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Branco: Le tragiche vicende di un ospedale di provincia episodio n. 4
Branco: Le tragiche vicende di un ospedale di provincia episodio n. 4
Branco: Le tragiche vicende di un ospedale di provincia episodio n. 4
E-book240 pagine2 ore

Branco: Le tragiche vicende di un ospedale di provincia episodio n. 4

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Info su questo ebook

Angelina Carta è stata promossa a ispettore di Polizia e trasferita al reparto Tutela Beni Artistici e Culturali. Il primo incarico è di seguire le tracce lasciate da un vecchio boss mafioso condannato al domicilio coatto nella sua città. Secondo informazioni vaghe, il boss potrebbe avere notizie del furto della Natività di Caravaggio di Palermo, mai ritrovato. Angelina si immerge nelle ricerche e riesce a recuperare un filo di indagine forse utile. Nel frattempo incontra due ragazzine che le confidano di aver subìto uno stupro durante una festa della scuola. È un racconto confuso e ambiguo, ma Angelina non può disinteressarsi. Le ragazze sostengono di essere state vittime di più maschi, mentre erano sotto l'effetto di un sedativo, ma non portano prove e rifiutano di partecipare a un procedimento investigativo vero. Ma Angelina vuole comunque trovare i responsabili. Il Branco.

Per inserirsi nel gruppo dei ragazzi partecipanti alla festa, Angelina si affida a Marco, coetaneo delle ragazze, inserito nel gruppo e dotato di buone capacità di descrivere il branco, anche graficamente. Marco ama disegnare e vorrebbe seguire la carriera delle belle arti. È appassionato di fumetto Manga.

Le ricerche si estendono dal branco al furto della tela di Palermo e la conoscenza fra Angelina e Marco diventa complicata.

Alla fine Angelina dovrà fare i conti con la complessità delle emozioni umane e capirà che spesso le delusioni nascono da confuse illusioni.
LinguaItaliano
Data di uscita16 nov 2023
ISBN9791222704517
Branco: Le tragiche vicende di un ospedale di provincia episodio n. 4

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    Anteprima del libro

    Branco - Franz König

    Cap. 1 Palestra

    Nina era in palestra per l’ora di ginnastica serale, appena uscita dal commissariato. Erano le 5 di un pomeriggio afoso e bollente di un luglio padano, e lei, innervosita e stanca dell’ufficio era andata a sfogarsi sul tapis roulant nel capannone postmoderno del club sportivo a cui si era subito associata dopo la promozione. Sudava e malediceva a bassa voce gli avvenimenti che l’avevano condotta ad essere lì, su quei rulli, a quell’ora, con quel caldo torrido, a godere masochisticamente dei rivoli di sudore che le correvano sulla schiena sotto la maglietta e nel solco del sedere, ma anche sulla fronte e sul naso, appiccicando la frangetta nera alla pelle e la maglietta al petto e alla pancia. E per risposta a questo stramaledetto pomeriggio estivo aumentava il ritmo della corsa cercando poi di superare la velocità della pedana con una falcata ancora più rapida, come per vincere la battaglia assurda con la macchina che lei stessa aveva impostato. A ogni battuta del piede sulla pedana enumerava il fitto elenco delle contrarietà che aveva deciso di esorcizzare nei crampi e nel sudore. Prima di tutto le persone. Un aumento della velocità dei rulli in onore dei personaggi. Uno per Guido, fidanzato virtuale, amorevolmente scomparso con le sue ricerche nelle steppe siberiane, dopo essersi accreditato un debito affettivo per la collaborazione nella sua deflorazione, in un momento di totale confusione mentale, di quelli che comunemente sono denominati innamoramento, o meglio turbamento adolescenziale, anche se posticipato di 20 anni, e seguito da un ammasso, un coacervo, di conflitti, contrapposizioni caratteriali, incomprensioni, goffaggini, dubbi amletici sull’identità sessuale di tutti due, e infine sigillato dal viaggio nell’infinito bianco, confuso in fantasie maschili di convivenza in un campus universitario, oltre il limite del circolo polare artico, in un centro di ricerca biomedica, assieme a una decina di ragazzoni alti, biondi, poliglotti, barbuti, sorridenti e sempre pronti a una birra resa più alcolica da due bicchierini di vodka. Un brindisi a Guido e uno strappo di pendenza sulla pedana, per sentire meglio il dolore di quadricipiti e glutei. Un brindisi a Guido e al ricordo di quella settimana sulla neve alla fine di marzo, organizzata dal Doc per celebrare il trio degli eroi che avevano intrepidamente risolto il fattaccio della ragazzina bosniaca nel centro di suor Teresa. Quei giorni erano stati per lei lo stupore e la meraviglia per quel mondo alpino che non aveva mai visto, ma anche la costatazione che la coppia Angelina-Guido era instabile, senza equilibrio, impossibile. Le comparivano in mente le immagini come in un documentario. Le montagne rosa solcate dalle crepe bianche di neve e contrapposte a un cielo limpido e azzurro come uno zaffiro, e i boschi ormai scuri al crepuscolo spolverati di bianco. L’albergo superlusso trovato dal Doc, semideserto in fine di stagione ma sempre raffinatissimo. E il primo ingresso nella sala del bagno turco, lei in mezzo che abbracciava Guido e il Doc, timidamente nudi, vergognosi ed euforici.

