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Latte e sangue
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E-book490 pagine6 ore

Latte e sangue

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Info su questo ebook

«“Latte e sangue” di Carlo Silini è ancora una volta un meccanismo perfetto e carico di tensione, una storia Seicentesca nera, sensuale e violenta, sempre ambientata tra il Ceresio e il lago di Como.»
Secolo brumoso e sanguinario, il Seicento, nelle terre tra il Ducato di Milano e i baliaggi svizzeri a sud delle Alpi. Maddalena de Buziis è l'ultima sopravvissuta di un'atroce vicenda di rapimenti, stupri ed uccisioni commessi da un oscuro personaggio dedito alle arti negromantiche fuggito da Vimercate verso le terre elvetiche: il Mago di Cantone. La vicenda è narrata nel precedente romanzo, "Il ladro di ragazze".
Maddalena vive in un villaggio discosto della Brianza e si occupa dei nonni acquisiti, molto malati. Li cura con "erbe e sguardi" perché conosce i segreti delle piante: è una "strega buona".
Inquieta, cerca amore e, soprattutto, la verità su se stessa. A volte si apparta nei boschi e danza da sola, al bramito dei cervi, perché "qualsiasi cosa succeda, l'importante è ballare".
Mentre ancora cerca di riprendersi dalla sconvolgente disavventura vissuta nelle terre svizzere, qualcuno si mette sulle sue tracce per scovarla a tutti i costi.
È un sicario della più feroce banda criminale del confine italo-svizzero. Ma il mandante è un enigmatico religioso che elabora trame inquietanti in uno spartano riparo sul Monte Generoso: l'uomo dei Trii Böcc. Invece di scappare per sottrarsi alla cattura, Maddalena parte al contrattacco e si mette sulle tracce dei suoi persecutori.

LinguaItaliano
Data di uscita22 feb 2019
ISBN9788897308928
Latte e sangue
Autore

Carlo Silini

Carlo SiliniNato a Mendrisio nel 1965, laureato in teologia a Friburgo nel 1989, sposato, un figlio.Editorialista e giornalista responsabile delle pagine di Primo Piano (approfondimenti) del Corriere del Ticino, il maggior quotidiano svizzero in lingua italiana.Sul piano locale ha curato reportages e inchieste sociali e culturali (il Ticino magico, l’Islam di casa nostra, i movimenti religiosi alternativi nel Cantone, i Duecento anni del Cantone, la pedofilia online in Svizzera, il razzismo elvetico, le condizioni di lavoro nei cantieri AlpTransit, il Sessantotto in Ticino e molte altre).Sul Corriere del Ticino commenta regolarmente avvenimenti religiosi e sociali.Nel 1999 ha firmato con Giovanni Vigo il saggio “Dal mille al futuro”, ed. San Giorgio.Nel 2005 ha vinto il premio di “giornalista svizzero dell’anno” per la Svizzera italiana, attribuito dalla rivista Schweizer Journalist.Nel 2015 e nel 2017 ha vinto lo “Swiss Press Award”, il più importante premio svizzero di giornalismo.

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    Anteprima del libro

    Latte e sangue - Carlo Silini

    Antefatto

    Seconda metà del Seicento

    Terre fra il Ducato di Milano e i baliaggi svizzeri

    Attuale Canton Ticino

    Maddalena de Buziis è l’ultima sopravvissuta a una storia cancellata dalla storia, quella del Mago di Cantone, al secolo Francesco Secco Borella, suo nonno¹. Il Mago era un nobile esiliato dal Ducato di Milano per una serie impressionante di delitti. Anche nel rifugio della nuova patria, tuttavia, non era cambiato: ai propri sgherri faceva catturare giovani ragazze in fiore, ne abusava e poi, dopo averle uccise, le buttava in una pozza dentro una grotta occultata dai boschi tra Rancate e Riva San Vitale, nel baliaggio svizzero di Mendrisio.

