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Tutte le scintille si sono spente
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E-book161 pagine2 ore

Tutte le scintille si sono spente

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Info su questo ebook

Un ex ufficiale della Folgore, mercenario nell’Africa dell’est, non sapendo resistere all’impulso di andare a caccia d’emozioni, realizza una memorabile bancarotta morale. “Tutte le scintille si sono spente” è un romanzo d’avventura, è un romanzo di guerra, ed è anche un noir che cattura il lettore lasciandosi leggere tutto d’un fiato. Ma, soprattutto, è un libro che mette a nudo la peggiore malvagità di cui l’essere umano può essere vittima. La propria malvagità.

LinguaItaliano
Data di uscita23 gen 2015
ISBN9788868151133
Tutte le scintille si sono spente
Autore

Gabriele Damiani

Gabriele Damiani, scovato da Aliberti grazie a un concorso, maneggia la fantapolitica con impegno e passione, plasma la materia e forgia un thriller che si basa, principalmente, su ritratti ironici ma crudeli. Non è il solito commissario e non è il solito crimine di provincia. Politico, asciutto, è un nero intenso che fa male dalla prima pagina all’ultima. La prosa scorre rapida ma il sapore amaro dei fatti resta dentro. Ma sarà davvero tutto frutto della fantasia?

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    Anteprima del libro

    Tutte le scintille si sono spente - Gabriele Damiani

    Tutte le scintille si sono spente

    romanzo

    Gabriele Damiani

    Published by Giuseppe Meligrana Editore on Smashwords

    Copyright Meligrana Editore, 2015

    Copyright Gabriele Damiani, 2015

    Tutti i diritti riservati

    ISBN: 9788868151133

    Meligrana Editore

    Via della Vittoria, 14 – 89861, Tropea (VV)

    Tel. (+ 39) 0963 600007 – (+ 39) 338 6157041

    www.meligranaeditore.com

    info@meligranaeditore.com

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    INDICE

    Frontespizio

    Colophon

    Licenza d’uso

    Gabriele Damiani

    Copertina

    Tutte le scintille si sono spente

    Altri ebook di Meligrana Editore

    Licenza d’uso

    Questo ebook è concesso in uso per l’intrattenimento personale.

    Questo ebook non può essere rivenduto o ceduto ad altre persone.

    Se si desidera condividere questo ebook con un’altra persona, acquista una copia aggiuntiva per ogni destinatario. Se state leggendo questo ebook e non lo avete acquistato per il vostro unico utilizzo, si prega di acquistare la propria copia.

    Grazie per il rispetto al duro lavoro di quest’autore.

    Gabriele Damiani

    Gabriele Damiani (L’Aquila, 1956) a diciassette anni era già cronista del quotidiano ‘‘Il Mezzogiorno d’Abruzzo’’. In seguito è stato imprenditore, professore di metodologia della scienza economica, dirigente e consulente d’azienda, diventando infine ufficiale del corpo militare della Croce Rossa Italiana. Tra un’avventura e l’altra non ha mai smesso di scrivere, attività che per lui rappresenta la più seria e avvincente esperienza di vita, pubblicando dozzine di racconti su un gran numero di riviste. Nel 2010 ha pubblicato il romanzo ‘‘Il destino, forse’’ (Autodafé), nel 2011 l’e-book ‘‘Un buon sapore di morte’’ (Meligrana Editore), nel 2012 l’e-book Commedia all’italiana (Meligrana Editore) e nel 2013 l’e-book I racconti di Civita (Meligrana Editore). Cura il blog gabrieledamianiscrive (gabrieledamiani.blogspot.it).

    Contattalo:

    gabrielinodamiani@gmail.com

    Seguilo su:

    https://google.com/+GabrieleDamiani

    Tutte le scintille si sono spente

    1.

    Volavamo da un paio d’ore. L’ombra dell’aereo correva sotto di noi, galleggiando sul verde.

    Il sole lambiva lo zenit e l’aeroplanino doveva sembrare una farfalla bianca e blu immersa nel cielo color nichel. La vegetazione dall’alto aveva un aspetto soffice e noioso e di quel cielo bianchiccio cominciavo ad averne piene le scatole. Dove sono nato il cielo ha una tinta carta da zucchero ed è frastagliato da nuvole di panna e dal profilo crudo delle vette. Almeno così, in quel momento, ricordavo il cielo dei miei Appennini. Lì invece era esangue per l’afa.

