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Il ladro di ragazze
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E-book570 pagine8 ore

Il ladro di ragazze

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Info su questo ebook

Un’antica leggenda del Mendrisiotto narra di un non meglio precisato mago – padrone di un castello in una zona solitaria alle pendici del Monte San Giorgio (Cantone) – che con l’aiuto delle sue guardie rapisce giovani e povere ragazze nella pianura tra Mendrisio e Rancate. I vecchi raccontano di una grotta situata nel bosco dove le fanciulle venivano rinchiuse e rese vittime di un misterioso gioco magico. La grotta effettivamente esiste, l’autore l'ha visitata e fotografata un paio di volte. Dietro questa storia lugubre alcuni storici del Mendrisiotto hanno creduto di ravvisare un fondo di verità: Nel 1603 un nobile del Ducato di Milano viene messo al bando per vari orribili reati e trova esilio, con i suoi sgherri, in un palazzotto di campagna tra Rancate e Riva san Vitale. Il palazzo esiste ancora e la gente del posto lo chiama il castello del mago di Cantone.
Il romanzo fa rivivere l’ambiente sociale, religioso e popolare dei baliaggi svizzeri a Sud delle Alpi e del Ducato di Milano nella prima metà del Seicento.
L’autore costruisce una vicenda incentrata su un gruppo di personaggi in parte inventati e in parte tratti dai documenti dell’epoca.
In questo scenario si inserisce una grandiosa quanto ardita caccia all’uomo – disseminata di clamorosi errori giudiziari – che si intreccia con storie d’amore, omicidi, briganti, nobili e villani.

LinguaItaliano
Data di uscita23 apr 2015
ISBN9788897308584
Il ladro di ragazze
Autore

Carlo Silini

Carlo SiliniNato a Mendrisio nel 1965, laureato in teologia a Friburgo nel 1989, sposato, un figlio.Editorialista e giornalista responsabile delle pagine di Primo Piano (approfondimenti) del Corriere del Ticino, il maggior quotidiano svizzero in lingua italiana.Sul piano locale ha curato reportages e inchieste sociali e culturali (il Ticino magico, l’Islam di casa nostra, i movimenti religiosi alternativi nel Cantone, i Duecento anni del Cantone, la pedofilia online in Svizzera, il razzismo elvetico, le condizioni di lavoro nei cantieri AlpTransit, il Sessantotto in Ticino e molte altre).Sul Corriere del Ticino commenta regolarmente avvenimenti religiosi e sociali.Nel 1999 ha firmato con Giovanni Vigo il saggio “Dal mille al futuro”, ed. San Giorgio.Nel 2005 ha vinto il premio di “giornalista svizzero dell’anno” per la Svizzera italiana, attribuito dalla rivista Schweizer Journalist.Nel 2015 e nel 2017 ha vinto lo “Swiss Press Award”, il più importante premio svizzero di giornalismo.

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    Anteprima del libro

    Il ladro di ragazze - Carlo Silini

    1659 – Venerdì Santo

    L’ombra immensa del Promemoria avanzava oscillando sopra le nuvole di incenso profumato e il mormorio eterno della liturgia. Maddalena ne attendeva il passaggio da più di mezz’ora. Malgrado fosse considerata una cattiva cristiana – lei però si riteneva svergognatamente religiosa: credente, cioè, in modo profondo sebbene poco ortodosso – non voleva mancare l’appuntamento con quella gigantesca statua coperta di seta nera. Ogni anno i membri della confraternita dell’Addolorata, cantando a bassa voce lo Stabat Mater, la portavano per le vie del Borgo la notte del Venerdì Santo.

    E adesso eccola lì, la Madonna dei Sette Dolori e degli altrettanti pugnali luccicanti conficcati nel cuore d’argento.

    Aveva un bel dire, il prete, che ogni lama rappresentava una delle ferite inferte alla Vergine: la profezia di Simeone, la fuga in Egitto, la perdita di Gesù dodicenne nel tempio, lo sguardo scambiato con lui lungo la Via Crucis, le lacrime ai piedi della croce, l’abbraccio al figlio morto, la sua sepoltura. A dispetto di quel bel catechismo, Maddalena si sentiva autorizzata a vedere nella statua dell’Addolorata di Mendrisio il volto di sua mamma, quella terrena.

    Ventisei anni prima sua madre era servita da modella all’artista che aveva plasmato nel legno il volto e le mani della Vergine (perché quelle erano le uniche parti scolpite che spuntavano dal manto: erano state inserite sul corpo di una statua più antica, forse un angelo monco). Non era stata una scelta casuale. Lo scultore, un Pietro Cassina che teneva bottega coi figli nel Comasco, aveva avuto dal committente l’ordine perentorio di riprodurre le fattezze di Barbara de Buziis e di nessun’altra. Non solo per via della sua strabiliante bellezza o per la nobiltà del casato al quale apparteneva. L’uomo che aveva dato disposizione, e soprattutto denaro, per realizzare l’effigie – il ricco daziario luganese Cristoforo Gorini – aveva indicato proprio in quella ragazza di Mendrisio la musa che lo scultore avrebbe dovuto obbligatoriamente ritrarre nei panni della Vergine. «Sennò si cerchino un altro mecenate.» I frati Serviti del convento di San Giovanni – destinatari del devoto regalo – non ebbero nulla da ridire. Si trattava di una generosissima donazione. E Barbara de Buziis prestò i suoi tratti alla Vergine delle sette spade senza protestare. All’epoca non poteva saperlo, ma quel ritratto sarebbe diventato l’ultima traccia visibile di un’inaudita vicenda della quale il mondo avrebbe occultato il ricordo con desolante rapidità.