    Capendo che la giustizia del baliaggio è alla ricerca del responsabile di quei misfatti, Secco Borella induce i nemici a uccidere il proprio figlio – Antonio, ex frate cistercense – su cui riesce a far convergere i sospetti per le sparizioni delle ragazze. Prima di essere assassinato, però, l’ex frate mette incinta una nobile di Mendrisio, Barbara de Buziis, che darà alla luce Maddalena. Nel frattempo, dopo inenarrabili peripezie, un gruppetto di spiriti ardimentosi guidato da Lena – l’unica fanciulla finita nelle mani del Mago che sia riuscita a sfuggirgli – e dal suo uomo Tonio, cattura Francesco Secco Borella, lo processa di nascosto dalle autorità e lo condanna a morte.

    Sedici anni dopo Maddalena scappa dalla Brianza dove nel frattempo sua madre Barbara si era rifugiata con Tonio, con la Lena e col suo nuovo amore, il pittore girovago Cesare Cassina. Parte perché vuole scoprire la verità sulle proprie origini e sul proprio nonno paterno, di cui non sa quasi nulla. Si spinge fino alla grotta dove il Mago teneva prigioniere le vittime e qui vive un’esperienza sospesa tra l’allucinazione e la realtà: è come se incontrasse il nonno, in teoria morto da un pezzo, e si dovesse difendere dalle sue brame e dalla sua sete di vendetta. Alla fine, con la forza di un’invincibile innocenza, riesce a convincerlo a desistere dai propri propositi. Poi sviene. Quando si riprende, Francesco Secco Borella è sparito. In lei resta il dubbio di essersi sognata tutto. E la certezza che quella storia non sia ancora finita.

    Indice

    Indice

    Prima parte

    Corpi senza testa

    1

    Trii Böcc, sopra Mendrisio, autunno 1659

    Inginocchiato davanti alla finestrella, l’uomo sollevò il pugno sopra il petto, preparandosi a batterlo tre volte, come imponeva la preghiera che si apprestava a recitare. Confiteor Deo omnipotenti, beatae Mariae semper Virgini, beato Michaeli arcangelo, beato Joanni Baptistae, sanctis apostolis Petro et Paolo, beato Ambrosio confessori, omnibus sanctis, et vobis, fratres, quia peccavi nimis, cogitatione verbo et opere; mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa.

    Mentre lo sterno rimbombava sotto i tre colpi, immaginò di essere una cassa di legno appoggiata nel fango, terra liquida, acqua sporca. Come la cassetta che giaceva ai suoi piedi. Le assi inferiori erano più scure delle altre. Toccandole sentì che erano umide. Sollevò la scatola all’altezza degli occhi: sul fondo si addensavano gocce scure che precipitavano lente sulle sue scarpe.

    Scosse la testa. No, le cose non erano andate secondo i piani: le persone che aveva messo in campo per quell’impresa, i Fontana di Brusata, avevano accettato di buon grado l’incarico, non solo perché sarebbero stati pagati senza tirchieria, ma perché per loro quell’impresa rappresentava una sorta di riscatto. Si erano dati da fare subito, e considerando che si trattava di una sfida al limite del possibile, il fatto che fossero riusciti a portarla a termine nel giro di tre settimane deponeva a favore della loro tenacia e dell’ottima rete di informatori occulti su cui potevano contare dentro il baliaggio e fuori.

    Ma avevano disatteso la sua raccomandazione principale.

    «Cos’è questa cosa?» aveva detto al brigante che poco prima gli aveva recapitato di persona la cassa. In realtà aveva capito benissimo di cosa si trattava.

    «Apri e guarda!»

    «Dopo, l’aprirò dopo. In ogni caso non erano questi i patti.»

    «Non è stato possibile rispettarli», si era giustificato quello, un individuo torvo dal volto sudato e porcino, che quella notte si era inerpicato fin lassù per venire a portargli quell’oggetto tra le mura in tufo del suo rifugio montano. «Ho dovuto improvvisare» gli disse fingendo imbarazzo. «Si rifiutava di seguirmi e ha cominciato a strillare. Comunque ora...»

    «Non doveva andare così» lo interruppe l’uomo.

    Il brigante annuì esibendo un sorriso incerto e allargò le braccia come a scusarsi: «Purtroppo...»