    Erika con il teleobiettivo scattava foto e foto al paesaggio. Non si stancava mai. Percorreva per la prima volta quella rotta, ogni minima cosa la elettrizzava. Il pilota le raccontava una barzelletta dietro l’altra. Si divertiva. Io erano già nove volte che effettuavo il volo di seicento chilometri da Habreville a Goro Uala a bordo del vecchio aeroplano da turismo e avevo deciso che quello sarebbe stato l’ultimo.

    La giungla era sempre la stessa, monotona e verde. Il latrato del motore era sempre lo stesso e la barba del pilota era sempre la stessa barba fulva irrorata di sudore.

    Al pilota, originario di Stoccolma e di nome Gunnar Kessle, piaceva farsi chiamare Barone Rosso, ma in sua assenza tutti lo chiamavamo Gunnar la Checca.

    Poi finalmente all’orizzonte comparve la chiazza scintillante del lago Alfonso. Ero sempre lieto di vedere il lago. Il viaggio era ormai agli sgoccioli quando la sua superficie si rivelava, ampliandosi man mano che ci avvicinavamo. Gunnar lo indicò con il braccio ed io annuii. Era un gesto che non mancava mai di ripetere. Era ansioso quanto me d’atterrare e indicava l’apparire del lago pregustando il ristoro di una birra. Erika emise un gridolino eccitato e puntò il teleobiettivo sulle acque lucide.

    L’aereo scivolò d’ala, virò a sinistra e iniziò la discesa.

    Dopo pochi minuti sobbalzavamo sulla pista d’atterraggio, ricavata disboscando alcune migliaia di metri quadrati di giungla. Era situata a breve distanza dalla riva e l’acqua del lago baluginò fra i tronchi degli alberi.

    Gunnar fece rullare il monorotore fino a una baracca di legno sul margine settentrionale del campo. Era costruita alla bell’e meglio. Le tavole parevano appiccicate con lo sputo. Aveva un tetto di bandoni arrugginiti. Ogni volta mi meravigliavo di rivederla ancora in piedi. Sgangherata o meno, costituiva l’unico edificio di quello che i capoccioni di Habreville definivano con enfasi aeroporto di Goro Uala. In essa trovavano contemporaneamente la propria sede una stazione radio, il comando della pista d’atterraggio, il comando della guarnigione e l’alloggio del comandante. Il tutto racchiuso in uno spazio di cinque metri per cinque.

    Davanti alla porta della baracca ci attendevano quattro uomini in tuta mimetica. Tre erano bianchi, il quarto negro. Il negro era tenente dell’esercito governativo. I bianchi erano mercenari in organico alla mia compagnia ed io li avevo collocati in pianta stabile laggiù sei mesi addietro, allorché mi avevano affidato quell’incarico da commesso viaggiatore. Il negro rappresentava la massima autorità militare di Goro Uala. Comandava la guarnigione, composta da un centinaio d’uomini, il cui compito era difendere il campo e garantire i servizi connessi al rifornimento di armi.

    Balzai a terra e i quattro uomini mi salutarono militarmente. Risposi al saluto. Poi scambiai una stretta di mano con ognuno di loro, a cominciare da tenente negro, Samuel Aristo Gaba, che sorridendo mi batté il palmo della sinistra sulla spalla.

    «Chi non muore si rivede», disse.

    «Ti dispiace?»

    «Moltissimo».

    «Sei un vero amico».

    «Ah, ah».

    Fu quindi il turno del segaligno Edward Ryan, irlandese di Belfast ed ex sergente in un reggimento di sua maestà la regina d’Inghilterra.

    «Fatto buon viaggio, signore?»

    «Sì, Ryan».

    Di seguito toccò a John Salk, americano del Nevada, ex marine e veterano del Vietnam.

    «Lieto di rivederla, capitano».

    «Grazie, John».

    E infine a Juan Iturbide, Spagnolo di Lerida, con dodici anni di Legione straniera sulla groppa. Juan, nello stringermi la mano, non disse né ai né bai, ma adocchiò da intenditore le belle curve di Erika sbucare dalla carlinga.

    Erika, dal canto suo, quel giorno aveva superato se stessa nello scegliersi un abbigliamento idoneo a esaltare i propri attributi fisici. I rossi pantaloncini corti lasciavano ben in vista le cosce da concorso. Si era annodata la camicetta bianca alla vita, di modo che l’ombelico e le due fossette al fondo della schiena ridevano alla luce del sole. La lunga treccia bionda le conferiva un aspetto da puledra di razza, dietro alla quale avrebbero galoppato le fantasie di qualsiasi maschio sano in età riproduttiva. E forse pure di quelli che riproduttivi non erano più. La presentai e non appena l’ebbi qualificata come giornalista tedesca gli occhi di Gaba si strinsero in due fessure meditabonde, concentrate sulla macchina fotografica che le pendeva sul petto.