    Maddalena, quindi, davanti alla statua, rivedeva sua mamma. E nelle spade che le trapassavano il petto i suoi profani dolori. Non voleva dimenticarne neppure uno. Per questa ragione aveva deciso di chiamare quel simulacro il Promemoria. Immaginava che tutti i protagonisti della storia che le macerava dentro fossero morti uccisi da una di quelle sante pugnalate. E per dare ordine ai suoi pensieri aveva dato il nome di una delle vittime a ogni coltello. Partendo da sinistra, il primo si chiamava Antonio ed era il padre di Maddalena; il secondo Barbara, ed era sua madre; il terzo Tonio, ed era il suo patrigno; il quarto Lena ed era la sua matrigna; il quinto il sesto e il settimo Andreina, Pia e Martina ed erano delle contadine del Borgo che lei, purtroppo, non aveva conosciuto, ma di cui aveva scoperto l’infausta sorte una memorabile notte del 1648. A suo modo di vedere lo scultore avrebbe dovuto aggiungere diversi altri coltelli nel petto della Vergine, uno per ogni ragazza che aveva seguito lo stesso destino delle tre popolane di cui ricordava il nome. Ma i suoi ricordi anagrafici finivano lì. E, soprattutto, l’iconografia dell’Addolorata non prevedeva un numero diverso di spade nel cuore della Madonna.

    Il Promemoria, intanto, portato a forza di spalle da otto uomini, stava sfilando davanti alla pietrosa torre di Mendrisio. Confusa tra la gente, Maddalena ebbe un moto di sconforto pensando che era l’unica persona rimasta viva dopo gli atroci fatti di ventisette anni prima.

    Indirizzò lo sguardo verso l’ombra nera che galleggiava sopra la folla, ma le lacrime le impastarono la vista e non riuscì a distinguere i tratti decisi e insieme teneri del volto di sua madre.

    Piangendo le chiese il coraggio di non dimenticare.

    Indice

    Indice

    PRIMA PARTE

    IL LADRO DI RAGAZZE

    1

    1631 – Primavera

    Beato l’uomo capace di peccare. Con questa idea luminosa nella testa, il Tonio, detto Stralüsc – il fulmine, nella parlata locale –, non immaginava che quella sera di inizio marzo si sarebbe innamorato come un pollo e sarebbe stato inaspettatamente incapace di violare il sesto comandamento – non commettere atti impuri – come Dio comanda, cioè con una donna.

    Attanagliato dalle voglie, il servo preferito del nobile Gorini cercava una giovane dea che, scalpitando assieme a lui, gli scaldasse la notte e le vene. Finalmente aveva deciso. Superata da diversi anni la pubertà e convinto di non avere speranze di sposarsi e di metter su famiglia, avrebbe sfruttato fino in fondo la sua condizione di libero, giovane e ricco zitello del Borgo. Complice l’aria frizzante della primavera e il sangue in circolo, più liquido del solito, aveva stabilito di ignorare, una volta per tutte, l’idea virtuosa a cui ciclicamente si aggrappava di godere solo e unicamente della signora che sarebbe stata la sua sposa. Del resto non era esattamente a digiuno di donne e di gonne. Ma, come dire, si era sempre trattato di brevi sorsi di vita, consumati di nascosto e alla rinfusa: giovani contadine sudate, donne mature e inquiete, vezzose professioniste dell’amore a pagamento.

    Nessun incontro fondamentale. Solo gioiosi e perlopiù casuali rotolamenti nei campi o in camere d’osteria conclusi quasi tutti anzitempo: quando un padre o un fratello urlavano il nome della ragazza e quella, spaventata dall’ipotesi di essere trovata nuda tra le braccia di un villano, scappava via terrorizzata dal nascondiglio amoroso. O quando la prostituta di turno cominciava a chiedere più soldi di quanti lui ne potesse versare. Le poche volte in cui aveva avuto tutto il tempo e la tranquillità per darsi e prendere, dopo l’intensità del piacere era piombato in uno stato di inquietudine che aveva finito con l’attribuire alla giusta punizione divina per la sua impudicizia. Così, almeno, gli suggeriva l’educazione inculcatagli a sberloni durante l’infanzia dai frati del convento dei Serviti. Perciò, dopo l’ennesimo incontro carnale conclusosi nell’aceto dei mea culpa, a diciotto anni aveva deciso di non darsi più a nessuna. A meno che si trattasse della donna della vita. La sua fase di casta attesa dell’anima gemella, a dire il vero, durava giusto il tempo che lo separava dalla prossima tentazione. Lui ci cadeva, si pentiva, si riprometteva di non fornicare più e avanti così, in un ininterrotto ciclo che lo portava dall’astinenza al sesso e dal sesso all’astinenza.

    È che non ho ancora incontrato quella giusta, si diceva.

    Quella sera, tuttavia, aveva deciso di farla finita coi finti pentimenti e gli slanci di purezza amorosa capitolando di fronte all’ultimo assedio del desiderio, che lui immaginava come un leone indomito che ruggiva dentro la sua pancia.

    Invece di agitarsi per una delle numerose e prospere amatrici d’osteria che era spesso costretto a frequentare, quella sera, fantasticando, il Tonio si incagliò su un fantasma erotico di vecchia data e quindi solidamente radicato nel paradiso dei suoi desideri: l’Andreina, una contadina dallo sguardo criminale e le forme pienotte con la quale non aveva mai avuto il piacere di intrattenersi intimamente. Quando lui aveva dodici anni, e lei due di più, solo a guardarla si sentiva pronto per l’inferno. E infatti, rammentava, ogni volta che la vedeva aggirarsi nei vicoli: pam! La mano secca della Berta, la sua cara mamma adottiva, o quella ancora più scheletrica di padre Buonfiglio, l’austero precettore del convento dei Serviti di Mendrisio, subito raggiungevano l’area scoperta tra le sue scapole e il retro del cranio.

