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Dove sono quei giorni
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E-book250 pagine2 ore

Dove sono quei giorni

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Info su questo ebook

I racconti dell’Autrice, magistralmente cuciti col filo del sentimento, autentico tessuto connettivo del palcoscenico della vita, vanno letti con profonda attenzione [...] in risposta alla naturale esigenza di guardare agli altri soprattutto per conoscere meglio se stessi. Forse il lavoro più delicato, per il lettore, è proprio incontrare se stesso nel personaggio, perché al di là della trama dei singoli racconti, siamo tutti circondati da individui sovrapponibili, in tutto o in parte, ai personaggi di questa antologia (di famiglie Melis, ad esempio, è pieno il mondo) e l’identità di ognuno è il frutto di un confronto quotidiano con gli ineludibili paradigmi dell’esistenza umana, protagonisti indiscussi dei vari racconti di quest’opera, ma soprattutto della vita di ogni essere umano: la famiglia, l’amore, la morte, l’amicizia, la nostalgia, l’assenza, il dolore, il rimpianto, la solitudine, l’insoddisfazione, l’inquietudine causata dall’incertezza dell’avvenire... Il tutto mentre il richiamo al tempo vissuto dell’infanzia induce a riconsiderare le esperienze che hanno segnato la propria crescita.
Dalla postfazione di Memmo Saltalamacchia - Già Ordinario di Filosofia
LinguaItaliano
Data di uscita2 ott 2019
ISBN9788893781794
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    Dove sono quei giorni - Silvana Iaria

    nuovo.

    Ibico, poeta reggino

    La piccola imbarcazione scivolava sull’acqua, nelle prime ore di luce di una splendida giornata d’inizio estate. Ibico, pensieroso, sedeva a poppa e osservava la scia tagliente che il battello carico di uomini e mercanzie lasciava dietro di sé. Glauco, il suo fedele servitore, accovacciato accanto al poeta sembrava ancora intontito per il sonno interrotto, sebbene in realtà non perdesse di vista le vettovaglie, la lana nei sacchi, i recipienti ricolmi di miele e gli orci di vino di mantonico locrese e delle colline intorno a Rhegion, che essi recavano in dono al poeta Stesicoro. Il viaggio che li avrebbe condotti a Himera, anch’essa colonia calcidese, era lungo e faticoso: una volta sbarcati a Zancle avrebbero proseguito fino alla meta su un carro noleggiato allo scopo.

    Glauco lesse la mestizia negli occhi di Ibico ed ebbe l’ardire di domandargli: Padrone, perché sei così triste?

    E Ibico, con la voce incrinata dall’emozione: Guarda la nostra città… nell’agorà ho udito, da commercianti che provenivano da Oriente, che Rhegion è la più bella tra tutte le poleis, persino più bella di Atene… e io come un ladro la abbandono, forse per sempre! Perdo affetti e patria per sfuggire al mio destino di tiranno… il popolo mi acclama, ma io non voglio altre lotte fratricide, non voglio venga versato altro sangue: meglio errabondo che despota!

    Glauco abbassò lo sguardo e comprese che il suo padrone non avrebbe parlato più; bisognava tacere senza null’altro chiedere. Posò il capo sulle ginocchia e non aggiunse altro, conosceva il suo padrone da sempre: nella sua indole la sensibilità e la riflessione erano pari alla risolutezza e alla passionalità.

    Sbarcati a Zancle, mentre Glauco contrattava il prezzo dell’acquisto di un carro e di due mule, Ibico osservava la vita brulicante del porto: uomini, di diversa provenienza, sostavano davanti ai lupanari, gruppi di marinai giocavano a dadi davanti a una taverna, un uomo mezzo guercio vendeva dell’acqua che trasportava in un otre legato a un fianco, mentre battelli greci e delle colonie caricavano e scaricavano merci di ogni tipo. Ibico, così come Glauco gli aveva raccomandato, non si allontanò mai dal suo bagaglio; di lì a poco il servitore tornò con un carro e una guida che li avrebbe condotti fino a Himera. Il carro arrancava a buona andatura su una collina che avrebbe consentito loro di tagliare l’estremo lembo dello stretto di Zancle, lasciandosi a destra la punta di Cariddi e raggiungendo la costa nord orientale della Sikelìa. Nei tratti in salita gli uomini avanzavano a piedi per non affaticare eccessivamente gli animali; ogni tanto incrociavano altri carri ed erano costretti a stringersi sul lato della polverosa carreggiata per consentire il reciproco passaggio.