    E la conoscenza di Gerti, meravigliosa e statuaria escort che frequentava la piscina dell’albergo solo negli orari deserti per potersi togliere il costume e nuotare nuda, nera e lucida come la cioccolata.

    Avevano fatto amicizia e si erano scambiati i numeri di telefono, aveva voglia di rivederla e raccontarle il finale del suo grande amore. L’esperienza di una professionista simpatica e laureanda in sessuologia le sarebbe stata utile.

    La vacanza in montagna era finita male, Guido chiuso nella sua iper-razionalità, Angelina delusa e sconcertata dall’impossibilità di definire le sue necessità in un rapporto d’amore, il Doc esiliato nel suo mondo di sensi di colpa e approfondimenti psicanalitici. Quando era arrivata la comunicazione della borsa di studio in zona siberiano-artica Guido era impazzito di gioia, Nina aveva tirato un sospiro di sollievo, il Doc ne aveva parlato con la sua psicanalista.

    Eppoi un brindisi al Doc Roversi, sempre più affogato nelle sue paranoie psichiatriche di persecuzione, nel suo lavoro, nel suo isolamento monastico in mezzo a libri e disegni di forme oniriche del femminile… che, poi… lei poteva anche capire che era difficile incontrare un fidanzato virtuale che vive a dodicimila chilometri di distanza, ma il Doc, che sta a un tiro di schioppo… lo schioppo, ricordava Nina nella sua collezione di dati professionali, era una arma da fuoco di un paio di secoli prima, che si caricava inserendo nella camera di scoppio dal davanti, prima la polvere nera, poi un zaffo di tessuto compresso, quindi frammenti metallici vari e infine un secondo zaffo schiacciato. A volte aveva la parte finale della canna dilatata come una tromba e per questo si chiamava appunto anche trombone. Era un’arma che faceva un botto pauroso e poteva smembrare un nemico che si trovasse di fronte, ma aveva una portata minima, dopo un centinaio di metri i frammenti di ferro cadevano a terra inerti. E il più delle volte l’arma era pericolosa per chi la usava più che per il soggetto mirato, e in questo veramente Nina pensava che somigliasse al Doc, importante da vicino, forse anche coinvolgente, ma totalmente innocuo appena allontanatisi, quando la sua voce bassa e suadente diventava un bisbiglio confuso. Ma sempre capace di creare casi complicati. E quindi un brindisi anche al Doc, che non si faceva vivo da troppo tempo, e un altro gradino di pendenza della pedana per lui, e qualche goccia di sudore, in quella maledetta sala da ginnastica rovente. E un brindisi anche al grande Capo, il Colonello Grandi, coltissimo e ineffabile responsabile del nucleo di tutela del patrimonio artistico, a cui era stata affidata, compresa di promozione a ispettore, dopo il recupero della predella del ciborio di Santa Cristina, indagine splendida e con un epilogo con i fuochi artificiali, ma della quale non aveva capito niente, ed ora si trovava a dover affrontare un mondo di diverse complessità, non più maschiacci violenti a cui tirare calci nelle palle, ma delicati trafficanti di quadretti, icone, manoscritti… tutta gente con gli occhiali spessi e la pelle pallida di chi non vede il sole se non per sbaglio, come vampiri, immersi in elucubrazioni del tipo qualità del tratto oppure tipologia dell’impasto cromatico o anche tramatura del tessuto di supporto… lei che si era fatta esperienza di guida esperta e arti marziali… ed ora doveva rifarsi una cultura su Caravaggio. Già… Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, nato a

