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Perduti su Venere: Carson di Venere 2
Perduti su Venere: Carson di Venere 2
Perduti su Venere: Carson di Venere 2
E-book275 pagine4 ore

Perduti su Venere: Carson di Venere 2

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Fantascienza - romanzo (231 pagine) - Continuano le avventure di Carson Napier nel secondo romanzo del divertente e avventuroso ciclo di Venere dal creatore di Tarzan e John Carter di Marte


Torna Carson Napier con le sue avventure sul pianeta Amtor, meglio noto come Venere. Carson questa volta si trova davanti a sette porte: sei porta a una morte orrenda, solo una porta alla vita. Dopo aver affrontato il rompicapo, Carson continua le sue avventure per cercare di salvare la principessa più bella del pianeta, affrontando i rischi più incredibili, incluse le guardie della principessa pronte a ucciderlo appena entrerà nel loro territorio.


Edgar Rice Burroughs (1875-1950) è senza alcun dubbio uno degli scrittori d'avventura di maggior successo. Eppure la sua carriera è nata quasi per caso: senza istruzione oltre la scuola dell'obbligo, non riesce né nella carriera militare né in quella professionale, passando da un lavoro all'altro senza mai fortuna. Ormai sull'orlo del suicidio prova con la scrittura: il suo primo romanzo, Sotto le lune di Marte, pubblicato a puntate sulla rivista The All-Story, viene accolto con entusiasmo e sarà l'inizio di un ciclo – quello di John Carter di Marte – che arriverà a contare undici volumi.

Ma è nulla rispetto al successo che ottiene due anni dopo, con la pubblicazione di Tarzan delle scimmie. Una serie che diventa un clamoroso fenomeno che darà il via non solo a numerosi romanzi, ma a oltre trenta film, e fumetti, serie tv, cartoni animati. Al punto che ben due città, Tarzana in California e Tarzan in Texas, prendono il nome dal suo personaggio.

Oltre a Marte e alla giungla Burroughs visita il centro della Terra con la serie di Pellucidar, la Luna col ciclo del Popolo della Luna, e Venere col ciclo di Carson di Venere, che presentiamo in questa collana.

LinguaItaliano
Data di uscita6 apr 2021
ISBN9788825415230
Perduti su Venere: Carson di Venere 2
Autore

Edgar Rice Burroughs

Edgar Rice Burroughs (1875-1950) had various jobs before getting his first fiction published at the age of 37. He established himself with wildly imaginative, swashbuckling romances about Tarzan of the Apes, John Carter of Mars and other heroes, all at large in exotic environments of perpetual adventure. Tarzan was particularly successful, appearing in silent film as early as 1918 and making the author famous. Burroughs wrote science fiction, westerns and historical adventure, all charged with his propulsive prose and often startling inventiveness. Although he claimed he sought only to provide entertainment, his work has been credited as inspirational by many authors and scientists.

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    Anteprima del libro

    Perduti su Venere - Edgar Rice Burroughs

    9788825415285

    Premessa

    Quando Carson Napier lasciò il mio ufficio per volare fino all’Isola di Guadalupe e di là partire per Marte con il gigantesco razzo da lui costruito a questo scopo, ero certo che non lo avrei mai più rivisto di persona. Pur essendo sicuro che gli sviluppatissimi poteri telepatici con cui intendeva comunicare con me mi avrebbero permesso di vederlo e di parlargli, non mi aspettavo peraltro nessun messaggio una volta che lui avesse attivato i comandi del razzo, perché pensavo che Carson Napier sarebbe morto entro pochi secondi dopo aver dato inizio al suo folle progetto.

    I miei timori risultarono però infondati e così lo seguii durante il suo pazzesco viaggio di un mese attraverso lo spazio, tremando con lui quando la forza di gravità della Luna allontanò il razzo dalla sua corsa e lo scagliò verso il sole, trattenendo con lui il respiro quando venne intrappolato dalla sfera gravitazionale di Venere e seguendo con passione le sue iniziali avventure su quel misterioso pianeta ammantato di nubi… Amtor, come lo chiamano i suoi abitanti.

    Il suo amore per l’irraggiungibile Duare, figlia di un re, la loro cattura da parte dei crudeli Thoristi e l’abnegazione personale con cui lui infine salvò la ragazza ebbero il potere d’incantarmi.

