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Fantascienza - romanzo (292 pagine) - Nell'anno in cui ricorrono i centenari di Isaac Asimov e Ray Bradbury quattordici autori cresciuti con le loro storie propongono il loro personale omaggio


Non ci sono, forse, due autori altrettanto iconici per il genere della fantascienza. Isaac Asimov e Ray Bradbury, nati entrambi cent'anni fa, nel 1920, cresciuti insieme nel fandom della fantascienza, diventando da semplici lettori a scrittori, fino a raggiungere il successo. Il primo, newyorkese, affascinato dalla scienza, dal suo rigore e dai suoi paradossi; il secondo, californiano, insofferente agli schemi, alla ricerca di qualcosa di inafferrabile, usando i viaggi nello spazio per esplorare il pianeta uomo.

Tanti appassionati, tanti scrittori di fantascienza sono cresciuti sulle loro pagine, e hanno cominciato a scrivere seguendone le orme. Anche in Italia.

Paolo Aresi ha chiesto a quattordici tra i migliori autori italiani che si riconoscono in questa descrizione di scrivere una storia che rendesse loro omaggio. Ne è uscita questa antologia, che comprende quattordici racconti più due, da due autori che, a loro volta, hanno influenzato e ispirato i due grande maestri.


Paolo Aresi è nato a Bergamo nel 1958. Laureato in Lettere, giornalista a L’Eco di Bergamo, ha debuttato nella narrativa con il romanzo di fantascienza Oberon, l’avamposto fra i ghiacci. Nel 1992 ha ottenuto il premio Courmayeur con il racconto Stige. Nel 1995 ha pubblicato Toshi si sveglia nel cuore della notte, un romanzo realistico, dai toni noir. Nel 2004 ha vinto il Premio Urania con Oltre il pianeta del vento. Con Ho pedalato fino alle stelle (Mursia, 2008, due edizioni) è tornato al romanzo realistico con un’opera di sentimenti e passione per la bicicletta. Nel 2010 per l’editore Mursia nella collana di letteratura ha pubblicato il romanzo post-apocalittico L’amore al tempo dei treni perduti. Nel 2011 è apparso in Urania Korolev, appassionato omaggio al “progettista capo” del progetto spaziale sovietico che diventa una sorprendente epopea fantascientifica.

LinguaItaliano
Data di uscita14 lug 2020
ISBN9788825412796
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    Anteprima del libro

    Bicentenario - Paolo Aresi

    9788825408232

    Introduzione

    Paolo Aresi

    I due autori principali della fantascienza degli Anni d’oro sono nati entrambi nel 1920, cento anni fa. Asimov il 2 gennaio e Bradbury il 22 agosto. In realtà Asimov non sapeva bene quale fosse il giorno esatto, ci scherzava lui stesso dicendo che a quel tempo in Russia si seguiva il calendario Giuliano, di tredici giorni discosto dal nostro, e per di più la sua famiglia era ebrea e quindi rispettava una certa sequenza di festività; inoltre, le anagrafi di quel periodo non erano poi così efficienti.

    Sia Asimov che Bradbury raggiunsero il loro massimo fulgore creativo negli anni Quaranta e Cinquanta, quando composero le loro opere principali e più note. Per Asimov ci riferiamo al ciclo della Fondazione e alle storie dei Robot (entrambi scritti tra il 1942 e il 1950), per quanto concerne Bradbury viene spontaneo pensare ai racconti che composero poi il capolavoro Cronache Marziane (1947-1950) e al romanzo Fahrenheit 451 (1953), più numerosi altri racconti.

    Quando cominciai a leggere fantascienza in maniera sistematica, Asimov e Bradbury erano considerati i due mostri sacri per eccellenza. C’erano tanti autori bravissimi, da Heinlein a Sheckley a Simak a Sturgeon, ma Asimov e Bradbury li battevano tutti. Erano paradigmatici. E diversi. Costituivano, nel nostro immaginario giovanile, le due facce opposte della stessa medaglia.