    «Guerra preventiva alla tentazione», commentava con acidità teologica il frate quando, coi lacrimoni, l’Antonio gli chiedeva ragione di quell’aggressione.

    «"Purscel!"» spiegava invece la Berta, senza smarrirsi tra sfumature dottrinali.

    Ma il risultato era sempre lo stesso. Ora di sera la sua collottola era carne viva, pulsante, due cordoni rosso fuoco che collegavano la schiena alla sua testa di giovane mulo.

    All’epoca l’Andreina gli faceva una gran rabbia. Per carità, guardare si lasciava guardare e non era necessario mettercisi d’impegno per immaginarne un uso imperdonabile al cospetto di Dio. Ma agli occhi del suo cuore pudico era da qualche parte eccessiva: così tonda, liscia, bionda. Perfettamente e universalmente concupibile. Ce l’aveva scritto in faccia: desiderami.

    E gli ordini, quando erano così perentori, gli davano sui nervi.

    Tieniti il tuo splendore sfacciato, pensava, illudendosi di sfuggire al potere della sua bellezza.

    Quella sera di marzo di alcuni anni dopo, però, una come l’Andreina avrebbe sgretolato con un sorriso il muro del suo orgoglio. E poi, rifletteva, non era sposata, perché la famiglia non poteva pagarle la dote. Ma si intuiva, e si vedeva, che non era anima da convento o corpo da astinenza. Il Tonio, però, non mentì a se stesso. No, quella sera non cercava una moglie, ma una femmina. Una in grado di rimescolarlo con uno sguardo; una come l’Andreina.

    Peccato che da settimane non la vedesse più in giro. Eppure, l’ultima volta che l’aveva incrociata, lei lo aveva scrutato in quel certo modo che gli aveva rammentato d’essere un angelo impuro. E da allora il leone del desiderio si era ridestato con insindacabile vigore. Così ragionava tra sé il Tonio, di nuovo faccia a faccia con le sue voglie.

    Malgrado la sincera ricerca di una compagna per la vita, quindi, il lunedì il suo cuore pulsava per una nera e il martedì per una rossa. Ma rincorrendo tutti quei fantasmi colorati, l’orgia dei battiti rimbombava invano. Non faceva che amplificare il vuoto che aveva dentro.

    Il colore che gli sgombrò le meningi dalla bionda carnosità dell’Andreina fu il bruno scuro della criniera della Lena. Urtò la ragazza per caso nei vicoli tra la chiesa di San Giovanni e quella di Santa Maria e lei cadde sui ciottoli come un sacco sbalzato da un carro in corsa. All’inizio, prima di vederla in faccia, tentò una goffa giustificazione che poteva capire solo lui.

    «Scusa, ero distratto dal ruggito del leone dentro la pancia».

    Poi, di fronte allo sguardo interrogativo della Lena, preferì tacere e contemplare.

    Il Cielo gli aveva messo sulla via una ragazza priva dell’immancabile scorta di fratelli, padri o zii che di solito attorniavano le donne in età da marito. Era stupenda. Bastava osservarne le forme morbide e slanciate mentre la donna tentava di rialzarsi.

    Lui era talmente impreparato a quel frangente che, invece di aiutarla, se ne stette fermo perdendosi nel delicato sentore della sua pelle.

    Gelsomino?

    Come sempre gli succedeva negli ultimi tempi, riorientò senza rimpianti i desideri verso la nuova fiamma.

    Fa di me quello che vuoi.

    Tornò padrone dei propri mezzi solo quando lei era già in piedi, straripante di una rabbia che le usciva a fiotti dallo sguardo battagliero. Si lasciò invadere da quel fiume di scintille. Seguirono alcuni interminabili secondi di laborioso silenzio. Il Tonio scartabellò mentalmente nell’archivio del cervello.

    Ma io la conosco, si disse riprendendosi. È la Lena, la figlia del Cecco Bernasconi. Mica mi ero accorto che si era fatta così... così...

    Se fosse stato lucido, si sarebbe accorto di essere perduto: fino a quel momento nel proprio vocabolario delle voglie aveva sempre trovato una parola adatta a definire con sboccata soddisfazione l’oggetto dei suoi desideri. Ma ora nessun termine gli sembrava degno di tanta bellezza.

    Ma appunto, non era in sé.

    La Lena, voltandosi furiosa e zoppicante, era intenzionata a dare come minimo del vitello a quell’incapace che l’aveva travolta. Ma, riconoscendolo, era passata dall’ira al turbamento nel tempo di un amen.

    Lo Stralüsc! Quest’idiota è bello come San Sebastiano, si disse.

    Nel dirlo rivide mentalmente il giovane nudo, trafitto dalle frecce, affrescato nella Chiesa di Santa Maria degli Angeli a Lugano. Ma la faccia era quella del Tonio. Per uno così, si era sempre detta, al diavolo la castità! Anche lei, come tutte le donne di Mendrisio impossibili da accasare, aveva messo da tempo le sue incredibili iridi scure su quel bizzarro garzone, servo del Gorini. Le piaceva la sua aria surreale da poeta con le mani contadine, un po’ angelo e un po’ somaro. Piacente, stralunato; forte e nello stesso tempo dolce, come si intuiva dallo sguardo fermo e caldo. E poi, vedi alle volte i gusti, le piaceva come camminava. Quasi danzando. Senza contare, per venire al venale, che non aveva problemi di casa o di polenta. Nessuno capiva bene per quali esatti motivi, ma il suo padrone lo aveva raccolto dal convento dei Serviti – dove era stato deposto in fasce da una mano anonima e dove era cresciuto fino all’adolescenza – e lo trattava come un figlio.

    Era un povero ricco.