    Anch’io vidi quello strano e alieno uomo uccello trasportare Duare lontano dalle rocciose coste del Noobol e verso la nave che l’avrebbe riportata alla sua terra natale proprio mentre Carson veniva sopraffatto e catturato da un folto gruppo di Thoristi.

    Lo vidi… ma ora lascerò che sia Carson Napier a raccontare la sua storia con le sue parole e tornerò a rivestire il mio impersonale ruolo di scrivano.

    Capitolo primo

    Le sette porte

    Alla testa dei miei catturatori c’erano l’Ongyan Moosko e la spia thorista Vilor, gli uomini che insieme avevano organizzato e attuato il rapimento di Duare a bordo della Sofal.

    I due avevano raggiunto la terraferma con la loro prigioniera trasportati da quegli strani uomini volanti di Venere chiamati angan (per rendere la narrazione più semplice da seguire ho intenzione di abbandonare i prefissi del plurale, kl e kloo e di uniformare la forma plurale a quella singolare). I due avevano poi abbandonato Duare alla sua sorte quando erano stati attaccati da un gruppo di pelosi selvaggi, ma per fortuna io ero giunto in tempo per salvarla con l’aiuto del solo angan superstite fra i cinque che l’avevano eroicamente difesa.

    Adesso però, pur avendo precedentemente abbandonato la ragazza a una morte quasi certa, i due erano infuriati con me perché ero riuscito a sottrarla loro facendola riportare sulla Sofal dall’angan. Entrambi si guardarono bene dal prendere personalmente parte alla mia cattura, ma una volta che i loro uomini mi ebbero disarmato ritrovarono di colpo il coraggio e mi aggredirono con tale violenza che credo che avrebbero finito per uccidermi sul posto se non fosse stata suggerita loro un’idea migliore da uno dei Thoristi che facevano parte del gruppo che mi aveva catturato.

    Infatti Vilor aveva appena sottratto una spada a uno dei suoi compagni mostrando ogni intenzione di volermi fare a pezzi, quando quest’uomo intervenne.

    – Aspetta! – esclamò. – Cos’ha fatto costui, perché debba essere ucciso in fretta e senza sofferenze?

    – Cosa intendi dire? – domandò Vilor, abbassando però la punta dell’arma.

    Il territorio dove ci trovavamo era sconosciuto per lui quasi nella stessa misura in cui lo era per me, perché Vilor era originario della distante regione di Thora, mentre gli uomini che lo avevano aiutato a catturarmi erano nativi di Noobol che erano stati indotti a unirsi ai Thoristi nel loro tentativo di fomentare dovunque la discordia e di rovesciare tutte le forme precostituite di governo per sostituirle con la loro oligarchia di individui ignoranti.

    – A Kapdor – aggiunse l’uomo, notando la perplessità di Vi-lor – abbiamo modi molto più interessanti di liberarci dei nemici che infilzarli con una spada.

    – Spiegati – ingiunse allora l’Ongyan Moosko. – Quest’uomo non merita la misericordia di una rapida fine. Era prigioniero sulla Sofal con altri Vepajani e ha guidato un ammutinamento nel corso del quale tutti gli ufficiali della nave sono stati assassinati; ha quindi catturato la Sovong, liberando i suoi prigionieri e saccheggiandola per poi gettare in mare i suoi cannoni e ripartire per iniziare una spedizione piratesca.

    «Con la Sofal, ha attaccato la Yan, una nave mercantile su cui io, un ongyan, ero passeggero. Ignorando la mia autorità ha aperto il fuoco sulla Yan e l’ha abbordata. Dopo averla saccheggiata e aver distrutto i suoi armamenti mi ha fatto prigioniero e trasferito sulla Sofal, trattandomi con la massima mancanza di rispetto, minacciando la mia vita e privandomi della libertà.

    «Per tutte queste cose deve morire, e se conosci un modo per dargli una morte commisurata alla gravità dei suoi crimini sarai adeguatamente ricompensato da coloro che governano Thora.

    – Riportiamolo a Kapdor con noi – replicò l’uomo. – Là abbiamo la stanza delle sette porte, e vi prometto che un individuo intelligente soffrirà in essa agonie maggiori di quelle che la punta di una spada potrebbe mai infliggergli.