    Milano, e non a Caravaggio come doveva essere per via del suo appellativo, ma originario di famiglia comunque da Caravaggio… eccheccappero… quante complicazioni per uno che doveva essere in ogni modo un malfattore, aduso a frequentazioni poco pulite, osterie, puttane, risse con spadaccini che di mestiere facevano i protettori di altre battone romane, e uno di questi l’aveva anche fatto fuori a coltellate sempre per colpa di una puttanona, un poco di buono sto Caravaggio, gran scopatore di fanciulle che poi ritraeva vestite da Madonna, ma anche di ragazzotti ricci e pasciuti, anch’essi ritratti nelle vesti di Bacco o di angioletti scomposti e osceni, con il pisello in bella mostra e la bocca atteggiata a sberleffo. Un brindisi anche a Caravaggio e un giro in su alla pendenza della piattaforma sui rulli, fino a sentire i quadricipiti urlare. E le goccioline di sudore infilarsi fra le mutande. Perché sto Caravaggio ai primi del 600 aveva fatto una tela d’altare grande come una parete intera di casa sua, durante la sua infinita fuga dopo la condanna per omicidio, e qualcuno lo cercava per tagliargli la testa e portarla al Papa per ricevere la ricompensa, e in quel periodo si trovava in Sicilia, un bel posto dove andare a sistemare una tela che oggi varrebbe forse fra i 20 e i 30 milioni di dollari, se si ritrovasse… Già, perché nel ‘69 due o tre mafiosi del cacchio l’avevano rubata, tagliandola dal suo supporto di legno, in una chiesa di Palermo dove non funzionava nessun allarme,

      non c’era nessun custode, e i topi se l’erano arrotolata e portata via senza che nessuno se ne accorgesse, solo il parroco, il giorno dopo, con grande strepito e urla e articoli sui giornali e servizi televisivi, ma il quadro era scomparso. Una natività con angeli e santi, nota a tutto il mondo, esistente in immagini fotografiche a colori su tutte le riviste, talmente famosa che nessun museo si azzarderebbe a comprarla ed esporla. E per questo gli esperti pensavano che la mafia palermitana, dopo aver accettato il regalo di due picciotti coglioni fino a quel punto, avesse decretato di eliminare tutto, tela, picciotti e testimoni. Secondo il parroco il mandante sarebbe stato lo stesso Badalamenti, per chiedere un riscatto. Successivamente un altro pentito, Mannoia, si era auto accusato di aver rubato la tela e di averla arrotolata assieme a un tappeto per farla uscire dalla chiesa, ma poi questa si sarebbe rovinata tanto da doverla distruggere. Invece Cancemi dichiarò che la tela era ancora perfettamente conservata in una villa palermitana ed era stata esposta in una riunione della cupola mafiosa come simbolo di onnipotenza, e sarebbe tutt’ora recuperabile. Un altro commerciante svizzero dichiarò di aver avuto sottomano frammenti di tela con tracce di colore appartenenti al lavoro di Caravaggio, ma di aver rifiutato la transazione per paura delle conseguenze. Dopo la morte di Falcone il cicaleccio di dichiarazioni non documentate si era spento, e ormai anche i segugi più ostinati si stavano rassegnando all’idea che da qualche parte, in mezzo ai sassi di Punta Raisi o lì vicino, ci fossero i resti di un quadro bruciato e magari anche qualche ossicino corroso dall’acido. Ma recentemente un picciotto della periferia palermitana aveva raccontato che suo nonno aveva prestato il furgoncino Ape Piaggio a due suoi amici, che dovevano spostare un grosso rotolo di stoffa, pesante e ingombrante, da una villa palermitana, e che quel rotolo, involtolato in una plastica trasparente da imballaggio, rotolo maledetto diceva il nonno, sarebbe stato imbarcato su una nave mercantile, diretta oltreoceano. Poi però il nonno non c’era più. Se ne era andato da un paio d’anni dopo aver fumato 40 sigarette al giorno. E lui non ricordava altro di quel trasporto.