    «Scusami tanto», disse il Tonio atterrando direttamente dal Paradiso e cogliendo lo smarrimento emotivo della ragazza.

    Intanto, nel ventre, il leone affilava gli artigli.

    «Ti sei fatta male? Riesci a camminare? Vieni con me. Ora devo fare un po’ di penitenza: per farmi perdonare, non credi? Prendo il carro e l’asino e ti riaccompagno a casa...»

    «Grazie», gli rispose la ragazza un po’ imbronciata, attaccandosi al suo braccio. «Anche se di questi tempi è meglio non mettersi nelle mani degli sconosciuti.»

    «Ma tu mi conosci.»

    Non rispose, ma restò aggrappata al bicipite del cavaliere, teso un po’ più di quanto le leggi anatomiche avrebbero previsto.

    Sei mia prigioniera, pensò lui.

    Te la dò io la penitenza, pensò lei.

    Il Tonio esibì una scontata scusa sia per trattenerla a casa sua, sia per cominciare a spogliarla.

    «Sai, sono stato apprendista cerusico», mentì. «Ho tutto l’occorrente: le erbe giuste, le pomate; ti bendo io il piede. Te lo devo!»

    «Fa di me quello che vuoi», gli disse la ragazza, entrando telepaticamente nel palazzo delle sue fantasie e vedendolo sbiancare di incredulità sotto i suoi occhi. Poi si tolse con sapienza lo zoccolino, gli porse con infinita lentezza l’estremità e, quando lui si avvicinò premuroso per afferrarla, lei gli sferrò un tale calcio in faccia che il Tonio cadde sul pavimento battendo la testa e tornando di colpo l’introverso ragazzotto di qualche ora prima.

    «Penitenza fatta», sentenziò la ragazza. Alzatasi senza alcuna fatica, se ne andò soddisfatta di se stessa e di quella prodigiosa pedata.

    Il Tonio, che l’aveva fatta troppo facile, si sentì ancora una volta invadere dai precetti morali.

    «Questa volta Dio mi ha punito prima ancora che consumassi.»

    E su quella fame capì che la sua vita era cambiata; che forse, proprio nel momento in cui si stava rassegnando a diventare un libertino sereno, aveva davvero incontrato la donna della vita, e che ormai il veleno di averla gli si stava sciogliendo nelle viscere.

    Massaggiandosi il cranio provò a fare mente locale. Conosceva la Lena da quando era una bambina, ma solo da quella sera gli pareva così... così... Possibile che non riuscisse a dirlo?

    Rispetto all’Andreina che fino a qualche ora prima gli danzava impudica nella testa, la Lena era di una bellezza un po’ meno appariscente. Schiva, mimetica, sfuggente. Pur in preda ai carnali ardori, il Tonio capì che valeva la pena di lavorarci con pazienza, di appostarsi tra i vicoli con una rete per catturare il bel felino riottoso e poi azzuffarcisi.

    La Lena nel frattempo era guizzata via sorridendo. Aveva lo sguardo trionfante di chi aveva messo un guazzabuglio in corpo a uno che le piaceva.

    Quella sera il Tonio si coricò buono buono nel suo giaciglio con la faccia rimbambita di chi era stato trafitto da un amore irrimediabile. Il leone interno mugugnava malinconico.

    Per una così potrei uccidere, considerò scivolando nel sonno.

    Non poteva immaginarlo: era una profezia.

    2

    Dissotterrarla no.

    Da qualche minuto Cesarino Fontana stava lottando col proprio vocabolario mentale per trovare il verbo che potesse definire esattamente l’operazione che avrebbe dovuto svolgere assieme al complice.

    «Dobbiamo disseppellirla», finì col dire insoddisfatto di sé. «... Sì, insomma, tirarla fuori da lì» comunicò indicando una pozza all’uomo coperto di cicatrici che divideva con lui i brividi di quella notte.

    «Ma è mai possibile che...»

    «... lascia perdere, Mala, ci tocca farlo e basta. L’ha detto Quello Là.»

    L’uomo brontolò una mezza bestemmia. Giorgio Malachisio, detto il Mala, non era originario del baliaggio. Basso, tracagnotto, volto e braccia solcati da strisce di pelle più bianca e raggrumata – segni di antiche ferite – il Malachisio era infaticabile e di buon comando e il suo capo se lo portava appresso ogni volta che c’era da risolvere qualche detestabile incombenza.

    «Dobbiamo recuperare il corpo dall’acqua», tagliò corto Cesarino Fontana – uno dei più feroci briganti nel baliaggio di Mendrisio e nella pieve di Balerna – mentre continuava a cercare la parola giusta. La gente l’aveva soprannominato il Crapanegra, un po’ per via dei lunghi capelli corvini che gli cadevano fino alle spalle, un po’ perché dava l’idea che nella sua testa abitassero solo pensieri oscuri. Nessuno, in sua presenza, osava chiamarlo col soprannome.

    «Ma cosa crede di farci con una morta?», chiese a vuoto il Mala.

    Non voglio neanche saperlo, pensò il Cesarino.

    Sputò per terra guardando in tralice il compare. Considerò un nuovo vocabolo.

    Pescarla?

    No, non lo convinceva.

    L’altro capì che non c’era mezzo di discutere e cominciò controvoglia – peggio: con ribrezzo – a immergere le braccia nella pozza.

    «Bisognerebbe buttarle dentro con un capo della fune legato a un piede e l’altro appeso qua fuori» disse mentre rimestava l’acqua alla ricerca del cadavere. «Così, se poi le si vuole recuperare, basta tirare la corda e... Presa!» gridò di colpo, illuminandosi come un bambino. «Aiutami, dai.»