    – Bene! – esclamò Vilor, restituendo la spada all’uomo a cui l’aveva sottratta. – Quest’individuo merita la fine peggiore possibile.

    Mi sospinsero lungo la costa nella direzione da cui erano venuti, e nel corso della marcia la loro conversazione mi permise di scoprire a quale malaugurata circostanza fosse dovuta la sfortuna che si era abbattuta su di me proprio quando ormai sembrava possibile che io e Duare potessimo far ritorno alla Sofal e ai nostri fedeli amici.

    Questo gruppo di uomini armati proveniente da Kapdor era alla ricerca di un prigioniero fuggito quando la sua attenzione era stata attirata dallo scontro fra gli uomini pelosi e gli angan rimasti a difendere Duare… proprio come io stesso ero stato attirato sul posto mentre ero impegnato a cercare la splendida figlia di Mintep, il jong di Vepaja.

    Quando si era recato a indagare, il gruppo aveva incontrato Moosko e Vilor che stavano fuggendo dal luogo dello scontro e li avevano scortati sul posto arrivandovi proprio nel momento in cui Duare, l’angan superstite e io avvistavamo la Sofal al largo della costa e cercavamo di escogitare un modo per segnalarle la nostra presenza.

    I segnali li avevano attirati verso di noi e dal momento che l’angan poteva trasportare soltanto una persona per volta, gli avevo ordinato di portare Duare fino alla nave. Lei aveva rifiutato di lasciarmi, e l’angan si era mostrato timoroso di far ritorno alla Sofal dopo aver partecipato al rapimento della principessa, ma alla fine io lo avevo obbligato a prendere con sé Duare e a spiccare il volo proprio un attimo prima che i Thoristi ci fossero addosso.

    In quel momento dal mare soffiava un vento molto forte che aveva destato in me il timore che l’angan potesse non riuscire ad arrivare sano e salvo con il suo carico fino al ponte della nave… ma dentro di me sapevo che per Duare sarebbe stato assai meno orribile morire fra le onde che essere catturata dai Thoristi e in particolare da Moosko.

    I miei catturatori avevano indugiato soltanto per pochi minuti a osservare l’uomo uccello impegnato a lottare contro il vento nel trasportare il suo prezioso fardello, poi si erano incamminati per far ritorno a Kapdor allorché Moosko aveva sottolineato il fatto che Kamlot, che aveva adesso il comando della Sofal, avrebbe senza dubbio fatto sbarcare una squadra per inseguirli non appena Duare lo avesse informato della mia cattura.

    Così, quando il sentiero ci portò al di sotto della sommità rocciosa dell’altura, Duare e l’angan scomparvero dal nostro campo visivo e io mi sentii condannato ad affrontare le poche ore di vita che mi rimanevano senza conoscere la sorte della splendida ragazza venusiana che il destino aveva decretato dovesse essere il mio primo amore.

    Il fatto che avessi finito per innamorarmi proprio di quella particolare ragazza quando la terra di Vepaja abbondava di donne splendide era già di per sé una tragedia, perché Duare era la figlia vergine di un jong… un re… e come tale le usanze la rendevano sacrosanta e inavvicinabile.

    Durante i suoi diciotto anni di vita non le era stato permesso di frequentare nessun uomo al di fuori dei membri della famiglia reale e di pochi fidati servitori… fino al giorno in cui io avevo invaso il suo giardino e l’avevo fatta oggetto delle mie attenzioni. Poi, poco tempo dopo, un gruppo di razziatori thoristi era riuscito a rapirla, lo stesso gruppo che aveva catturato anche Kamlot e me.

    Pur essendo rimasta sconvolta e terrorizzata dalla mia dichiarazione d’amore, Duare non aveva denunciato il mio crimine contro le usanze venusiane, ma d’altro canto aveva sempre dimostrato di disprezzarmi fino a quell’ultimo momento sulla sommità dell’altura rocciosa che dominava il burrascoso mare venusiano, quando avevo ordinato all’angan di portarla in salvo sulla Sofal.

    – Non mi mandare via da te, Carson! – aveva implorato, protendendo le braccia. – Non mi mandare via! Ti amo!