    Ibico aveva auspicato in cuor suo che anche il cielo partecipasse del suo infelice destino con nuvole e pioggia, ma il cielo, di un azzurro sfolgorante, se ne stava come sempre intorno alla terra, indifferente alla sorte degli uomini.

    Dopo un lungo tratto, la strada divenne più agevole e camminarono con il mare alla loro destra, intravedendo il promontorio lontano della florida colonia di Mylae, l’Aurea Chersoneso che, come una falce, si protendeva sul mare. Venne lentamente la sera ed essi, per paura di brutti incontri, decisero di fermarsi presso un casolare di pastori. L’indomani, ai primi sprazzi dell’aurora, ripresero il loro cammino. Dopo alcune ore di marcia sotto il sole estivo, si fermarono per riprendersi dalla fatica. Ibico si sedette sopra un cumulo di sassi ed erba, ormai quasi secca, avvertendo, all’improvviso, la sensazione della presenza di qualcosa alla sua destra… non fece in tempo a scostare il braccio che fu colto da un bruciore forte e penetrante. Glauco gli intimò di non agitarsi, e alzandogli il braccio scorse i due piccoli inequivocabili fori del morso di una vipera! Insieme alla guida lo stesero sul carro, poi il servitore gli legò il braccio con una fascetta di cuoio, più in alto del morso, e tentò di succhiarne il veleno: presto si rese conto che questa pratica, oltre che pericolosa per lui, era quasi del tutto inefficace. Corse allora, a rotta di collo, verso dei contadini riparati sotto un grande albero. Quello che sembrava il capo, interpellato da Glauco, spiegò che appena oltre il crinale si trovava la grande casa di Timeo di Abakainon, il padrone di quelle rigogliose terre. Glauco non perse tempo e facendo deviare il carro dalla sua strada, condusse Ibico verso il luogo indicato. Si doveva far qualcosa al più presto, ne andava della vita del suo padrone.

    Timeo mise a disposizione dell’ospite la sua casa e si rivelò persona generosa e saggia. Accolse i viandanti e si prodigò affinché Ibico ricevesse adeguate cure. Glauco preparò un intruglio di aglio, timo e ruta, lo somministrò a Ibico, quindi pestò del papavero per ricavarne un sonnifero che avrebbe sedato il suo padrone, impedendo al veleno di diffondersi nell’organismo.

    Dopo circa tre giorni il giovane ritornò lentamente alla vita: quando si svegliò avvertiva una forte sete, ma Glauco non era al suo fianco, bensì nel frutteto vicino alla casa, dove in quei giorni si rendeva utile aiutando i servi di Timeo. Allora, sentendo un canto di fanciulla, si alzò dal letto incuriosito, vincendo la spossatezza residua. Si diresse verso l’orto e lì, vicino a una piccola fonte, scorse una fanciulla che, placidamente seduta, cantava rivolta verso il cielo. Ibico avrebbe voluto conoscerla, ma un rumore di passi improvvisi, che si avvicinavano, lo indusse a ritornare nella sua piccola stanza, dove si sdraiò nuovamente sul giaciglio. A sera poté conoscere il padrone di casa, Timeo, e suo figlio Chirio. Sia quest’ultimo che Ibico, incrociando gli sguardi, avvertirono a pelle una reciproca sfavorevole impressione. Ibico comprese immediatamente che Chirio provava avversione nei suoi confronti: lesse nei suoi occhi un sentimento di rude inferiorità e quasi di astio. Forse Glauco aveva riferito delle sue nobili origini, o forse aveva decantato il suo talento nell’arte del comporre e dell’accompagnarsi con la cetra.