    La tirarono fuori per i capelli e se ne staccò una piccola ciocca. Ma ormai erano riusciti a farla emergere quanto bastava per afferrarla sotto le ascelle e portarla via. Le membra erano scivolose. La ragazza nuda. Anche svuotata dell’anima risultava ben fatta. L’odore, meglio non pensarci. Ma sembrava meno peggio di quanto avessero previsto. Malgrado là dentro fosse piuttosto buio, i due sapevano che doveva avere la pelle di un bianco orribilmente trasparente.

    Avevano avuto serate migliori, va bene, ma perché si sentivano così inquieti? In fondo erano uomini ricercati, nel bene e nel male, proprio per la loro efferatezza.

    Il fatto è che a uccidere i vivi ci erano abituati. Ma questa mania di infierire sui corpi delle vittime dopo la loro morte, no: come si faceva a giocare con le anime dei trapassati senza avvertire un fondo cupo di paura e di disgusto? Infatti, una volta estratta la ragazza, sia il Mala che il Crapanegra, goffamente, si segnarono. Era per non pensarci troppo che il Cesarino si era incaponito in quella assurda ricerca della parola esatta.

    Disannegarla, provò.

    Il Malachisio lo riportò subito alla realtà che tentava di ignorare.

    «Perché, poi, il capo deve sempre trastullarsi con i corpi mezzi marci delle...» commentò lo sgherro pieno di cicatrici.

    «Taci», lo troncò il Cesarino nauseato. «Dobbiamo portargliela in casa entro mezz’ora e basta.»

    Ma fra sé e sé, abbandonata l’inutile ricerca del verbo, pensava la stessa cosa. E un’altra, quasi romantica, visto l’uomo che era:

    Che peccato, Andreina, eri così bella.

    3

    Maddalena Bernasconi – Lena, come la chiamavano tutti – era la quinta figlia di Cecco Bernasconi, un uomo di fatica che la natura benigna aveva votato alla riproduzione della specie. A guardarlo non l’avresti mai detto: né bello né brutto, né piccolo né grande, dalla sua aveva i muscoli sodi e un sorriso rilassante. E una moglie, Giulia, che lui – amante del vino bevuto all’ingrosso – considerava una damigiana di piaceri.

    Cecco lavorava giù nei campi vicino alla chiesa di San Martino e la sera, rientrando non del tutto stanco a casa, guardava la sua donna con finta severità.

    «Hai già detto le preghiere?», le chiedeva da dietro la schiena.

    Lei, che di solito stava al gioco, avviava ridendo i misteri gaudiosi. Ma le Avemarie giravano subito in falsetto.

    Se si va all’inferno anche per i rosari interrotti, meditava la donna, sono perduta.

    E si perdeva spesso. In quindici anni il Cecco ebbe con lei una dozzina di figli, una buona metà dei quali giunse ad età adulta, e non si sa bene quanti altri ne lasciò fuori dal talamo. Nel borgo dicevano che di giorno seminava frumento e di notte seminava e basta.

    «Datti una calmata», gli dicevano gli amici, quando vedevano la Giulia di nuovo incinta.

    «Cosa posso farci», rispondeva lui, «ero ciucco.»

    E mentalmente gli tornava subito voglia di una nuova sorsata dalla sua damigiana.

    Come facesse a mantenere quel circo non era un mistero: i maschi li teneva con sé nei campi e ogni tanto li prestava a un bandito del baliaggio per certi lavoracci di cui non voleva sentir nulla quando tornavano a casa. Bastava che alla fine portassero in tavola un pezzo di formaggio o addirittura, se l’impresa era stata particolarmente rischiosa, un quarto di cappone.

    Di qualcosa si deve pur campare diceva alla moglie quando la vedeva piangere mentre i suoi ragazzi partivano assieme al brigante coi falcetti infilati nella cintura.

    Di qualcosa si deve pur morire, pensò la sera che invece dei quattro che se n’erano andati all’alba ne vide tornare solo due, storti e muti, pieni di tagli e di terrore, che sembravano usciti dalle fauci di Cerbero.

    Quella volta non voleva crederci neanche lui che l’Alfio e il Mario, i suoi figli maggiori, fossero finiti davanti al tribunale di Dio per portargli a casa una coscia di pollo. Certo è che non li rivide mai più. E sa Dio se morirono battagliando quel giorno stesso assieme ai briganti o mille anni dopo, appesi ad una forca.

    Le figlie del Cecco, creature da togliere il sonno, erano invece contese dai giovani di tutto il baliaggio.

    Le due più grandi se ne andarono come il pane tolto caldo dal forno, ognuna con la sua brava dote di onesta contadina: due panni di lana colorata, una coperta trapuntata, quattro lenzuola, quattro tovaglioli, due asciugamani, un bacile di ottone, tre forcine per i capelli, un cassone di legno di noce, un anello di opale e l’immensa fortuna di essere nate per prime.

    Finiti i patrimoni di famiglia, alle altre il Cecco diede uno strabiliante consiglio.

    «Trovatevelo da sole il moroso e cercate di restare gravide.»

    «Perché, papà?», chiedevano quelle stupefatte.

    «Perché così gli tocca sposarvi lo stesso.»

    «E se non lo vogliono fare?»

    «Gli faccio trovare i vostri fratelli col forcone in mano.»

    Quattro delle sue bambine, con questo sistema, riuscirono a contrarre il santo matrimonio, col marito che annuiva a collo torto e loro che si massaggiavano il ventre davanti al prete.

    La Lena, seppur due spanne sopra alle altre per avvenenza, non era né tra le prime né tra le seconde e per lei la scelta era tra la vita di strada, a vendere amore giù al mercato di Como, e il convento. Salvo il fatto che anche le suore chiedevano una dote alle aspiranti novizie. Lei in cuor suo aveva già deciso: meglio darsi alle leggi di Dio che alle voglie degli uomini. A meno che non somigliassero a San Sebastiano.