    Quelle parole incredibili mi echeggiavano ancora negli orecchi e destavano in me un senso di esaltazione nonostante la prospettiva della morte senza nome che sapevo attendermi nella misteriosa stanza delle sette porte.

    I Thoristi di Kapdor che formavano la mia scorta si mostrarono molto incuriositi dai miei capelli biondi e dai miei occhi azzurri, colori che finora erano risultati ignoti a tutti i Venusiani da me incontrati, e interrogarono Vilor al riguardo. Questi insistette però sul fatto che io ero un Vepajano e dal momento che i Vepajani erano i più letali nemici dei Thoristi la sua dichiarazione avrebbe comunque segnato la mia sorte anche se io non fossi stato colpevole delle accuse già mosse contro di me da Moosko.

    – Sostiene di provenire da un altro mondo lontano da Amtor – aggiunse Vilor – ma è stato catturato in Vepaja in compagnia di un altro Vepajano e sembra conoscere bene Duare, la figlia di Mintep, il jong di Vepaja.

    – Quale altro mondo ci potrebbe mai essere al di fuori di Amtor? – rise uno dei soldati.

    – Nessuno, naturalmente – replicò un altro. – Al di là di Amtor ci sono soltanto fuoco e rocce fuse.

    La teoria cosmica degli Amtoriani è avvolta in una nebbia indissolvibile nella stessa misura in cui il loro pianeta è circondato da due grandi cerchi di nubi. Avendo notato la lava che fuoriesce dai loro vulcani, essi sono giunti a visualizzare un mare di roccia fusa su cui Amtor galleggia come un enorme disco, e gli occasionali spiragli nella coltre di nubi che li avviluppa, attraverso i quali hanno potuto scorgere il sole sovrastante e avvertire il suo spaventoso calore, li hanno convinti che tutt’intorno non c’è altro che fuoco; allorché quelle fenditure si sono verificate di notte, nel vedere le stelle gli Amtoriani hanno pensato che esse fossero le scintille prodotte dall’eterna fornace che alimenta il mare di rocce fuse sottostante il loro mondo.

    Io ero quasi spossato per tutto ciò che avevo passato da quando la furia dell’uragano e gli sballottamenti della Sofal mi avevano svegliato la notte precedente. Dopo che una grande ondata mi aveva gettato fuori bordo avevo dovuto sostenere una lunga lotta contro il mare in tempesta che avrebbe del tutto consumato le energie di un uomo meno resistente, e quando ero finalmente arrivato a terra mi ero messo subito alla ricerca di Duare e dei suoi rapitori soltanto per trovarmi a sostenere un altro combattimento, questa volta contro i selvaggi nobargan, i pelosi uomini-bestia che avevano attaccato il gruppo che stavo cercando.

    Adesso ero ormai prossimo a crollare quando nel superare la cresta di un’altura scorsi davanti a me una città cinta da mura che sorgeva vicino al mare, all’imboccatura di una piccola valle, e intuii che si doveva trattare di Kapdor, la nostra meta. Pur sapendo che laggiù mi attendeva la morte, non potei fare a meno di guardare con ansia al momento in cui l’avrei raggiunta, perché supponevo che dietro le robuste mura della città mi attendessero anche acqua e cibo.

    La porta attraverso cui entrammo nell’abitato era ben sorvegliata, il che lasciava intuire che Kapdor dovesse avere molti nemici, e al suo interno tutti i cittadini circolavano armati di spada, daga o pistola… armi simili a quelle con cui avevo acquisito familiarità nella casa di Duran, il padre di Kamlot, nella città arborea di Kooaad che era la capitale dell’isola che costituiva il regno di Mintep, Vepaja.

    Le pistole emettevano un letale raggio R che distruggeva qualsiasi tessuto animale ed erano molto più letali delle 45 automatiche con cui noi abbiamo familiarità, perché continuavano a emettere un raggio ininterrotto e distruttivo finché il meccanismo che le azionava veniva mantenuto in funzione mediante la pressione di un dito.