    La stessa medaglia era quella della letteratura di fantascienza che ancora, e più di prima, in quegli anni Quaranta e Cinquanta riusciva a trasmettere il senso del meraviglioso che le era peculiare. Più di prima perché le opere degli autori di questo periodo erano ben più mature dei racconti e dei romanzi degli autori della generazione precedente come E.E. doc Smith, Donald Wandrei, Laurence Manning, Murray Leinster, Raymond Z. Gallun, scrittori certamente validi ma la cui narrativa peccava di una ingenuità, di una superficialità letteraria che non ha retto l’urto del tempo.

    Le cose cambiarono con Stanley G. Weinbaum e con John W. Campbell, autori che maturarono una superiore consapevolezza letteraria, che, potremmo dire, salirono un gradino al di sopra delle esigenze espresse dai pulp. Weinbaum morì troppo presto. Campbell si dimostrò un ottimo scrittore ma, soprattutto, un grande editor, capace di allevare un’intera generazione di validissimi scrittori. Asimov fu senz’altro fra questi, ma anche Bradbury in fondo, sebbene in maniera diversa: perché per il direttore di Astounding le storie di Bradbury erano troppo vicine al fantasy, all’horror.

    Bradbury non era poi così interessato alla verosimiglianza tecnologica e scientifica dei suoi racconti. Su Marte faceva agire dei Marziani che si sapeva bene già allora non potessero esistere. E i razzi che giungevano sul Pianeta Rosso non venivano spiegati, così come i viaggi, i sistemi tecnologici per sopravvivere… A Bradbury interessavano altri aspetti, che sono quelli della poesia, del sogno, delle profondità dell’animo. Prendiamo il primo racconto di Cronache Marziane, nelle prime righe: I coniugi K vivevano da vent’anni presso il mare estinto e i loro avi avevano vissuto nella stessa casa, che girava su stessa, seguendo il sole, come il fiore, da dieci secoli. I coniugi K non erano vecchi. Avevano la pelle ambrata dei veri marziani, gli occhi come gialle monete, le voci molli e armoniose…

    Bellissimo, scientificamente assurdo, letterariamente affascinante.

    Eppure Bradbury qualcosa deve a Campbell. Me lo disse lui stesso in quel gennaio del 1986 quando con Forrest Ackerman e con Betti Filippini andai a fargli visita; nel suo studio, a Beverly Hills, disse più o meno così: Campbell mi trasmise l’importanza della concretezza, dell’ossatura salda di una storia.

    Probabilmente, Asimov fu il figlio prediletto di Campbell e le sue storie incarnarono perfettamente l’idea di fantascienza che Campbell coltivava: d’altro canto, Asimov amava la scienza quanto la fantascienza: si laureò in chimica, anche se praticò soltanto sotto le armi. Le sue storie presentavano uno sviluppo logico, consequenziale, scientificamente plausibile, che sapeva tuttavia risultare sorprendente. Riguardo a Campbell, Asimov scrisse: Io ho vissuto l’età dell’Oro della fantascienza nel modo migliore possibile, perché sono stato tra i primi nuovi scrittori scoperti da Campbell, e sono certo che egli non provò mai per alcun altro scrittore un interesse così personale, quasi paterno.

    Bradbury era nato nell’Illinois e in quello stato del nord degli Stati Uniti rimase fino ai quattordici anni, poi i suoi genitori si trasferirono a Los Angeles. I paesaggi della sua infanzia ritornano in Cronache Marziane, da subito, nella prima pagina, anche se sono spostati nel vicino Ohio. Fino a un istante prima era ancora l’inverno dell’Ohio, le porte chiuse, i vetri alle finestre ricoperti di brina, stalattiti di ghiaccio a frangia di ogni tetto, bimbi che sciavano sui pendii, massaie dondolanti come grandi orsi neri nelle loro pellicce sulle vie gelate. Fu in quegli anni che Bradbury incontrò la magia del circo. In particolare fu l’incontro con l’Uomo Elettrico a suggestionarlo profondamente. A Bradbury il circo faceva tristezza, ma allo stesso tempo lo affascinava. C’erano nel circo la malinconia e una certa malandata, povera meraviglia. L’Uomo Elettrico gli disse che lui, Ray, era la reincarnazione di un suo amico che era morto durante la Prima guerra mondiale… Bradbury raccontava che fu in quel momento che decise di scrivere, ogni giorno della sua vita.