    Ma il nonno aveva un fratello, lo sparato, che dopo anni di onorata vita mafiosa e un brutto incidente con una cosca vicina si era trovato impallinato con due colpi di fucile da caccia caricati a pallini piccoli, da lepre, nelle mani, ed era stato preso, condannato, operato più volte alle mani, e infine mandato al confino al nord. Cioè, a due passi da casa di Nina. E lei ne aveva sentito parlare, di questo personaggio con le mani che si muovevano a fatica, silenzioso, sempre con il mezzo toscano Garibaldi in bocca, seduto al bar della piazza del paese dove abitava prima. Ne aveva sentito parlare dal Doc, che fra l’altro gli aveva anche tolto qualche decina di pallini di piombo.

    Sempre il Doc fra i piedi. Già, perché il Colonnello Grandi le aveva ordinato una indagine silenziosa e sottotraccia su questo Turicchia, per valutare se mantenesse contatto con i siciliani, se parlasse con qualcuno di quel trasporto, insomma, piccole informazioni senza farsi notare, che Turicchia era famoso per la sua omertà, con la quale aveva salvato la vita sua e della famiglia rimasta nell’isola, e sicuramente non avrebbe parlato con Nina. E allora un altro brindisi a Turicchia e al Colonnello, e ancora uno scatto di velocità della pedana mobile, da far scricchiolare i metatarsi a ogni appoggio a terra, e i polpacci, induriti dallo sforzo, gridare per il dolore, e fra le gambe cominciare a bruciare per lo sfregamento, e gli occhi neri corrucciati per la rabbia e la fatica velarsi di sudore. Ma lei si era messa subito al lavoro, con il suo metodo, sistematico, razionale e accademico. Aveva messo sotto controllo l’utenza telefonica del Turicchia. In 10 giorni aveva ottenuto 4 telefonate alla associazione bocciofila, e i testi delle conversazioni erano semplici ordinazioni di pasti da consumare a casa, portati dal fattorino, dato che abitava a qualche centinaio di metri, e non poteva portare pacchi con le mani ancora piene di pallini da caccia. Due telefonate al suo medico di base per avere le ricette di un analgesico, che sarebbe poi passato lui a ritirare, e lui di analgesici faceva uso da tossicomane. E una telefonata a Palermo, alla nipotina che compiva 9 anni, che stava diventando cicciona e si cominciavano a veder crescere le zinne, e che sua madre doveva smettere di farla mangiare come una vacca, e che doveva portare fiori sulla tomba del fratello, al cimitero di Santa Maria dei Rotoli, che lui non poteva andarci, e che quella era tomba di famiglia grande e con la cappella, e qualcuno doveva pure starci dietro, dato che stava per cadere il secondo anniversario della morte di Santino, suo fratello. Nina aveva controllato la bocciofila, spacciandosi per una assistente sociale che doveva verificare che Turicchia non si abbuffasse di dolci, che con la sua glicemia non andavano bene. Ci teneva che il vecchio boss non si sentisse indagato. Ma il cuoco della bocciofila fu estremamente esplicito, Turicchia telefonava solo quando la cucina preparava pesce, e lui, che era socio, si faceva portare a casa frittura e brodetto, se c’era, o magari qualche pesce azzurro passato alla griglia, mai dolci. Telefonò alla mobile di Palermo e si fece mandare qualche immagine dei componenti della famiglia di Turicchia, che era sempre sotto controllo, e notò che effettivamente erano tutti belli ciccioni e la bimba stava per diventare signorina, e che il fratello era morto esattamente due anni prima, per cui qualcuno avrebbe dovuto portare fiori al cimitero e pulire la cappella di famiglia. Niente di speciale. Aveva anche fatto fare qualche appostamento al

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