    Ciò nonostante pretese il premio in denaro pattuito coi suoi capi: quaranta scudi di Milano.

    «Ne avrete solo venti.»

    Il bandito tentò il teatro dell’indignazione.

    «Corpodebis!» strillò. «Abbiamo fatto il massimo. L’abbiamo rintracciata anche se nessuno sapeva dove trovarla. Cosa cambia se ora... prima o poi avremmo comunque dovuto... no?»

    «Forse, ma avrei dovuto deciderlo io.»

    «Senza contare» replicò l’altro come se non avesse sentito le obiezioni che gli erano state rivolte «che portarla quassù tutta intera sarebbe stata roba per muli, non per esseri umani.»

    Tutta intera, pensò l’uomo. Lo guardò con l’espressione di uno che si chiedeva se la definizione di essere umano nel suo caso calzasse.

    «Ne avrete solo venti.»

    Il suo interlocutore aveva già messo in conto una diminuzione del compenso. Visto che non era un tagliagole di primo pelo, si era preventivamente tutelato nel caso di introito ridotto: prima di risolvere la missione alla sua maniera, aveva strappato una collanina dal collo della donna che poi aveva fatto spogliare, mettendone da parte i vestiti. Non erano da nobildonna, niente sete e damaschi, ma erano ben tenuti, quasi nuovi. Li avrebbe rivenduti al mercato. Anzi, se ne fosse davvero valsa la pena, li avrebbe regalati a qualche ragazza disposta a concederglisi, giù all’osteria dell’Angelo. Dalla collanina, chissà, forse poteva anche cavarci qualche moneta. Ripensò alla vittima, nuda, davanti alla lama scintillante del suo stiletto e gli si disegnò in volto un ghigno suino.

    «Accetto i venti scudi solo perché sono certo che avrete ancora bisogno di fare affari con noi» tranciò.

    «Prendi e vattene.»

    «Ma è notte, il sentiero è stretto e ripidissimo. Rischio di precipitare tra le rocce.»

    «Puoi benissimo dormire nei boschi e aspettare che arrivi l’alba.»

    Il brigante uscì infuriato. Si fosse trattato di un’altra persona gli avrebbe infilato un coltello tra le costole e morta lì. Ma sapeva che era meglio non toccare quell’uomo. Per nessuna ragione.

    «Crepa!» grugnì, scivolando fuori dalla rocca. In realtà era quasi sollevato. Quella bizzarra costruzione gli dava i brividi. Sì, meglio trovare un riparo all’esterno, fosse anche tra le rocce e gli sterpi, e poi sparire a mattino fatto. Era grosso e forte ed era abituato alle notti all’addiaccio.

    Rimasto solo fra le mura del rifugio, l’uomo non riuscì a contenere l’eccitazione. Gli tremavano le mani. Una lucertola attraversò il muro alle sue spalle e lui sobbalzò.

    Calma, calma. La faccenda non è andata come avrei voluto, ma la cosa più importante è che ora lei... Pregare, devo pregare! Implorare perdono per le mie sozzure. E poi, finalmente, godere.

    «Lo so» disse allora guardando giù nel vuoto, dalla finestra diroccata dei Tri Böcc affacciata a precipizio sopra il contado. «Ho molto peccato in pensieri, in parole e in opere. E però, sì, confiteor in Dio onnipotente e prego Maria Santissima sempre vergine, san Michele arcangelo, san Giovanni Battista, i santi apostoli Pietro e Paolo, il santo confessore Ambrogio, tutti i santi e voi fratelli – anzi, te, sorella, che giaci senza corpo in questa scatola – di intercedere per la mia anima presso il Signore Iddio nostro.»

    Interruppe la preghiera. Aprì la cassa con lentezza. Si impedì di esultare prima di aver scrutato ogni dettaglio di quel capo di donna, separato a fil di coltello da un corpo che doveva esser stato molto bello. Dalle ciocche scomposte colava un siero denso e scuro. Le palpebre, chiuse, erano rosse.

    Aveva pregato da penitente. Aveva ammesso colpe gravissime. Si era percosso il petto scandendo il mea culpa. Ma ora sorrideva.