    Poi ci fu il trasferimento a Los Angeles, il grande amore per la science fiction, l’incontro con autori come Henry Kuttner, Catherine L. Moore, Robert Heinlein, Leigh Brackett (che lo ispirò con le sue ambientazioni marziane)… entrò in un gruppo di fan che si incontravano ogni settimana. Il giovane Ray diede vita anche a una fanzine: Futura Fantasia. Nel 1939 partecipò alla sua prima convention di science fiction, volando fino a New York, e due anni dopo vendette il suo primo racconto, Pendulum, scritto con Henry Hasse, al pulp Super Science Fiction. Lo stile del giovane Ray si distingueva già per il non consueto livello letterario, era ricco dal punto di vista lessicale, denso di metafore, di similitudini, analogie. Non si trattava certo dello stile secco e asciutto preferito dai lettori del tempo, e nemmeno quello che voleva Campbell, che pur riconosceva le qualità letteraria del giovane. Nel 1944 i racconti di Bradbury, con tocchi di horror e di fantasy, approdavano a Weird Tales, la principale rivista di Letteratura dell’insolito che veniva pubblicata negli Stati Uniti; sulle sue pagine scrissero autori indimenticabili, a partire da Lovecraft e Howard, ma pure Leigh Brackett, Fritz Leiber, Theodore Sturgeon. Il talento letterario del giovane Bradbury venne notato anche al di fuori delle riviste di science fiction: nella seconda metà degli anni Quaranta cominciò a collaborare anche con pubblicazioni di prestigio del panorama giornalistico-letterario americano come Collier’s e Newyorker.

    La vicenda di Asimov non è del tutto diversa. Il piccolo Isaac era nato in Russia, i suoi genitori emigrarono negli Stati Uniti quando aveva due anni. Il padre prese in gestione un negozietto, un po’ drogheria, un po’ tabaccheria e un po’ edicola, un candy store, quando Isaac aveva sei anni. In quei mesi uscì il primo numero di Amazing Stories, la prima rivista di fantascienza di Hugo Gernsback, ma il piccolo Isaac poté leggerla solo a partire dal 1929, insieme a Science Wonder Stories e Air Wonder Stories. Era l’alba della fantascienza, che, nata dalla penna di Mary Shelley, Jules Verne, Herbert George Wells, diventava un genere letterario popolare, a se stante. In quei mesi apparve il primo grande romanzo da pulp: The Skylark of Space di Edward E. Smith, al quale Asimov volle molto bene, pur essendo consapevole dello scarso valore di quest’opera, che tuttavia all’epoca aveva avuto un grande successo. Anni dopo Asimov ne scrisse: Dal punto di vista letterario, era uno schifo sommo: ma era qualcosa di più, molto di più, che una semplice opera letteraria: offriva l’avventura, e di un genere senza precedenti! C’era la prima comparsa del volo interstellare…

    Come Bradbury, Asimov divenne un divoratore di racconti e romanzi di science fiction. Un vero fan. Scrisse molte lettere ad Astounding Stories quando questa era già guidata da Campbell. Nel 1938 venne invitato a una riunione di un gruppo di appassionati, la Queens Science Fiction League. Scrisse Asimov: Lasciai per qualche ora il negozio (era domenica pomeriggio, quando gli affari vanno a rilento) e presenziai. Per la prima volta mi unii con altri lettori di fantascienza… c’erano Fred Pohl, Richard Wilson, Donald Wollheim, Sam Moskowitz e Scott Meredith.

    Il suo primo racconto, Naufragio al largo di Vesta, apparve l’anno dopo su Amazing.

    La maturazione del giovane scrittore fu rapida. Negli anni Quaranta Asimov scrisse i racconti che poi andarono a formare il nucleo fondamentale del ciclo della Fondazione, la celebre Trilogia galattica.