    Di chiostri femminili a Mendrisio non ce n’erano. Ma da qualche tempo un gruppo di donne si trovava regolarmente in parrocchia e pregava davanti all’altare di Sant’Orsola, la regina che preferì farsi massacrare da Attila, lei e le undicimila compagne vergini, piuttosto che sondarne il vigore e prenderselo in sposo. Non era un caso se si riunivano ai suoi piedi nivei invece che, non so, davanti a quelli callosi Sant’Antonio. Certe devozioni sono atti di ribellione sotto mentite spoglie.

    Quelle ragazze erano della razza della Lena, terze o quarte figlie di letto per le quali alla famiglia non era rimasto un soldo da spendere sul mercato dei matrimoni. Di sposarsi, comunque, in genere non avevano né l’intenzione né il capriccio. Non invidiavano le loro sorelle maggiori, mogli e madri rette da una sottintesa regola aurea:

    "La dona? Che la piasa che la tasa, che la staga in casa".

    Spose, quindi, no. Puttane, neppure. Murate vive, neanche. Il bello delle Orsoline, perché così alla fine si fecero chiamare, era che potevano stare nel mondo senza dipendere dalle angherie di un marito o di una badessa.

    «Niente clausura, niente uomini», disse un giorno alla Lena e alle altre compagne l’Orsola Giardinetta, che era un po’ la capa del gruppo. «Solo amicizia e preghiera. Dio certi scherzi non te li tira; lavoro nei campi e nelle case: tiriamo su due ghelli d’elemosina e fra qualche anno ci compriamo un locale, ne ho in mente uno in Caslaccio, e facciamo le suore. Ma a modo nostro, senza seguire una regola rigida, senza voti solenni, con la possibilità di rientrare nelle nostre famiglie se poi questa vita non ci piace.»

    Si attaccavano a questo sogno le giovani e povere zitelle del Borgo, un sogno di libertà. Alla Lena l’idea piacque quasi per intero. Sul niente uomini aveva però da ridire. Era di sangue caldo, come il papà, e al contempo delicata.

    «Ne vorrei uno come il San Sebastiano infilzato dai soldati», si sfogò una volta con l’Orsola. «Alto, con gli occhi chiari, dolce, di pelle liscia.»

    L’Orsola la rimproverava fingendo di scandalizzarsi, sotto sotto si divertiva. E a dirla tutta, dovendo scegliere, lei preferiva il fascino randagio di San Rocco, con quel gonnellino alzato sopra la gamba a mostrare la ferita che sanguina.

    Alla fine, però, San Sebastiano in carne e ossa era ruzzolato addosso alla Lena, nelle fattezze del Tonio fiöö de nisün, detto Stralüsc, servo del Gorini, a pochi passi dalla porta di San Giovanni. Sprovvisto di frecce e di aureola, va bene, ma non si poteva avere tutto.

    Da domani me lo cuocio a fuoco lento, si diceva la ragazza rientrando a casa, ormai decisa a rinunciare ad una vita di trionfi spirituali. Colma di una gioia selvaggia che la rendeva luminescente nella notte, non si accorse che nel buio qualcuno la stava spiando.

    4

    Gli uomini che avevano estratto dalla pozza l’Andreina deposero il corpo sopra un punto preciso del pavimento in terra battuta dove era stata incisa una X. Da qualche parte, non troppo lontano da lì, le campane diedero dodici rintocchi. Mezzanotte esatta. Faceva freddo e avevano paura. Sapevano che da un momento all’altro Quello Là sarebbe sbucato dalle tenebre. Aveva l’abitudine di convocare quel particolare tipo di riunioni dentro una grotta. Appariva sempre all’improvviso emergendo, non si sa come, dal fondo della caverna di cui nessuno conosceva la profondità.

    Disacquarla, pensò per far passare il tempo Cesarino Fontana, ancora prigioniero del suo giochino mentale.

    Giorgio Malachisio stava sistemando il cadavere sulla croce tracciata a terra quando sentì l’inconfondibile fruscio proveniente dal buio.

    «Mala», ringhiò l’uomo che aspettavano, spuntando dalle viscere della montagna, «perché l’hai messa con la testa rivolta verso la montagna? A valle, a valle deve stare la testa!»

    Lo sgherro pensò che la cosa stava mettendosi male per lui e, senza dire parola, riorientò il cadavere.

    «Adesso via!», ordinò con un tono della voce che tradiva nervosismo.

    I due briganti, sollevati, si avviarono verso la campagna, come al solito senza parlare.

    «No, Cesarino. Tu resta», intimò guardando il capo del suo miniesercito personale, formato da solo quattro persone, tutte di pessima fama. «A cosa pensi?» gli chiese vedendolo un po’ assente.

    «Alle parole.»

    «Quali parole?»

    «Disacquarla.»

    «Non esiste la parola disacquarla.»

    «L’immaginavo.»

    «Adesso concentrati sulle cose serie», gli ingiunse. «Passami l’arthame.»

    Il Crapanegra si paralizzò di colpo. Sembrava una statua di gesso.

    Arthame. Arthame. Arthame.

    Il capo gli aveva spiegato mille volte il significato di quella parola, ma malgrado fosse di mente sveglia e non gli dispiacesse la grammatica, doveva sempre pensarci un attimo.

    Trovato.

    E tese un magnifico coltello cerimoniale all’uomo emerso dal buio.

    L’altro lo prese e disegnò con la punta un’ampia circonferenza attorno al cadavere dell’Andreina.

    «Aieth Gadol Leolam Adonai» sussurrò l’uomo. E facendolo tracciò la sigla AGLA alla destra della ragazza.

