Commedia all'italiana
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Con un tono svagato, da commedia, appunto, Vittorio Laurenti, il protagonista di questo romanzo, racconta la tragedia di un uomo e dei suoi cari, intrecciandola con la cronaca quotidiana degli anni di piombo.
Al derby Roma-Lazio, alle proprie tresche amorose, ai suoi problemi di lavoro si aggiungono le tensioni che hanno segnato la vita di tutto il paese, le manifestazioni studentesche, gli scontri di piazza. La conclusione, come spesso accade nelle ‘‘commedie’’, è tragica.
L'assassinio, impunito, di un innocente conclude il racconto. La vita però continua con i dubbi, i desideri, i sensi di colpa, la speranza in un futuro migliore.
Gabriele Damiani
Gabriele Damiani, scovato da Aliberti grazie a un concorso, maneggia la fantapolitica con impegno e passione, plasma la materia e forgia un thriller che si basa, principalmente, su ritratti ironici ma crudeli. Non è il solito commissario e non è il solito crimine di provincia. Politico, asciutto, è un nero intenso che fa male dalla prima pagina all’ultima. La prosa scorre rapida ma il sapore amaro dei fatti resta dentro. Ma sarà davvero tutto frutto della fantasia?
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Anteprima del libro
Commedia all'italiana - Gabriele Damiani
Gabriele Damiani
romanzo
Meligrana Editore
Copyright Meligrana Editore, 2012
Copyright Gabriele Damiani, 2012
Tutti i diritti riservati
ISBN: 9788897268772
Meligrana Editore
Via della Vittoria, 14 – 89861, Tropea (VV)
Tel. (+ 39) 0963 600007 – (+ 39) 338 6157041
www.meligranaeditore.com
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Gabriele Damiani
COMMEDIA ALL’ITALIANA
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Gabriele Damiani
Gabriele Damiani (L’Aquila, 1956) a diciassette anni era già cronista del quotidiano ‘‘Il Mezzogiorno d’Abruzzo’’. In seguito è stato imprenditore, professore di metodologia della scienza economica, dirigente e consulente d’azienda, diventando infine ufficiale del corpo militare della Croce Rossa Italiana. Tra un’avventura e l’altra non ha mai smesso di scrivere, attività che per lui rappresenta la più seria e avvincente esperienza di vita, pubblicando dozzine di racconti su un gran numero di riviste. Nel 2010 ha pubblicato il romanzo ‘‘Il destino, forse’’ (Autodafé) e nel 2011 l’e-book ‘‘Un buon sapore di morte’’ (Meligrana Editore).
Contattalo:
gabrielinodamiani@gmail.com
1.
L’orologio segnava le ore piccole e me ne tornavo alla cuccia. Roma sembrava una tigre addormentata. Passava una macchina ogni morte di papa e i semafori se ne stavano quasi tutti spenti. Lungo i viali filavo a tavoletta.
Avevo trascorso quella domenica insieme a Renata, tappati tutto il giorno a casa sua, giù nella zona di Villa Bonelli.
Renata è la moglie di Gianni Caprile.
Gianni fa il fotografo all’Albatros Editrice spa, una casa che pubblica fotoromanzi. Ai vecchi tempi, quand’ero un cronista, tutt’e due avevamo lavorato a Momento Sera
.
Lui in quei giorni si trovava a Venezia a riprendere gli esterni di un fotoromanzo intitolato - pensate un po’ - Amore sulla Laguna. Renata, che è un’accanita lettrice di fotoromanzi, approfittava dell’assenza del marito per mettergli un po’ di corna. Ne approfittavo anch’io.
Con i fornelli, giacché dalla vita non si può avere tutto, la pupa se la cava male. All’una aveva cucinato un pranzo schifoso e alle otto uno schifo di cena. Avevamo mangiato, a pranzo, spaghetti al tonno, scotti, e per secondo pane e stracchino. A cena una fettina bruciacchiata con contorno di patate fritte. Fritte nel senso di carbonizzate fuori e crude dentro.
Ah, dimenticavo: io avevo portato le paste, per fortuna. Addolcirono le pene inflitte al mio palato.