    Quanto lo stile di Bradbury era metaforico e visionario, lirico, quello di Asimov era asciutto, lineare, pulito. L’Impero Galattico stava crollando. Era un impero colossale che comprendeva milioni di mondi da un capo all’altro della immensa doppia spirale chiamata Via Lattea. Il crollo di un tale impero era altrettanto colossale quanto lento, data la sua vastità. Siamo all’inizio del secondo libro della Fondazione. Le parole di Asimov si collocano in frasi semplici, dirette, ma che tuttavia riescono in pochi tratti a dare il senso di grande respiro della storia. Altra caratteristica basilare di Asimov fu la plausibilità scientifica delle sue storie, che discendeva dal suo amore per la scienza. Mentre per Bradbury la scienza era, in fondo, veicolo del sogno e del lirismo (ma a tratti anche della paura e dello sgomento), in Asimov la scienza stessa appariva come meraviglia, come poesia. E questo nonostante le bombe di Hiroshima e Nagasaki avessero gettato un’ombra e incrinato la fede nella tecnica. Ma Asimov continuò a credere nella scienza, nella ricerca come cosa buona in sé, nonostante l’uomo la possa svilire, sporcare. Tradire. La scienza è meraviglia, ma può diventare incubo. Tutto dipende dall’uomo.

    Le grandi architetture di Asimov, le metafore sognanti di Bradbury. Abbiamo chiesto a quattordici autori italiani di fantascienza se volessero scrivere dei racconti in qualche modo legati ai due grandi maestri. Abbiamo ricevuto soltanto risposte entusiastiche. E allora eccoli qui, questi autori, che cento anni dopo la nascita di Asimov e di Bradbury, settanta anni dopo la fine dell’età dell’oro della fantascienza, scrivono ispirandosi ai due grandi scrittori.

    Qualcuno ha deciso di entrare profondamente nel mondo dei due maestri. Il racconto di Francesco Troccoli ispirato a La fine dell’eternità quasi quasi sembra uscito dalla penna del buon dottore. Come, sul versante di Bradbury, Luigi Calisi si è direttamente ispirato al famoso racconto Il Veldt (che in Italia ebbe una versione teatrale a cura del Pandemonium Teatro di Bergamo come La stanza dei leoni); anche Angela Clerici ha puntato in maniera evidente alle atmosfere di Bradbury: le sue pagine rievocano decisamente Cronache Marziane. Altri scrittori invece hanno interpretato a loro modo temi e ispirazioni dei due maestri. Con risultati che avete davanti agli occhi e che giudicherete. Gli autori sono sette per parte: Emanuela Valentini, Dario Tonani, Angela Clerici, Nino Martino, Alain Voudì, Luigi Calisi e Giulia Abbate si sono ispirati a Ray Bradbury. Francesco Troccoli, Alessandro Vietti, Silvio Sosio, Franci Conforti, Lorenzo Crescentini, Maico Morellini, Davide Del Popolo Riolo hanno scritto pensando al buon dottore.

    Completano l’opera due autori riconosciuti come maestri, in qualche modo ispiratori per i giovani Asimov e Bradbury.

    Per Isaac Asimov abbiamo scelto Stanley Weinbaum con Il pianeta dei parassiti. Scriveva lo stesso Asimov: Weinbaum, sebbene a quel tempo non lo sapessimo, era un autore ‘di Campbell’ prima ancora che Campbell avesse cominciato a plasmare un intero gruppo di ‘suoi’ autori. Se avesse continuato a scrivere per interi decenni, forse ci sarebbe stato meno bisogno di Campbell. Ma Weinbaum non visse a lungo. Per un anno e mezzo continuò a pubblicare racconti in rapida successione, suscitando crescente entusiasmo nei suoi lettori. Poi, all’inizio del 1936, morì di cancro, e tutto finì.

