L'isola dell'argento
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Anteprima del libro
L'isola dell'argento - Giuseppe Fanciulli
L'isola dell'argento
Immagine di copertina: Shutterstock
Copyright © 1946, 2022 SAGA Egmont
All rights reserved
ISBN: 9788728492420
1st ebook edition
Format: EPUB 3.0
No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.
This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.
www.sagaegmont.com
Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.
CAPITOLO I.
SPARI NELLA NOTTE
Il vento di maestrale che soffiava da due giorni aveva spento il nostro fuoco. Tuttavia, Demetrio ed io restavamo seduti dinanzi al camino freddo, in ascolto di quella gran voce disperata. Di tanto in tanto, un filo di vento riusciva a insinuarsi nella stanza, e vibrava sibilando, serpentello invisibile; il lume a olio, allora, palpitava impaurito della sùbita minaccia, chè a tutti dispiace finire uccisi da un nemico che non si può riconoscere; come se non fosse proprio questa la sorte comune e inevitabile.
Tutto il marzo era stato a quel modo ventoso, e mi aveva impedito di correre il mare con la barca; tanto che, iroso e selvatico, ero rimasto ogni giorno fra le quattro mura dell’orto, a vangare inutilmente la terra dura; o chiuso in casa, ceduto dietro i vetri frementi, guardavo il cielo turchino, tutto acceso di sole, e aspettavo la lenta, ma sicura vittoria delle tenebre.
Qualche volta, avvicinandomi allo scrittoio, pensavo di prender penna e carta per stendere il racconto della mia vita; è un modo di conoscersi meglio il raccontarsi a se medesimi; ma poi? E proprio la mia vita meritava un racconto? Infine, non avevo fatto ancora nulla; se ora scrivo, è perchè qualche cosa è accaduto.
Anzi, in quel tempo, mi pareva che la mia vita si fosse ridotta a somigliare una pagina bianca; e sebbene avessi poco più di trent’anni e il mio corpo fosse forte e sano, non mi sentivo capace di tracciare un segno nuovo.
Ormai non andavo quasi più alla miniera. Demetrio, il mio socio — che aveva un piccola parte nelle proprietà — teneva con impegno la direzione dei lavori, sprofondato nella terra, fra la polvere del minerale; ed io da casa curavo gli affari, con un senso di fatica sempre maggiore. In pochi anni mi ero fatto ricco, aiutato dalla fortuna; ma non per questo mi sentivo contento; anzi, la mia primitiva serenità si era a poco a poco velata, diventando nient’altro che un ricordo. Mi piaceva soltanto andare sul mare, con la vela ben tesa, scavalcando le onde. Guardavo la mia bella casa, alta e bianca sul promontorio, lontana dal paese schiacciato sulla costa; e mi pareva che più mia fosse la barca, casa senza radici, leggiera e libera, come l’avevo sognata ragazzo.
Demetrio arrecava poco mutamento alla mia solitudine, quando saliva a passare una giornata da me. Mi riferiva con rapida chiarezza tutto quanto era avvenuto nella miniera; mi portava appunti e cifre che io dovevo trascrivere nei nostri registri. Qualche volta aprivo dinanzi a lui le grandi pagine gremite di numeri, ed egli vi si smarriva; diceva che gli era più facile camminare e orizzontarsi negli oscuri corridoi sotterranei. Aveva una natura semplice e devota, animata da un inconsapevole entusiasmo, che gli faceva sembrare un’azione eroica quel continuo affaticarsi per strappare alla terra il minerale d’argento. Era italiano, come me, e non conoscevo bene la sua storia: sarebbe stato poco prudente, forse, il volersi informare, là dove tanta gente capitata da ogni paese aveva storie meritevoli sopra a tutto di essere dimenticate. Con me Demetrio era stato sempre leale, ma la nostra amicizia mancava di confidenza. Egli sentiva in me un uomo di altra razza, ed io stesso consideravo la sua semplicità con qualche sgomento. Perciò, fuor dei discorsi intorno ai lavori e agli affari, le nostre conversazioni andavano poco lontano; e spesso dei compatti, vasti silenzi stavano fra noi, come in quella ventosa notte di marzo.