    Fermo restando che osservare una testa mozzata non è mai come vederla piantata sul busto, , pensò, ...

    Stessa fisionomia, stessa età.

    «Sì» disse a voce bassa.

    Stessi capelli. Stessa bocca.

    «Siiiiii» urlò.

    Stesse orecchie e stessa forma degli occhi.

    Trattenne il fiato.

    Gli occhi. L’ultima verifica.

    Allungò i polpastrelli e tentò di sollevare le palpebre della donna. Provò ribrezzo, anche perché non sentivano ragioni, rimanevano saldamente appiccicate su se stesse. Dovette usare tutte e due le mani per separarle, una a reggere il capo mozzato della donna, l’altra a divaricare con forza il pollice dall’indice facendo pressione sull’occhio incrostato negli umori della morte. Sentì il crac del distacco di una palpebra dall’altra e si zittì. Era il momento della verità. Si chinò sulla testa femminile e ne fissò intensamente le pupille.

    2

    In un villaggio della Brianza, quattro mesi prima

    Camminare nei boschi era come respirare, un fatto automatico e necessario. I sentieri verde cupo della vegetazione prealpina non la spaventavano. Non temeva i lupi, non temeva i briganti: del resto quelli che gli erano capitati davanti non erano cattivi come pretendevano fiabe e decreti di legge. Lontano dalle voci del mondo tornava ad essere un animale fra gli animali, una creatura viva tra molte altre creature vive che non erano dotate di parola. Eppure, in un modo che non sapeva spiegarsi, le parlavano continuamente di sé, degli uomini e del Cielo. Ma quale silenzio? Il bosco per lei era quasi assordante. Il picchio, il topo, la volpe, il riccio del castagno che cadeva a terra, il fruscio del vento tra gli arbusti, il sommesso masticare dei tarli dentro i ceppi: le pareva di sentire tutto, perfino il suono impossibile degli asparagi e dei funghi nati nella notte che bucano il fogliame con le loro testine bianche e tenere.

    Non era nel bosco. Lei era bosco. Lo aveva capito molti anni prima, quando sedicenne era fuggita dal carrozzone di Cesare e di Barbara, la sua cocciuta, meravigliosa mamma terrena, per dedicarsi ad una dissennata ricerca di sé e delle proprie origini. Aveva stanato il male dal fondo di una grotta e l’aveva sconfitto a mani nude, annientandolo con la forza azzurra dei suoi occhi. Aveva attraversato migliaia di boschi con suo zio brigante, una volpe che solo la trappola della sbilenca giustizia dei baliaggi aveva potuto fermare, la testa sul ceppo, l’ascia a fendere l’aria prima di separare l’anima dal corpo e di consegnarla a Dio.

    Adesso Maddalena non voleva pensare a zio Giulio, a nonna Mariuccia e alla carovana di santi, mostri e martiri che l’aveva accompagnata alla scoperta di una verità balorda e imbarazzante. Voleva il silenzio, il vuoto, il tempo fuori dal tempo. Cercava di fare spazio dentro di sé, di ripulirsi da ogni ricordo, e di lasciare che il mondo potesse irrompere nella sua vita strappandola, finalmente, ai fantasmi del passato.

    Per questo si era incamminata da sola nel bosco, lasciando a casa i nonni di cui si occupava amorevolmente da quando tutta la sua famiglia era sparita. Li curava con le erbe e gli sguardi. Li toccava con piccole prese improvvise, per far loro sentire che erano vivi, che anche la scorza vecchia e rugosa della pelle poteva essere trafitta dalla sua dolcezza. Era una strega buona, capace di creare magie dal nulla, da tutto quello che gli altri consideravano niente. Sapeva farsi invadere dalla forza delle minime cose, dalla loro bellezza discreta. O, se era il caso, dal loro dolore nascosto.

    Quella sera d’ottobre, sotto le fronde dei castagni di una piccola foresta brianzola, Maddalena non aveva avuto bisogno di aguzzare la vista o di sforzare l’udito per cogliere il messaggio che il bosco, le sue creature e quindi, probabilmente, Dio, avevano in serbo per lei.