    Tra gli autori per i quali il giovane Bradbury nutriva una speciale passione c’era Edgar Allan Poe, con la sua scrittura profonda, inquietante, immaginativa. Ma anche le visioni di Burroughs con il suo John Carter di Marte ebbero un’influenza profonda sul Bradbury ragazzo. Che non certo per caso si innamorò di Marte e che proprio su Marte ambientò la sua opera forse più riuscita, più innovativa, più stupefacente e poetica: Cronache Marziane. Proprio in questo libro Bradbury dichiara il suo amore per Edgar Allan Poe con un episodio che ha per titolo Usher II e che comincia addirittura con una citazione diretta del celebre La caduta della casa degli Usher: Per tutta una tediosa, cupa e silente giornata d’autunno, in quella stagione dell’anno quando le nubi incombono basse e opprimenti nel cielo, avevo viaggiato solitario, a cavallo, per un tratto di campagna singolarmente selvaggio, fino a ritrovarmi, al primo addensarsi delle ombre del crepuscolo, in vista della malinconica Casa degli Usher….¹

    Paolo Aresi


    ¹. During the whole a dull, dark, and soundless day in the autumn of the year, when the clouds hung oppressively low in the heavens, I had been passing alone, on horseback, through a singularly dreary tract of country, and at length found myself, as the shades of the evening drew on, within view of the melancholy House of Usher.

    Isaac Asimov

    La vendetta degli Eterni

    Francesco Troccoli

    1.

    Noys entrò nella sala cinematografica e prese posto in fondo. Il cuore le batteva forte. Sarebbero morte molte, moltissime persone. Ad Harlan non aveva detto nulla. Non gli aveva mai rivelato che la data era quella. Il sei agosto. Oggi. In quel momento lui era in negozio, forse nel preciso istante in cui lei si guardava le mani sudate e le strofinava l’una sull’altra lui stava vendendo un’automobile a una coppia appena sposata, o a qualche vecchio cliente in vena di una permuta per una vacanza nelle praterie del MidWest.

    Stava per succedere un’ecatombe. Anzi, era già successa. E gli americani stavano per venirne a conoscenza con la lentezza dei mezzi di informazione dell’epoca.

    Avrebbe potuto evitarlo. Che diritto aveva avuto di prendere una simile decisione, tanti anni prima? Alzò lo sguardo sulle file di poltrone davanti a lei nel piccolo cinema di Barrington, Indiana. In sala c’era poca gente: con la guerra che sembrava avviata verso la fine, l’ansia di seguire i cinegiornali era quasi svanita. La radio, per la maggioranza degli americani, era più che sufficiente. E più tempestiva. Ma di quella catastrofe, stranamente, nemmeno alla radio avevano detto nulla.

    Le luci si abbassarono e Noys si preparò al peggio. Quante vittime c’erano state di preciso? In quel momento non lo ricordava più. Nell’ordine delle centinaia di migliaia, comunque. Be’, forse… entro certi limiti, le cose potevano andare diversamente. Ma non avrebbe fatto troppa differenza, non doveva farne. Una città in Giappone sarebbe stata distrutta. E poi, dopo tre giorni, un’altra avrebbe subito la stessa sorte.

    La proiezione ebbe inizio. Noys riconobbe i volti dei generali Clark, Eisenhower, Patton, Montgomery, tutti sulle rispettive prime linee, con le loro stellette e le loro uniformi da campo. Alcuni di quei fronti non esistevano più; le potenze europee si erano arrese da mesi. Il commentatore descrisse le gesta dei generali e degli ammiragli con il consueto tono enfatico. Nei mesi precedenti, in Italia il dittatore Mussolini ucciso mentre cercava di fuggire, Hitler si era suicidato nel bunker di Berlino; ogni giorno i cinegiornali ripetevano quelle immagini, come se dovessero convincere la popolazione che l’incubo era finito realmente. Sulle norvegesi isole Svalbord resisteva l’ultimo presidio tedesco, impegnato durante il conflitto nelle operazioni della cosiddetta guerra meteorologica nell’Artico. E un paese intero, il Giappone, pur prostrato, non si era ancora rassegnato alla resa. Il commentatore passò a esaminare la situazione nel Pacifico: ciò che restava della flotta nipponica era stato quasi completamente affondato grazie a un’epica azione di tre sottomarini americani penetrati nella baia di Tokyo. Il commentatore disse che la vile azione giapponese contro le isole Hawaii era stata vendicata con la stessa moneta. Sullo schermo si videro i volti dei tre comandanti, proiettati verso il ruolo di eroi della nazione americana. Noys si stupì. Di quel singolo evento, così noto e decisivo, non riteneva di aver mai saputo nulla. Le sembrò una deviazione poco probabile ma, tutto sommato, l’importante era la bomba. La notizia dell’immane esplosione doveva pur arrivare… forse il senso di vergogna che poteva scaturire in larga parte dell’opinione pubblica aveva indotto i mass-media a non dare troppo risalto alla notizia? Be’, non potevano certo aver deciso di censurarla: un’arma simile era un potente mezzo di propaganda verso il futuro nuovo nemico, l’Unione Sovietica.