Ognuno di noi seguiva qualche pigro pensiero, quando sui rimbalzi del vento rintronò netto uno sparo, ed altri, subito, più vicini più lontani, lo seguirono.
In piedi, ascoltavamo sospesi. Altri spari crepitarono; un rombo più grave si mescolò improvviso al mugghio del vento.
— È il cannone del forte — dissi.
— Andiamo a vedere — aggiunse Demetrio.
Giusto in quel momento, Regillo, il nostro servo, e Mauritana, la vecchia che governava la casa, si affacciavano sull’uscio; e il primo aveva l’aria del cane che drizza le orecchie e alza una zampa innanzi di slanciarsi a un frenetico inseguimento, mentre l’altra, tutta bianca, ci guardava trasecolata.
Già Demetrio ed io avevamo i mantelli sulle spalle, e i berretti ben calcati sulla fronte.
— Vieni anche tu — dissi a Regillo, contento di placare quella sua furia; e in un attimo fummo tutti e tre sul piazzale.
Il vento ci accolse con impeto di gagliarda pazzia. Pareva impossibile che le stelle e un fragile spicchio di luna restassero immobili nella vôlta del cielo. Laggiù, il mare, disteso come un secondo cielo, rivelava nel chiarore le sue schiume bianche; i fanali del molo mandavano brevi luci tranquille, e altre luci — lanterne, certamente — oscillavano lungo le banchine. Ancora il cannone del forte tuonò, due, tre volte.
Prendemmo a scendere rapidamente per la stradetta sassosa; girando dietro alle rupi, il vento si faceva meno violento. Eravamo diretti al forte, sicuri di poter sapere laggiù, meglio che altrove, la ragione di tanto frastuono.
Molti avevano avuto la nostra idea; chè la strada marina era ingombra di gente, accorsa da tutte le case rideste, e ribolliva di passi e di voci. Dinanzi al forte, i pochi soldati stentavano a trattenere quel flusso continuamente ingrossato. L’ufficiale, dal bastione più alto, vicino alla piattaforma del cannone, urlava nella sua lingua portoghese, che tutti, del resto, intendevano: «Che c’è? Che si vuole? Ora farò girare il pezzo verso di voi, se non tornate subito a casa vostra…»
Ma Regillo, che non aveva nessuna stima per gli artiglieri portoghesi, continuava a spingersi innanzi furiosamente, e noi lo seguivamo, come attratti dal risucchio di una corrente. Il servo passò, inosservato, oltre il cordone dei soldati; e noi medesimi ci trovammo a salire i gradini del bastione in un’improvvisa tranquillità.
L’ufficiale, riconoscendoci, frenò a stento un gesto di furore. Era un vecchio, grosso e rosso, che aveva accettato il comando delle Isole come un riposo, il più adatto per fumare a pipa e giuocare a picchetto e non poteva tollerare di essere disturbato.
— Voi siete qui, don Paolo Soligo…. — brontolò — voi qui….
— Che cosa avviene, capitano?
— Sono i soliti briganti, — ribattè l’ufficiale, alzando un pugno — quelli che bruciarono i magazzini…. e in mare ci rubarono un carico…. Stasera hanno rubato una sentinella sotto ai nostri occhi…, valeva molto meno, lo so, ma l’uniforme di Sua Maestà…. Qualcuno dobbiamo averne accoppato nella barca…. ma il veliero si è allontanato ugualmente…. con una notte come questa! Oh, affogassero tutti! tutti! Poi da Lisbona tempestano; il mio predecessore si giuocò il posto sempre per quei dannati. Ma che possiamo farci noi?… Il mare non si domina da un forte…. Mandi Sua Maestà le sue fregate…. —
Nello stesso momento, il cannone lasciò partire un altro proiettile, e poco lontana si vide la colonna dell’acqua sollevata.