    Quando si furono ritirati nella loro piccola stanza, Ibico pregò Glauco di informarsi sull’identità della giovane donna intravista quella mattina nell’orto. Il carro del sole era già alto nel cielo allorché Ibico, l’indomani, udì nuovamente la voce melodiosa: senza esitare prese la cetra e si diresse verso la fonte del canto. Trovò la ragazza in compagnia di una vecchia serva, e avvicinandosi pian piano alle loro spalle iniziò ad accompagnare il canto della fanciulla con il suono della sua cetra. Declamarono insieme versi gioiosi e gentili, rivolti alla bellezza della natura e del creato. Mentre il loro canto moriva nell’aria, Ibico, che lentamente si era spostato davanti alla giovane, si accorse della fissità del suo sguardo: la ragazza era cieca! Pur sentendo sussultare il suo cuore cominciò a dire: Adesso so a chi appartiene questa voce più dolce del miele e più melodiosa di quella dell’usignolo…

    Voi siete Ibico di Rhegion, il cantore d’amore! Siete un uomo fortunato, prediletto da Apollo, che vi ha concesso il dono della musica e del canto. Glauco, vostro fido servitore, ci ha raccontato di voi.

    Sì, io sono colui che non può combattere il proprio destino e fugge, andando ramingo per terre forestiere. Io canto le gesta degli dei e degli uomini, ma soprattutto voglio cantare l’amore. Per certo son fortunato, perché oggi incontro voi come bianca colomba sulla mia strada. Dura è la mia arte, poiché cantare i capricci d’amore è sofferenza, sentirsi prigioniero di Afrodite è tormento ed estasi dell’anima.

    All’udire queste parole così appassionate, Sirina, la figlia di Timeo, abbassò il capo, mentre le sue guance si infiammavano di emozione. Trascorsero altri giorni, durante i quali Ibico riprese maggior vigore e vide scomparire il livido bluastro dal suo braccio. Il vecchio Timeo vedeva di buon occhio l’amicizia fra sua figlia e il giovane poeta, ma Chirio mal sopportava la presenza dello straniero, che considerava un intruso vagabondo. Con ogni sguardo e con ogni parola faceva intendere a Ibico che avrebbe dovuto sgomberare il campo. Sua sorella era cieca, il padre ormai avanti negli anni, lì era lui il vero e unico padrone, e mai avrebbe diviso le sue proprietà con altri.

    Ibico comprese il messaggio e decise, pur con la pena nel cuore, di congedarsi da Timeo e dalla sua semplice ma genuina ospitalità, riprendendo il suo viaggio verso Himera. Preferì non salutare di persona Sirina: era certo che ne avrebbe sofferto troppo. La sera prima di riprendere il suo cammino, affidò a Timeo un biglietto destinato a lei: Per te, che profumi di viole e rosmarino, candido giglio della casa di Timeo, umile e riconoscente si alzerà il canto del poeta d’amore Ibico reggino.

    Sirina non conobbe mai il contenuto di quel biglietto, caduto dalla veste di Timeo quella sera stessa e prontamente raccolto, letto e gettato nel fuoco, con rabbia, da Chirio.

    Solo le voci degli uccelli riparati tra le foglie e sui rami degli alberi salutarono quella nuova partenza; al rumore del loro passaggio si unirono altri fruscii, voci di piccoli animali che si andavano svegliando. Per lungo tempo non incontrarono anima viva. Il loro carro procedeva in silenzio, la guida attenta e sempre vigile scrutava il sentiero, sul quale il fido Glauco guidava le mule con la solita perizia. Durante la prima parte del giorno parlarono pochissimo, quando il sole raggiunse lo zenit e la strada cominciò a inerpicarsi, raggiunsero una fresca area boscosa e lì, tenendosi sempre vicino al sentiero, sostarono per far riposare gli animali. Dalle fresche colline si godeva un panorama incantevole fino alla costa rocciosa in lontananza, che sprofondava nei flutti. Ibico, rapito da cotanta bellezza, prese la cetra e suonò accompagnando con il canto i suoi versi; gli uccelli del bosco si zittirono e parvero stare in ascolto, incantati dalla sua voce, tutto fu silenzio, il suo canto dolce e struggente fece inumidire gli occhi del rude Glauco. Dopo alcune ore raccolsero le loro cose e continuarono il viaggio. Ridiscesero verso la pianura e alle prime ombre della sera raggiunsero un villaggio di pescatori presso i quali furono accolti calorosamente. Agli ospiti fu data una piccola capanna, poiché di notte la temperatura si abbassava e l’aria inumidita dalla brezza marina diventava frizzante. Ibico volle che Glauco regalasse loro un orcio di vino di quello buono, per ripagare la frugale ma sincera ospitalità ricevuta.