    Cesarino, tra sé e sé, recitò il requiem aeternam, o meglio: la misera parte che ricordava.

    «Kadosh Yahvé Sabaoth», continuò il celebrante. Poi scrisse KYS alla sinistra del cadavere. Infine, stringendo la falange bluastra del dito indice della mano destra della fanciulla, convocò l’anima dell’Andreina al suo cospetto, dentro quella cantina, illuminata da tre candele poste una vicino alla testa e le altre accanto ai fianchi della vittima.

    Era il momento che il Cesarino temeva di più: l’arrivo dello spettro. Non sapeva come figurarselo. Altre volte il suo padrone l’aveva costretto a presenziare alla stessa scena con i corpi senza vita di precedenti vittime, ma lui trovava sempre il modo di tirarsi in disparte e chiudeva gli occhi per non vedere. Tuttavia non dubitava che il fantasma obbedisse alle tetre formule del Mago. Gli pareva che l’aria si facesse d’un tratto gelida e immaginava, chissà perché, che la ragazza morta riaprisse di colpo le palpebre spalancando uno sguardo a pupille bianche sul mondo dei vivi. Quell’idea lo terrorizzava. Il Fontana abbassò la testa e a suo modo pregò.

    "Madona Signùr".

    Ma non poté tapparsi le orecchie.

    «Ti scongiuro» sentì dire, «in nome del grande Dio vivente che ha creato il Cielo e la Terra e tutte le creature che l’abitano, e in nome del suo unico Figlio e Redentore del genere umano, e dello Spirito Santo, consolatore benigno e per i meriti del Cielo altissimo, ti scongiuro di apparirmi subito e senza indugio...», e su queste parole il Cesarino quasi cessò di respirare. «... con forma gradevole, e senza fragore e senza danno della mia persona e di coloro che mi accompagnano, e di fare tutto quello che ti comanderò...» A questo punto anche il cerimoniere chiuse gli occhi e proseguì: «... Ti scongiuro per il Dio vivente El Ehome, Etrha, Ejelaser, Ejech, Adonay, Iah, Tetragrammon, Saday, Agios, Other, Agal, Ischiros, Athanos, Amen, Amen, Amen».

    Seguì un infinito minuto di silenzio.

    Un altro.

    Un altro ancora.

    Il Cesarino sapeva che nulla imbestialiva di più quell’uomo del silenzio degli spiriti. Sapeva che di lì a poco avrebbe accusato lui o il Malachisio di non aver piazzato esattamente sopra la croce il cadavere della donna, o di non avere disinfettato sufficientemente a lungo la lama dell’arthame la sera prima del rito. Sapeva che li avrebbe incolpati di ogni minima disattenzione capace di impedire alle forze oscure del mondo di portare in quel luogo l’anima della povera Andreina.

    Ma preferiva di gran lunga le sfuriate del suo padrone vivo alle apparizioni delle ragazze morte. E per quella volta l’anima dell’Andreina restò in Cielo.

    5

    All’indomani dell’inattesa irruzione nel cuore del Tonio, la Lena lo rivide con una canna da pesca in mano ai prati di San Martino. Era accompagnata da due dei suoi poco raccomandabili fratelli: Giulio, un rissoso ventenne che infilava il collo sotto la berlina, una settimana sì e l’altra spesso per offese varie all’ordine pubblico, e Giovannone universalmente noto come il Minchione, un promontorio umano di minima cervice, forte come un bufalo, ma del tutto ignaro di esserlo. E famoso, nel baliaggio, per gli agguati sconci ad ogni cosa somigliante a una femmina. La sua specialità era emergere all’improvviso dal nulla e sollevare la gonna alla ragazza, alla bambina o alla vecchia che aveva adocchiato.

    Alla vista del Tonio, la ragazza, solitamente imbronciata, sbocciò in un breve, intenso sorriso. Lui ciondolava con la canna in mano sopra il Moré, guardando nel vuoto. Sembrava svaporato. Ancora sopraffatto dalla figuraccia della sera prima, riusciva solo a rigirare una lenza tra le dita attendendo che una trota o un lavarello abboccassero all’amo. In tutta la mattinata aveva preso solo un pesce dall’aria vagamente commestibile. Ma nel secchio non c’era più. Si guardò intorno per vedere dove fosse finito.

    «Vieni qua a prenderlo», si sentì dire dal Giovannone.

    Questo cerca rogne, pensò.

    Il bestione s’era cacciato il pesce sotto la cintola. Da lì la povera bestia dava guizzanti segni di vita animando un indecente balletto dentro i calzoni del gigantesco idiota.

    Alle sue spalle intravide il fratello Giulio, che mimava il gesto del coltello che ti attraversa la gola.

    «Svelto. Vieni qua se hai coraggio! Ma svelto, però.»

    E su quel gioco di parole rideva a crepapelle.

    Non aveva ancora visto la Lena, che cogli occhi grandi e luminosi sotto una cascata bruna di capelli scomposti sembrava distanziarsi da quel gioco, esibendo un contegno indifferente. Sembrava una dea di passaggio.

    Per quanto intontito, il Tonio aveva fatto correre d’istinto la mano verso il pugnale, pronto al duello. Poi si accorse di lei e la mano si fermò a mezz’aria.

    Avrebbe dovuto vedersi: il volto stava sprofondando in una sorta di onnubilato ebetismo. Ne dedusse che il calcio della sera prima l’aveva trasformato in uno straccio. Gli sembrò di rivedere la scena rallentata del piedino di lei che gli si stampava in faccia.

    I due fratelli, vedendo che non reagiva, se ne andarono ridendo senza dimenticare la cortesia di salutarlo: «Ciao, lümaga».

    Aprì la bocca, ma non riuscì neppure a scagliare qualche sacramento contro i due ladri. L’apparizione della Lena l’aveva svuotato.

