrambe le mani ai fianchi. Disinteressandomi di lui, volsi lo sguardo verso la parete di vetro, attraverso cui si vedevano le luci della città. Là fuori il cielo era già buio da un pezzo. Poi mi girai a osservare la scrivania. Era in disordine, come sempre. Feci spazio, spostando alcuni oggetti, e mi ci sedetti sopra con noncuranza. Mi sfilai le scarpe. Il rumore che fecero, cadendo sul pavimento, risuonò nel silenzio della stanza.

    Infine lo guardai. Stava osservando le mie gambe nude, ma con la coda dell’occhio notò il movimento della mia testa e si voltò nella direzione del mio viso. Gli sorrisi, mentre allungavo un piede e lo posavo sul suo ginocchio. Presi a farlo salire lungo l’interno della sua coscia, piano.

    Mi sentii afferrare alla caviglia, ma non distolsi lo sguardo dal suo.

    Gabriel si alzò e mi si parò davanti. Avvolsi il suo corpo con le gambe e lo attirai a me.

    Potevo distinguere chiaramente la sua eccitazione, ne conoscevo i segni fisiologici. Il respiro affannato, le pupille dilatate. Potevo sentirla, mentre premeva il proprio corpo contro il mio.

    E lui poteva vedere la mia, anche se non era del tutto reale. Lo era a livello fisico, sì, ma non mentale. Se avessi potuto davvero sentire qualcosa, sarebbe stata tristezza nei confronti di un uomo così incapace di relazionarsi con una donna da arrivare a innamorarsi di una come me.

    Gabriel mi baciò e io, da amorevole compagna, mi tramutai come sempre nell’amante perfetta, alimentando quel sentimento effimero.

    ***

    Chiusa nel suo laboratorio di ricerca, Gaia stava litigando di nuovo con quell’aggeggio, il folio. Quando era nervosa, continuava a dare colpetti troppo forti o troppo leggeri, e il dispositivo non reagiva molto bene ai primi, mentre ai secondi non reagiva affatto.

    Che strazio. Quanto avrebbe voluto collegarlo all’impianto olografico per poterci lavorare nello spazio reale. Ma non era proprio il caso. Il dispositivo era registrato sulla rete della città come una partizione della sua espansione, qualsiasi utilizzo anomalo sarebbe stato rilevato in una frazione di secondo. Era meglio evitare di mettere alla prova l’efficienza del sistema di sicurezza. D’altronde era stata lei a crearlo e sapeva quanto fosse

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