Nonostante sia una cuoca da condannare alla forca, Renata in compenso è provvista di altre doti. Per esempio, è un gradevole tocco di femmina ventinovenne. Dai fianchi larghi e dal grosso deretano. E mammelle abbondanti e cosce da statua. Ben disposta fra le lenzuola a giochini d’ogni specie. Tecnicamente perfetta. E possiede lunghi capelli ossigenati, una faccia simpatica e occhi che cambiano di colore, andando dal nocciola al verde cupo. E dalla bocca emette una vocina da oca con la quale mi domandava di continuo se l’amavo. Mi tirava da impazzire.
I miei appuntamenti con lei consistevano in pratica in esplosioni di fuochi d’artificio. La girandola pirotecnica durava ore e ore, non so se rendo l’idea. Dalle tapparelle semichiuse filtrava una penombra galeotta nella quale noi compivamo nudi i gesti di rito, o tutt’al più mezzo svestiti. La faccenda aveva un gustoso sapore di peccato.
Ma in questa storia Renata c’entra solo di striscio, perciò non vi prometto scene spinte. Se vi allettano le scene spinte cercatevele in un libro di Moravia. Qua non ne troverete.
Riprendiamo quindi la storia che voglio raccontarvi.
Erano le ore piccole, dicevo, e stavo rincasando. Avevo speso la domenica con la mia amichetta. Mi sentivo parecchio in gamba.
La luce torbida dei lampioni colava sull’asfalto. Qui e là brillavano i fuochi accesi dalle mignotte per farsi pubblicità e scaldarsi il didietro. Al Colosseo sfrecciò un’ambulanza.
Salii su per Colle Oppio, fino a largo Brancaccio. Svoltai a sinistra in via Merulana, verso Santa Maria Maggiore, e una cinquantina di metri dopo ero alla base. Abito infatti in largo Sant’Alfonso numero 3. Non chiedetemi perché si chiami largo
. In verità non è che l’imboccatura di un vicolo, denominato a sua volta via di San Vito. Chi gli affibbiò il nome lavorava di fantasia, si vede.
La sorte mi fu benigna. Trovai un posto per la macchina proprio all’angolo con via Merulana, di fronte alla vetrina di Men
, il negozio d’alta moda per uomo, la cui padrona, una rossa dagli occhi verdi, è una delle più eccitanti belle donne ammirabili sulla piazza. Roba fine, intendiamoci, e seria, come corre parola, a dispetto di tutti quelli che ci spendono un pensierino. Me compreso.
Chiusi il coupé Lancia a chiave. La notte era umida. Le rotaie del tram in disuso di via Merulana mandavano dei riflessi sfocati. Spinsi il cancelletto di ferro che immette nel piccolo cortile del mio palazzo e, non appena fui dentro, lo riaccostai. I due bidoni della spazzatura, in agguato dietro il cancello, mi riconobbero e mi salutarono educatamente con il loro profumo. Dal secondo bidone un gatto saltò giù e scappò nel vicolo infilandosi tra le sbarre. I gatti odiano gli scocciatori. E fanno bene.
Percorsi il viottolo cementato che taglia di sbieco il cortile, arrivando al portone a vetri. Alla luce del neon fissato alla pensilina, cercai nel portachiavi la yale con la cromatura scorticata. La individuai. Aprii e penetrai nell’edificio. Non fui abbastanza attento e il portone richiudendosi sbatté con un fracasso da svegliare le mummie.
Masticai a mezza bocca un vocabolo poco pulito, uno di quelli che si pronunciano in simili circostanze, e accesi la luce a tempo della tromba delle scale.
Salii la breve rampa di sei gradini che conduce al primo pianerottolo e termina in faccia allo sportello della portineria, coperto a quell’ora da uno scuro di legno verniciato a olio. Quando premei il pulsante di chiamata dell’ascensore, i vetri dell’ingresso ancora tintinnavano distintamente. Per fortuna Oreste, il portinaio, alloggiato nel quartino attiguo alla guardiola, è un sordo quasi completo, perché se la botta lo avesse svegliato era capacissimo di affacciarsi in pigiama e prendermi a male parole con la sua vociona da duro d’orecchi, malgrado fossimo nel cuore della notte. La moglie, donna dall’udito perfetto, è anche meno tollerante del marito, ma poco incline alle sceneggiate.
Flemmatico, il vecchio ascensore arrivò. Spalancai la gabbia e le due ante della cabina. Mi c’infilai. Richiusi e schiacciai il pulsante del terzo piano. L’ascensore traballò in su.