    Per le strade di Kapdor si vedevano molte persone, che apparivano però spente e apatiche al punto che neppure la vista di un prigioniero biondo con gli occhi azzurri riuscì a destare un minimo di interesse nei loro cervelli intorpiditi. L’impressione che mi fecero fu quella di bestie da soma che svolgessero i loro monotoni compiti senza il minimo stimolo derivante dall’immaginazione o dalla speranza. Quegli individui erano armati soltanto di daga, mentre altri che supposi appartenere alla classe dei soldati erano forniti anche di spada e di pistola: pur apparendo più allegri e attenti, cosa evidentemente dovuta al maggiore favore di cui godevano, essi non sembravano però più intelligenti degli altri.

    Gli edifici erano per lo più casupole a un solo piano, sebbene se ne scorgessero di più pretenziosi a due o addirittura a tre piani, ed erano costruiti per la maggior parte in legno a causa dell’abbondanza di foreste in quella regione di Amtor… da nessuna parte avevo però notato alberi enormi come quelli che crescevano sull’isola di Vepaja e che erano stati la prima cosa da me vista nel giungere su Venere.

    Fra gli altri si vedevano anche alcuni edifici di pietra che si affacciavano sulla strada lungo la quale i miei catturatori mi stavano scortando, ma erano tutte costruzioni squadrate e insignificanti senza la minima traccia d’immaginazione o di genio artistico.

    Infine i miei catturatori mi condussero in una piazza circondata da palazzi più grandi anche se non più belli di quelli accanto a cui eravamo passati in precedenza… perfino qui si scorgevano però squallore e tracce d’inefficienza e d’incompetenza.

    Vilor, Moosko e il capo del gruppo che mi aveva catturato mi guidarono in un edificio il cui ingresso era sorvegliato da alcuni soldati e fino a una stanza grande e spoglia, dove un uomo corpulento dall’aspetto grossolano stava dormendo su una sedia, con i piedi posati su un tavolo che gli serviva evidentemente tanto da scrivania quanto da tavolo da pranzo, a giudicare da come la sua superficie era cosparsa di documenti e degli avanzi di un pasto.

    Disturbato dal nostro ingresso l’uomo aprì un occhio e per un momento ci fissò con espressione opaca.

    – Salve, Amico Sov! – esclamò l’ufficiale che mi aveva scortato lì.

    – Oh, sei tu, Amico Hokal? – borbottò Sov, in tono assonnato. – E questi altri chi sono?

    – L’Ongyan Moosko di Thora, l’Amico Vilor e un prigioniero vepajano da me catturato.

    Nel sentire il titolo di Moosko, Sov si alzò subito in piedi, perché un ongyan era un membro dell’oligarchia e una persona importante.

    – Salve, Ongyan Moosko! – esclamò. – E così ci hai portato un Vepajano. Per caso è un dottore?

    – Non lo so e non m’importa – scattò Moosko. – È un tagliagole e un furfante e deve morire, che sia o meno un dottore.

    – Ma abbiamo bisogno di dottori – insistette Sov. – Molti di noi stanno morendo a causa delle malattie e della vecchiaia e se non otterremo presto un dottore moriremo tutti.

    – Hai sentito cosa ho detto, vero, Amico Sov? – chiese Moosko, in tono seccato.

    – Sì, ongyan – si arrese l’ufficiale, con fare sottomesso – morirà. – Devo farlo giustiziare subito?

    – L’Amico Hokal mi ha detto che voi avete un modo più lento e piacevole della spada o della pistola per eliminare i furfanti e la cosa mi interessa. Spiegami di cosa si tratta.

    – Gli ho accennato alla stanza delle sette porte – intervenne Hokal. – Vedi, le colpe commesse da quest’uomo sono tremende: ha fatto prigioniero il grande ongyan e ha perfino minacciato la sua vita.

    – Non c’è morte adeguata a un simile crimine – dichiarò Sov, inorridito – ma farò approntare la stanza delle sette porte, che è quanto di meglio abbiamo da offrire.

    – Descrivila, descrivila – ingiunse Moosko. – Com’è fatta? Cosa gli succederà? Come morirà?

    – Evitiamo di parlarne in presenza del prigioniero – suggerì Hokal – altrimenti rovinerete l’effetto che la stanza delle sette porte avrà su di lui.

    – Sì, fallo rinchiudere – ordinò Moosko. – Che lo mettano in una cella.