— Smettetela voi! — gridò l’ufficiale, battendo la sciabola sulle selci — chè a quest’ora saranno già all’inferno! —
Due artiglieri e un graduato, ragazzoni rubicondi, si guardavano fra loro, beati.
La gente, sotto, continuava a strepitare. E l’ufficiale, spenzolato dal parapetto, ancora gridò:
— Vi ho detto di andare a casa! Abbiamo avuto un improvviso attacco di pirati, e le mie truppe l’hanno subito respinto. Andate. Altrimenti…. — e la voce riprendeva il suo tono più iroso — regalo anche a voi un po’ di piombo, che non sarà male speso…. perchè certamente anche qui è nascosto qualche traditore, e lo troveremo, e lo impiccheremo! —
Una voce stentorea, di beone beffardo, si levò sul brusìo della folla:
— Evviva il comando militare delle Isole! —
Qualche applauso risuonò qua e là, come uno scoppio di risa, ma l’ufficiale accolse con bonomia la manifestazione del popolo, e aggiunse raddolcito:
— Grazie, figliuoli; la legge e la forza, che vegliano sopra di voi, accettano volentieri i segni della vostra riconoscenza.
Altri applausi, più larghi, salutarono queste parole. Poi, voci di richiamo, fischi e canti s’intrecciarono, si persero in un vasto scalpiccio. Lo spettacolo era finito. La gente tornava verso il paese, voltate le spalle al forte. Di quell’allarme si sarebbe parlato in tutte le osterie fino a notte tarda, e poi nelle case, nei ciechi meandri delle miniere, per qualche giorno; poi più.
— Infine, tutto passa — disse l’ufficiale, che si asciugava la fronte, accaldato benchè l’aria fosse tanto diaccia. — Un bicchiere, don Paolo Soligo? No? È buono, di casa nostra, arrivato con l’ultima tartana…. —
Scendemmo le scale del bastione, e dovemmo entrare nell’alloggio del capitano. Ma Regillo, il nostro servo, rimase sulla porta: il suo amore per il buon vino è superato dall’odio per le uniformi.
La stanza, larga e bassa, era rischiarata da un lume a petrolio, che pendeva di mezzo al soffitto: ove, col suo fumo, aveva aggiunto alcuni tetri fiori esotici alle rose dell’ ingenua decorazione. Su una parete scialba, proprio sopra allo scrittoio dell’ufficiale, spiccava un gran ritratto a colori di Sua Maestà, rispettato certamente da tutti, fuor che dalle mosche chissà mai per quante stagioni; quelle stesse mosche avevano invaso la carta del Portogallo e del suo impero coloniale. Un odore acre di fumo e di bevande spiritose prendeva la gola; tanto che lì dentro pareva di essere in un’osteria della costa, o nel quadrato di un vecchio veliero.
Il capitano Sanchez si affannava a trovare tre poltrone libere, sollevando mucchi di oggetti disparatissimi: una vecchia tunica d’uniforme con la lucerna e la sciabola, una pila di registri, una gabbia ove alcuni topi bianchi, risvegliati all’improvviso, si sbattevano furiosamente; in quel tramestìo un gran fascio di carte gli cadde dalle mani e imbiancò largamente il pavimento. Demetrio si curvò a raccogliere qualche foglio, ma l’ufficiale gli disse in fretta:
— Non importa, non importa; sono pratiche in sospeso…. possono aspettare. —
E rideva con tutto il faccione rosso dai tre menti.
Finalmente fummo seduti dinanzi al camino ove ardeva un focherello. Si udivano, a sbalzi, i mugghi del vento, e continuo il fragore del mare che si rovesciava sulla scogliera a pie’ del forte.