    Ma con suo grande stupore i servizi giornalistici sull’andamento della guerra ebbero termine e partì lo spot pubblicitario del sapone. Noys si agitò. Com’era possibile? Qualcosa non quadrava. Per un istante si sentì in colpa. Milioni di persone in Giappone non avevano perso la vita in un’esplosione atomica, dunque vivevano, dormivano, sopravvivevano nel loro paese stremato… e lei ne era delusa. Di più: ne era spaventata. Senza attendere la fine della proiezione, cambiò posto e sedette vicino a un’anziana signora che masticava popcorn a bocca aperta.

    – Mi scusi, signora! – le sussurrò. La vecchia le lanciò appena uno sguardo.

    – Signora! – insistette Noys.

    – Cosa c’è? Cosa vuole? – fece l’altra a bocca piena.

    – Sa dirmi che giorno è oggi?

    – Ehi, ma come, davvero vuole che le dica che giorno è oggi? Si sente bene?

    – Sì, per favore, la prego! Sto benissimo, mi creda. Mi dica solo che giorno è oggi. Per favore!

    – Sssh! – fece qualcuno dalle prime file.

    – Allora, vediamo… ma certo, oggi è il sei agosto, perdiana! Contenta?

    – Certo. Il sei agosto, infatti. Grazie, mi scusi tanto.

    La donna s’infilò altro popcorn in bocca e riprese a masticare. Noys invece si alzò e uscì. Sentì che le tremavano le gambe ma si diresse verso casa a passo svelto. Era sconvolta. Qualcosa era davvero andato storto. Erano passati tredici anni da quando era arrivata nel ventesimo e se ne accorgeva solo adesso? Eppure tutti gli altri eventi combaciavano. Ogni fatto, ogni battaglia, ogni luogo, ogni data. Almeno, per quel che ne sapeva lei, per quello che l’avevano istruita a conoscere nella sua epoca. C’era stata qualche deviazione, sì, ma roba da poco: il nome di una nave, l’orario di un affondamento, qualche titolo di giornale. Ma gli eventi principali, almeno fino a quel momento, erano avvenuti regolarmente.

    Noys non si accorse del semaforo rosso e iniziò ad attraversare la strada. Un’auto la mancò per un soffio e sfrecciò via suonando furiosamente il clacson. Noys quasi non la sentì, poi si accorse del braccio di un uomo che le cingeva delicatamente la vita.

    – Si sente bene? – domandò lo sconosciuto. Il suo volto le ricordava il Presidente Kennedy; Noys ebbe un capogiro: a quell’epoca JFK era solo un ragazzino. Guardandolo bene realizzò che quell’uomo non era lui, ma solo un tizio che gli assomigliava.

    – No… cioè mi scusi, sto bene, è solo una giornata difficile.

    – Oh, ne capitano a tutti, non le pare? – disse l’uomo, che la salutò alzando il cappello appena ebbero raggiunto il marciapiede e riprese la propria strada.