    Sov chiamò un paio di soldati che mi condussero in una stanza posteriore e mi spinsero in una cantina buia e priva di finestre, chiudendo poi la pesante botola sopra di me e lasciandomi ai miei cupi pensieri.

    La stanza delle sette porte…. quel nome mi affascinava, inducendomi a chiedermi cosa mi attendesse in essa, quale strana e orribile morte vi si annidasse. Forse non sarebbe poi stata una cosa tanto terribile, forse stavano soltanto cercando di rendere la mia fine più spaventosa con quei minacciosi sottintesi.

    Dunque era così che sarebbe terminato il mio tentativo di raggiungere Marte! Sarei morto in solitudine in questo remoto avamposto dei Thoristi nella terra di Noobol, che per me era poco più di un nome. E pensare che su Venere c’era tanto da scoprire e io ne avevo visto ben poco!

    Richiamai alla mente tutto quello che Danus mi aveva detto, le informazioni relative a Venere che avevano stimolato la mia immaginazione… racconti scarni, poco più che favole, concernenti Karbol, la regione fredda dove vagavano bestie strane e selvagge e uomini ancor più strani e selvaggi; e le storie su Trabol, la regione calda in cui si trovava l’isola di Vepaja, verso la quale il caso aveva guidato il razzo con cui avevo viaggiato fin là dalla Terra. Soprattutto, però, ciò che mi aveva interessato erano stati i racconti relativi a Strabol, la regione torrida, perché ero certo che corrispondesse alla zona equatoriale del pianeta e che al di là di essa si dovesse estendere una vasta regione inesplorata la cui esistenza era del tutto ignota agli abitanti dell’emisfero meridionale… la zona temperata settentrionale.

    Una delle mie speranze quando mi ero impadronito della Sofal e avevo intrapreso la carriera di capitano pirata era stata quella di riuscire a trovare un passaggio oceanico che portasse al nord e a quella terra incognita. Quali strane razze e nuove civiltà avrei potuto scoprire laggiù! Adesso ero però giunto alla fine non soltanto della speranza ma anche della mia vita.

    Decisi di smetterla di pensarci: se avessi continuato a farlo sarebbe stato facile scivolare nell’autocompassione e quella era una cosa che volevo evitare perché portava allo scoraggiamento.

    Dentro la mia mente avevo un’abbondante riserva di ricordi piacevoli e li evocai in mio soccorso. C’erano i giorni felici che avevo trascorso in India prima che mio padre, un ufficiale inglese, morisse… ripensai al vecchio Chand Kabi, il mio tutore, e a tutto quello che avevo imparato da lui al di fuori di ciò che insegnavano i libri di scuola, non ultima fra esse la soddisfacente filosofia che ora trovai comodo impiegare in questo momento estremo. Era stato Chand Kabi a insegnarmi a usare al massimo le risorse della mente e a proiettarla attraverso lo spazio illimitato fino a raggiungere un’altra mente sintonizzata per riceverne il messaggio… potere senza il quale i frutti della mia strana avventura sarebbero morti con me nella stanza delle sette porte.

    Avevo anche altri piacevoli ricordi con cui dissipare il tetro velo che avviluppava il mio immediato futuro… ripensai ai buoni e fedeli amici che mi ero fatto durante la mia breve permanenza su questo distante pianeta: Kamlot, il mio migliore amico su Venere, e i «tre moschettieri» della Sofal, il contadino Gamfor, il soldato Kiron e lo schiavo Zog. Tutti e quattro erano stati davvero dei buoni amici.

    E poi c’era Duare, il ricordo più piacevole fra tutti. Lei valeva i pericoli che avevo corso e le ultime parole che mi aveva rivolgo erano tali da compensare perfino la mia morte imminente. Lei, la speranza di un mondo, l’irraggiungibile e incomparabile figlia di un re aveva detto di amarmi. Ero quasi propenso a credere che gli orecchi mi avessero giocato uno scherzo, perché prima di allora in tutte le brevi frasi che mi aveva rivolto lei si era sforzata di farmi capire che non soltanto non era destinata a un uomo come me ma che per di più mi aborriva. Le donne sono davvero strane.

    Non so per quanto tempo rimasi in quel buco buio, ma dovettero trascorrere molte ore; infine sentii dei passi nella stanza sovrastante, la botola venne aperta e mi fu ordinato

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