    «Effettivamente non capisco perché ti chiamino Stralüsc», gli aveva detto con perfidia la fanciulla, ammiccante. «Ma non te la prendere: se stai qua fermo per un po’, qualcuno prima o poi ti ripagherà per quel pesce.»

    E di nuovo sparì, fingendo di zoppicare.

    Fa di me quello che vuoi.

    La guardò svanire nella sera senza riuscire a dire bah. Era così... così...

    No, non era guarito.

    6

    «Dice che vuole parlare con lo spirito immondo. Dice che sai cosa devi fare.»

    Piero Bignasca, soprannominato il Roncola per via dell’arnese affilato che si dice portasse sempre e ovunque con sé, anche sul pagliericcio dove si addormentava la notte, era andato dal Cesarino a riferirgli il messaggio del padrone. Era visibilmente teso. Aveva ancora le mani sporche di sangue, il sangue del suo compagno d’armi Giulio Malachisio. Anche il Bignasca veniva dal Ducato di Milano, dove era ricercato per vari delitti e da qualche tempo era andato ad ingrandire l’esercito privato del Mago.

    «Mhhh», rispose enigmaticamente il Cesarino.

    L’altro rimase a fissarlo in attesa di ordini più precisi.

    «Quando l’essere immondo appare», spiegò Cesarino, «non puoi sbagliarti: l’abito è scarlatto coi galloni, la veste gialla, i pantaloni verdi.»

    Il Roncola provò a figurarsi quell’oscuro arcobaleno, continuando a chiedersi cosa avrebbe dovuto fare nel concreto. La domanda gli pendeva dagli occhi.

    «Dobbiamo portargli una gallina nera», rispose allora il Crapanegra.

    Al Bignasca veniva quasi da ridere, ma vedendo il contegno serissimo del suo capo evitò di darlo a vedere. Quando c’era di mezzo quell’uomo e i suoi riti non era il caso di scherzare.

    «Una gallina nera», si limitò a ribadire.

    L’incombenza si rivelò meno semplice del previsto.

    Secondo le istruzioni, al solito di una precisione maniacale, la gallina doveva essere giovane. Anzi, vergine. E bisognava catturarla alle undici di sera, non prima e non dopo, mentre era nel sonno.

    E se si svegliava?

    Prendendola per il collo bisognava fare in modo che non strillasse.

    Il Cesarino Fontana e i suoi compari erano abituati alle stranezze del loro padrone. Sapevano che praticava la negromanzia e obbedivano senza reclamare. Del resto pagava bene. Soprattutto c’era poco da contrariarlo. Dopo la mancata apparizione dell’anima dell’Andreina aveva schiaffeggiato ad uno ad uno tutti i suoi sgherri. Poi aveva fatto inginocchiare Giulio Malachisio e, puntandogli contro l’archibugio, gli aveva imposto di mettere la testa sopra un ceppo.

    «Roncola, sai quello che devi fare», aveva aggiunto.

    «Sì, padrone», aveva reagito il Bignasca, e con un colpo secco aveva tagliato di netto il lobo dell’orecchio destro del Mala.

    Il Mago aveva deciso di punirlo in quel modo perché, a suo modo di vedere, aveva preparato male il corpo dell’Andreina.

    «Così imparerai ad ascoltarmi come si deve e a mettere nell’esatta posizione le vittime», aveva commentato mentre l’altro, a terra, si torceva dal dolore. «Ma bada: alla prossima ti faccio ammazzare.»

    Perciò, anche per una missione semplice come un furto in un pollaio le sue guardie si prepararono come se stessero per affrontare la battaglia di Marignano.

    La bestiola era l’unica ricetta che avrebbe potuto lenire la sua furia? Ebbene, l’avrebbero presa eseguendo meticolosamente le varie operazioni che aveva loro indicato: rubarono la gallina dal pollaio dei Vassalli, un capanno isolato un po’ discosto dalle prime case di Riva San Vitale. Dopo varie ricognizioni durate giorni tra i pollai dei dintorni, erano certi che possedesse tutte le caratteristiche richieste.

    Gli portarono il volatile che potevano essere le undici e trenta di notte. Lui spuntò da un cespuglio in una zona convenuta del sentiero della Rossa, dove la strada si incrociava con un’altra mulattiera che scendeva verso i prati di San Martino.

    «La bacchetta di cipresso», chiese.

    «Eccola.»

    «L’hai intinta nell’orina d’asina?»

    «Sì, capo.»

    «Per quanto tempo?»

    «Il tempo del primissimo canto del gallo questa mattina presto, non un attimo di meno non un attimo di più.»

    «Bene, adesso allontanatevi.»

    Gli sgherri lo lasciarono volentieri lì col suo bastone magico, solo, dentro il suo mantello color castagno. Si spostarono di cinquanta-sessanta passi, giusto lo spazio per evitare che qualcun altro potesse capitare da quelle parti e disturbarlo. Lo videro tracciare un cerchio per terra col bastone e incidere strani disegni all’interno. Seguirono i suoi movimenti mentre sezionava la bestiola e la collocava, smembrata, in mezzo al cerchio. Lo sentirono pronunciare per tre volte le stesse parole senza senso apparente:

    «Eloim, Essaim, frugatiot ed appallavi.»

    Lo videro inginocchiarsi. E riprendere a parlare la lingua incomprensibile dei maghi. Alla fine capirono che stava discorrendo, ancora una volta, con lo spirito di Princivalle.

    «C’è niente da fare», osservò il Pertica, al secolo Emilio Bianconi, il più alto delle quattro guardie al servizio del Mago. «Quando è nervoso vuol discutere solo con lui. Chissà cosa si dicono?»

    Nessuno, fra i suoi

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