    Noys restò immobile a guardare le automobili sfrecciare sulla via. Cercò di calmarsi pensando che, per un evento così catastrofico come un’esplosione nucleare, poteva forse esserci un grado di deviazione maggiore dal flusso primario. Forse la bomba avrebbe raso al suolo Hiroshima solo il giorno dopo. Magari due. L’Enola Gay poteva aver avuto un guasto, oppure un pilota aveva la febbre e bisognava attendere una riassegnazione di equipaggio. Nel segreto più totale, ovviamente. Perché no? Questo pensiero l’aiutò a ritrovare la lucidità. E la fece sentire ancora più in colpa. Ripensò alle parole di Harlan, al loro arrivo, quel giorno del 1932: Il bene maggiore per il maggior numero di persone. Forse aveva ragione lui. E poi, in fondo, a lei cosa importava di quello che sarebbe successo dopo centinaia di migliaia di anni da quell’istante? Cosa le importava dell’Eternità? Ormai era una cittadina del ventesimo secolo. Senza nessuna possibilità di tornare nel remoto futuro da cui proveniva.

    – Esploderà domani. O dopodomani – pensò, con l’immagine del fungo atomico in mente. Poi si avviò verso casa a passo lento, pensando a cosa preparare per cena.

    2.

    Noys teneva lo sguardo fisso sul piatto, la forchetta immobile, piantata in mezzo alla fetta di polpettone.

    – Cos’hai, cara? – le domandò Harlan prima di inghiottirne un boccone abbondante.

    Noys alzò gli occhi lentamente. Harlan smise di masticare.

    – Ricordi quella conversazione al nostro arrivo, tredici anni fa?

    – Dovrei?

    – Quando ti dissi che, se avessimo distrutto l’Eternità e il suo potere di controllare il tempo, la prima catastrofe nucleare sulla Terra non sarebbe più avvenuta nel trentesimo secolo, ma nel ventesimo?

    – Oh! Sì, la ricordo benissimo.

    – Be’, il bombardamento sarebbe dovuto avvenire oggi, Andrew.

    Harlan inghiottì il boccone senza averlo masticato. Tossì. – Vuoi dire che abbiamo fallito? – domandò, con tono allarmato, – vuoi dire che la dannata Eternità è ancora lì, fuori dal Tempo, a pretendere di correggere gli errori della storia umana, cambiandola di continuo? Vuoi dire che per tutto questo tempo si sono fatti beffe di noi?

    – Potrebbe essere solo una deviazione minore. La bomba potrebbe scoppiare domani.

    – Noys, tesoro. Quando ero un Eterno mi occupavo di queste cose di persona. Un’esplosione atomica non è un incidente d’auto. Perché avvenga comunque, ma in un’altra data, in questi anni avresti dovuto notare deviazioni notevoli su eventi altrettanto significativi. È così?

    – Fammi un esempio.

    – La resa con la Germania è stata firmata molto prima o molto dopo rispetto a quando prevedevi? Anni, voglio dire. Perché, converrai, una firma è ben poca cosa rispetto a un’ecatombe atomica. E l’aggressione della flotta americana a Pearl Harbor non è avvenuta a Pearl Harbour, ma… a San Francisco, o Seattle?

    Noys restò in silenzio un istante. – No. Niente di tutto questo – mormorò subito dopo.

    – Allora dobbiamo iniziare a preoccuparci.

    – Insomma, Andrew, vuoi veramente dire che… che forse l’Eternità esiste ancora.

    Stavolta fu Harlan a non dire nulla.

    – Ma come può essere? – sbottò Noys. Harlan non l’aveva mai vista perdere le staffe in quel modo. Del resto, bisognava capirla. Lui agli imprevisti del tempo era abituato, ai cambiamenti indotti aveva fatto il callo, ne era anzi un vero esperto, mentre lei, sin dal primo momento in cui si erano conosciuti, aveva lavorato per sopprimere gli interventi di quel tipo e restituire alla storia umana la sua linearità. Era venuta da milioni di anni nel futuro esattamente con questo scopo.