    Venne una nuova alba e i tre viandanti ripartirono: erano consapevoli che una sola giornata di cammino non sarebbe bastata per raggiungere la città di Himera. Il viaggio si presentava faticoso anche a causa del caldo che, aumentando ora dopo ora, provava la resistenza degli esseri umani e delle bestie, e quando si accorsero che sui vasti campi di cereali non c’era più nessun contadino, decisero di fermarsi anche loro. L’umore era un po’ basso, pur sapendo che non più di tre, quattro ore di marcia li separavano dalla loro meta… preferirono non correre rischi, così appena scorsero lo sperone roccioso di Kephaloidion tirarono un sospiro di sollievo.

    In una taverna del piccolo paese trovarono da mangiare, e considerato il gran caldo anche un portico coperto andò loro più che bene per riposare. Alypio, la loro guida, decise di andare a sdraiarsi su una specie di ballatoio rialzato, comodo per controllare di tanto in tanto le mule e il carico; Ibico si alzò esprimendo l’intenzione di arrivare fino al mare, di cui, in quella bellissima sera stellata, si avvertiva il profumo e il lieve respiro. Senza aggiungere una parola, Glauco smise di mettere ordine nelle loro bisacce e seguì i passi del suo padrone. Attraversate alcune viuzze, illuminate dal raggio della luna e dalla fioca luce di un lupanare, Ibico e Glauco raggiunsero il piccolo molo del porto di Kephaloidion. Davanti a loro sembrava dormire placidamente il vasto mare Tyrrheno… il pensiero di Ibico corse alla sua città, Rhegion, posta a guardia del mare cullato dal vento, su quello stretto incantevole e periglioso, attraversato da vorticose correnti. Si sentì un groppo alla gola, avrebbe mai più rivisto la sua città? La voce di Glauco che, in lontananza, aveva scorto alcune ombre che si dirigevano verso di loro, lo riportò alla realtà: Padrone, rientriamo alla svelta, quei brutti ceffi sono ubriachi, li ho osservati prima alla locanda! Si sono riempiti di vino e ora cercano la lite, torniamo dove c’è gente!

    Il cantore, ubbidendo al fido servitore, invertì rapidamente il passo, precedendolo. Guadagnarono immediatamente un buon vantaggio e non udirono più le voci degli ubriachi, per quanto Glauco, prudentemente e senza che Ibico se ne accorgesse, sin dallo scorgere dei malintenzionati aveva sfoderato il pugnale che teneva nascosto nella cintola. Raggiunsero presto le povere case vicino alla locanda, quasi protette dall’immensa rupe rocciosa che le sovrastava. Durante la notte Ibico si rigirava sul suo giaciglio e parlava nel sonno. Glauco osservava il padrone, preda di sogni inquieti, mentre i suoi pensieri erano ancora occupati da Sirina, la sfortunata figlia di Timeo. L’indomani ripresero il cammino e dopo circa tre ore avvistarono la collina di Himera e le costruzioni terrazzate del quartiere est, poste in forte pendenza verso il fiume omonimo. Forse per la foga dovuta all’eccitazione di aver raggiunto la meta, un’improvvisa asperità del terreno fece sobbalzare il carro su cui sedeva Ibico, che cadde rovinosamente in avanti, fratturandosi le ultime due dita della mano destra. Glauco gli impose di tenere immerse le dita in un catino d’acqua, per mitigarne il dolore. Il carro si arrampicò sulla collina e la bella città, circondata da

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