Il capitano Sanchez scelse una pipa da una rastrelliera ben fornita, la caricò e l’accese con molta cura, poi cominciò ad aspirare e diffondere larghissime volute di fumo.
— Signori, — disse dopo qualche momento — voi avete il torto di venire qui troppo di rado. I maggiorenti del paese hanno l’obbligo…. obbligo morale, naturalmente, perchè la legge, finora almeno, non parla di questo, sebbene mi sembri opportuno che il Governo dovrebbe…. insomma, i maggiorenti hanno l’obbligo di stringersi attorno all’autorità, specialmente quando questa autorità è insidiata. Siamo insidiati, signori, molto insidiati. —
Così dicendo, il capitano Sanchez si buttava tutto indietro sulla sua poltrona fonda, e appoggiata la grassa mano sul giustacuore quasi bianco, continuava a mandar sbuffi di fumo, anche più frequenti e impetuosi. Poi, tolta la pipa di bocca, si pose fra le labbra un fischietto che gli pendeva dal collo, e lanciò un lungo sibilo.
Quasi subito apparve sulla soglia un vecchio sottufficiale al quale il capitano fece un cenno che doveva essergli consueto.
Senza chieder altro, infatti, il graduato portò fra noi un tavolinetto che mostrava fitti segni di fondi di bicchieri e bottiglie, rotti qua e là dalle incisioni di qualche temperino distratto. Poi il graduato fece per andarsene, ma il capitano Sanchez lo fermò con un cenno.
— Direte al tenente Sierra di venir qui. —
Il sottufficiale accennò di sì con la testa, e di nuovo si mosse; un altro gesto del capitano lo fermò.
— La signorina Leonora è ancora alzata? — chiese l’ufficiale.
— Luce nella camera—rispose semplicemente il vecchio.
— Ditele di scender giù, se vuole. Abbiamo ospiti. —
Il sottufficiale s’inchinò e potè uscire.
— Bisogna restare uniti, intorno all’autorità — riprese a dire il capitano Sanchez. — Infine, perchè il Governo mantiene qui una guarnigione, e sopporta spese? Non è forse per garantire la giustizia, l’ordine, la tranquillità? E queste garanzie giovano forse a me, che non vedo aumentata di un picciolo la mia paga, o a voi che con lo sfruttamento delle miniere vi arricchite, avete case, cavalli, barche e bastimenti? Trent’anni fa, queste Isole non appartenevano a nessuno, e nessuno qui era ricco. L’arrivo dei Portoghesi ha segnato una data memorabile per la storia di queste Isole; anzi, la prima data…. Non bisogna dimenticarlo. —
Sorridevo ascoltando; e approfittai della pausa che il capitano Sanchez aveva giudicato necessaria a riattivare la sua pipa languente, per dire:
— Eppure, capitano, questo forte era un castello genovese. Ancora si vede la croce della repubblica sull’arcata della porta. Vi sono dunque, mi pare, delle date più antiche nella storia delle Isole.
— Rovine, don Paolo Soligo, rovine! — ribattè il capitano Sanchez, con un rude colpo sul bracciuolo della poltrona. — L’Italia tutta è una rovina, dopo il passaggio dell’uomo di Sant’Elena…. Dalle pietre sparse noi abbiamo ricavato questo forte, e in luogo di quel branco di briganti, di pirati, di filibustieri, che Dio disperda fino all’ultimo, abbiamo costituito una popolazione laboriosa, disciplinata, morigerata….
— Alla quale — osservai — promettete generosamente i colpi del vostro cannone. —
Il capitano Sanchez rise fragorosamente, e aggiunse quando potè riprender fiato:
— Bisogna che i padri qualche volta si mostrino severi; e quelli che gridano di più non sono certo i più cattivi. —
Primo a entrare fu il tenente Sierra: un uomo di mezza età, lungo, magro e dinoccolato. Ci salutò militarmente, senza tenderci la mano; trovò per sè uno sgabello, e seduto rimase a guardare il tavolino