    – Calma – disse Harlan. – Ragioniamo e cerchiamo di ricostruire gli eventi, vuoi? Andiamo con ordine: il Calcolatore anziano Twissel ci aveva assegnato un incarico che avrebbe preservato l’invenzione del Campo e, in un perfetto circolo temporale, avrebbe consentito la nascita della struttura di cui sia io che lui eravamo parte. L’Eternità.

    – Be’, lo aveva assegnato a te, Andrew. Io sono arrivata fin qui solo perché…

    – Perché ti amavo, come ti amo oggi, cara.

    Noys sorrise. Harlan le accarezzò la guancia.

    – Dunque, – riprese lui – come dicevo, a tal fine avremmo dovuto recuperare il mio collega, Brinsley Sheridan Cooper, che si era perso nel ventesimo secolo, e riportarlo nel ventiquattresimo, dove con il nome di Vikkor Mallansohn avrebbe effettuato le grandi scoperte che, tre secoli più tardi, avrebbero consentito l’inizio di quella sofisticata struttura di governo del Tempo…

    – Per la quale hai lavorato tutta la vita.

    – Prima di conoscere te.

    Noys restò in silenzio per un istante. – Ti sei mai pentito di aver accettato la mia proposta, Andrew?

    Noys si rese conto che per tutto il tempo che avevano trascorso insieme nel ventesimo secolo come una normale coppia, come una donna e un uomo nati, cresciuti e sposati laggiù, non avevano mai più sfiorato l’argomento.

    – Vuoi dire quando mi esortasti a non soccorrere il povero Cooper, lasciandolo alla deriva in un secolo affascinante e primitivo come questo, impedendo le sue scoperte e quindi la nascita dell’Eternità che avrebbe vegliato sul futuro dell’Umanità nei secoli dei secoli, prevenendo guerre, carestie, calamità e disastri vari che invece avverranno regolarmente flagellando milioni, anzi miliardi di individui di ogni ordine e grado?

    Noys annuì.

    – Nemmeno per un istante.

    La bocca di Noys si allargò in un sorriso.

    – Ma non commettere l’errore di pensare che sia stato solo un gesto d’amore, cara. Oltre a rinunciare a tutto ciò per cui avevo lavorato per una vita, ho dovuto convivere con l’idea di Cooper abbandonato nel passato per colpa nostra. Quel ragazzo mi piaceva. Gli avevo insegnato tutto quel che sapevo sui secoli primitivi.

    – Dunque perché accettasti?

    – Be’, Noys, mi convincesti che il controllo continuo da parte dell’Eternità avrebbe mantenuto l’Umanità in una situazione di progresso lento. Per non dire nullo. Del resto questo spiega come mai tu e io riusciamo a… stare insieme anche se le nostre nascite sono distanziate di centinaia di migliaia di anni. Un po’ come l’accoppiamento fra un essere umano e un australopiteco, per intenderci. E mi spiegasti che questa stagnazione avrebbe impedito la conquista dello Spazio, portando la specie umana a un livello evolutivo inferiore a centinaia di specie aliene, delle quali saremmo stati succubi centinaia di migliaia di anni dopo.

    – È proprio così. Ma tu dicevi che per te contava il bene maggiore per il maggior numero di persone.

    – Infatti. Grazie a te ho capito che il bene maggiore si poteva ottenere solo distruggendo l’Eternità. Questo farà sì che nei prossimi millenni la specie umana colonizzi lo Spazio e infine crei… un Impero galattico, ricordo bene?

    Noys annuì. – Questo non me l’avevi mai detto, Harlan.

    – Te lo sto dicendo ora. Ed è per questo che adesso dobbiamo capire se ci è sfuggito qualcosa. O peggio, se ci hanno ingannato.

    – Eh? Ma come? Chi?

    – Twissel, chi se no? Quell’uomo era un dannato genio. Può darsi che avesse previsto tutto. Può darsi che conoscesse i tuoi piani, e che avesse immaginato che io ti avrei alla fine aiutata finendo per tradire gli Eterni. Del resto, lo avevo già fatto una volta, ricordi? Fui proprio io a causare il naufragio di Cooper, pur di restare con te.

    – Vuoi dire

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