Mentre uscivo sul mio pianerottolo sentii i passi di uno, o una, che scendeva dal piano di sopra. La luce si spense. Il congegno a tempo non è regolato bene, cioè non è sincronizzato con la bassa velocità dell’ascensore e la luce si spegne sempre troppo presto. Chi scendeva le scale si fermò.
Riaccesi. In fondo al pianerottolo, ai piedi della rampa che va al quarto piano, vidi per terra l’ombra del busto di un uomo. L’ombra scivolò sul pavimento e risalì la parete opposta, ingigantendosi. Il suo proprietario comparve svoltando da dietro la gabbia di sicurezza dell’ascensore. Era il signor De Santis, l’inquilino della porta accanto.
«Buonasera, dottor Laurenti».
Era andato a prendere una fresca boccata d’aria notturna in terrazza? Era reduce da una partitina a carte con qualcuno dei condomini dei piani superiori?
Boh.
Dissi: «Buonasera», e inserii la chiave nella toppa.
Lui passò davanti all’ingresso chiuso dell’interno 11, il suo appartamento, e si avvicinò a me, che occupo il 10.
«Dovrei chiederle un favore».
Era l’una e un quarto di notte e stavo rincasando dopo una giornata a suo modo impegnativa e quello arriva e dice di volere un favore. Dentro di me si scatenò la tempesta.
«E’ un po’ tardi», dissi.
Mi fissò imbarazzato, completamente a corto del suo smalto abituale. «E’ urgente».
Angelo De Santis era un uomo dai molti chili. Più largo che lungo. Tutto trippa e natiche. Non che fosse uno di quei ciccioni mollicci il cui grasso sembra di panna montata. Oh no. Lui apparteneva alla classe dei tracagnotti energici, tipo Gino Cervi nei panni di Peppone, però senza baffi. Era simpatico e gentile per istinto, non per calcolo, con un faccione gioviale dal colorito bruno. Aveva una folta capigliatura nera e spettinata e dimostrava di aver superato da due o tre anni i quaranta. Faceva il cancelliere al tribunale ed era una delle persone più a modo del condominio. Se mi chiedeva un favore aveva i suoi buoni motivi e sarebbe stato sgarbato da parte mia fare l’indiano. Dopo la morte di mio padre, lui e la moglie si erano adoperati in mille modi per darmi conforto. M’invitavano spessissimo a mangiare da loro. E la signora De Santis, all’opposto di Renata, cucina da leccarsi le dita. In verità non sarebbe stato giusto definire i De Santis semplici vicini di casa. Erano amici di famiglia. A queste considerazioni non potevo sottrarmi, benché avessi preferito in quel momento non ricevere seccature da nessuno e andarmene difilato a letto a godermi il meritato riposo.
«D’accordo», dissi, «di che si tratta?».
Gettò uno sguardo intorno. Poi di nuovo guardò me. Accennò alla porta che stavo per aprire. Non era una mimica difficile da comprendere: non gli garbava parlarne là fuori.
«Sa», disse, come per scusarsi, «se non le dispiace».
«Ma no», mentii, «le pare».
Aprii ed entrammo. Riaccostai la porta.
«Dica pure».
Guardò la porta socchiusa. «Forse è meglio chiuderla».
Secondo me ora stava esagerando; non glielo dissi e chiusi.
Si passò una mano sulla bocca. Mi lanciò un’occhiata incerta. «Potrei dormire da lei, stanotte?».
Quella sì che era una richiesta eccentrica. Non sembrava brillo né particolarmente impazzito. Magari un po’ sulle spine. Anzi, parecchio sulle spine. La moglie spiando dal buco della serratura lo aveva pescato a masturbarsi sulla tazza del gabinetto e cacciato di casa?
«E’ successo qualcosa?», domandai.
«No».
Risposta quanto mai incredibile.
Cambiai discorso: «Beve un cicchetto?».
«No, grazie», disse, pur avendo tutta l’aria d’averne bisogno.
Cambiai ancora discorso, stavolta con intenti meno innocenti, più subdolamente investigativi: «E la signora?».
«Sta dai suoi, con la bambina».
Cavolo, che rompicapo. Tentai una sortita spiritosa: «Sia sincero, ha paura di dormire da solo, vero?».
Mi guardò con occhi immalinconiti da una vaga intenzione di biasimo.