    I miei uomini dettero una mano a scaricare il bagaglio dall’aereo e a issarlo su una jeep. Non era molto: le due borse di Erika e il mio zaino. Io lasciai nella jeep, accostato allo zaino, anche il mitra, ma non il tascapane contenente i dollari, che portavo a tracolla. Quindi entrammo tutti nella baracca e Gaba, da buon padrone di casa, porse a Erika e a me le due sedie riservate ai visitatori. Ci sedemmo. Gli altri in parte rimasero in piedi, addossati alle pareti, e in parte sedettero sulla branda dove il tenente consumava i suoi sogni.

    Da sotto la branda facevano capolino un paio di scarponi. Accanto alla radio trasmittente troneggiava, su un’apposita mensola, il catino dell’acqua utilizzato dal nostro anfitrione per i lavaggi mattutini. Dalla cima di uno scaffale metallico un minuscolo ventilatore inventava un’esile frescura e il ronzio delle mosche sovrastava di molto quello timido dell’aggeggio a elica.

    Gaba tirò fuori le birre da un frigorifero portatile, ne offrì una a testa e prese posto dietro la scrivania.

    «Il whisky dov’è?», chiese Gunnar la Checca, dopo aver scolato una sorsata robusta.

    Il tenente aprì un tiretto e allungò una bottiglia al pilota. Gunnar travasò il whisky nella lattina della birra, agitò e assaporò l’intruglio. Nessun altro fu tanto ingordo da imitarlo e la bottiglia tornò nel cassetto.

    «Allora, al nord come va?», mi chiese Gaba. Era una domanda di rito.

    «Più o meno come al solito», dissi e sorseggiai la birra. È bello bere birra quando si ha sete. «Ultimamente ne abbiamo ammazzati parecchi».

    «Ripuliremo il paese da quegli scarafaggi», sentenziò e con un gesto della mano sottolineò la serietà dei suoi propositi.

    La parola scarafaggi, pronunciata da un negro e riferita ad altri negri, causò il sollevarsi delle sopracciglia di Erika. Da brava socialdemocratica, detestava quel linguaggio.

    «E mio zio cosa fa?», domandò Gaba. Altra domanda di rito.

    Scacciai una mosca dal bordo della lattina. «Tuo zio fa quello che ha sempre fatto, il presidente guerriero, e la gente di Habreville va matta per lui». Tacqui però sull’attentato predispostogli dai ribelli, sventato giusto in tempo da noi mercenari.

    Gaba accennò di sì con il capo, compiaciuto. Alzò un indice al cielo, o meglio al soffitto di bandoni della baracca, e un sussulto di orgoglio familiare lo spinse a dire: «Mio zio è un uomo lungimirante».

    E mancò un pelo che John Salk, nel reprimere una risata, non risputasse la birra.

    Il tenente non se ne accorse. Continuò a interrogarmi: «E Steiner? Steiner cosa fa?»

    «Steiner si guadagna onestamente la pagnotta. Come tutti noi», e abbracciai con lo sguardo i miei tre uomini.

    «Una pagnotta bella grossa», disse Gaba e sorrise.

    «Non tanto grossa», dissi io e un riflesso condizionato m’indusse a sistemarmi meglio sulle ginocchia il tascapane gonfio di dollari.

    «Oh, grossa», disse lui, «grossa. Magari li pigliassi io i vostri soldi». Mi agitò l’indice sotto il naso. «Sai quanto piglio al mese?»

    «Un milione di dollari», sparai.

    Fece una smorfia. «Quattromila talleri». Fece un’altra smorfia. «L’equivalente di duecentocinquanta dollari. Una miseria, paragonato a quello che intaschi tu».

    Il tenente, sul mento, coltivava una barbetta lanuginosa. Prima d’intraprendere la carriera delle armi aveva conseguito una laurea in economia alla Sorbona, per cui di valute e di conti se n’intendeva. Proveniva da una famiglia di prim’ordine, essendo il terzo rampollo della seconda moglie d’un aristocratico capo tribù. Il padre rivestiva ora la carica di ministro del commercio, a Habreville, e lo zio materno, generale Tomas N’Dema, era presidente della repubblica.

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