    Ferma nell’oscurità brulicante di presenze invisibili, si trovò di colpo immersa dentro un rumore arcaico e tremendo. Era partito quasi in sordina, una piccola vibrazione dell’aria che cresceva e cresceva fino a diventare tuono, urlo e lamento: il bramito di un cervo in calore. Chissà dov’era, la bestia, non la vedeva. Da qualche parte, non troppo distante, gemeva con forza facendo tremare il mondo.

    Quei toni baritonali la penetrarono fino alle ossa sbattendola come un filo d’erba in balia del vento. Erano così profondi e dolenti che non poté fare a meno di chiudere gli occhi e cominciare a danzare nel buio, scuotendo ogni parte del corpo come un’ossessa – la testa, le mani e i piedi – in un crepitio selvaggio di sterpi e foglie secche. Sotto una luna furba e avara di luce, il cervo bramiva e lei ballava: erano una cosa sola, bella e terribile, come un fulmine che bacia la terra.

    Il bosco se l’era presa e la lasciò andare solo qualche tempo dopo, mezz’ora, forse di più, quando la bestia tacque e le sue gambe di donna, libere dall’incantesimo, trovarono pace e si fermarono. Solo il cuore continuava a martellarle nel petto pompando fuoco nel corpo ebbro.

    Rientrando verso casa madida di sudore, Maddalena seguì alcuni pensieri che si facevano largo nella mente.

    L’amore è un animale che piange.

    L’amore è un corpo che urla.

    Gioia e dolore si fondono in un tutto indistinto, l’importante è ballare.

    Rise. Pianse. Piano piano tornò calma. Pensò che se qualcuno l’avesse vista, minimo minimo sarebbe finita davanti al naso appuntito di un inquisitore che le avrebbe chiesto se le era piaciuto danzare col diavolo. E lei gli avrebbe detto: «Ecco, lo vedi? So volare».

    Pianse. Rise. Non poté fare a meno di chiedersi per chi avrebbe voluto versare lacrime, lei. Per il bramito di chi, un giorno, avrebbe perso il controllo del corpo. Non seppe rispondersi.

    Ma il bosco le aveva parlato chiaro.

    Qualunque cosa accada, l’importante è ballare.

    3

    Brusata, frazione di Novazzano

    «Ciao, Carletto.»

    Carletto. L’ha detto di nuovo.

    «Scusa. È più forte di me, ti chiamo Carletto per distinguerti da nostro cugino Carlo, mica perché... Cioè, dai, non fare quella faccia! Siamo cresciuti insieme io, te e Cesarino, no?»

    Prima o poi l’ammazzo. Sul serio.

    «Va bene, Marsilio, ma è l’ultima volta. L’ultima davvero. Chiamami Carlo, anzi non chiamarmi in nessun modo, io in fondo non esisto nemmeno, vero?»

    «Smettila, Carlo. Lo sappiamo tutti che tu sei l’unico vero erede del nonno. A te gli affari nascosti, a me e Carlo, sì, insomma, l’altro Carlo che vive a Roma, quelli alla luce del sole.»

    Carlo, Carlo e Marsilio, i tre cugini Fontana. Erano loro gli eredi dell’impero. Fosse stato ancora vivo, ci sarebbe stato anche Cesarino, detto il Crapanegra, figlio illegittimo del loro zio Cesare, l’ultimo peccato d’alcova del grande capo, il bastardo che più di tutti amava ma che non poteva riconoscere. Per questo, dopo averlo cresciuto fra i suoi briganti, figli e nipoti, l’aveva messo al servizio di un potente amico di Vimercate, Francesco Secco Borella, di cui da anni si erano perse le tracce. Cesarino, invece, aveva finito i suoi giorni dentro un sacco depositato davanti alla porta del landfogto di Mendrisio. Qualcuno, non si seppe mai chi, gli aveva legato mani e piedi e gli aveva tagliato i testicoli lasciando che perdesse in una sola volta virilità e vita. Carlo, suo malgrado detto Carletto, anche a distanza di anni avrebbe pagato oro per avere tra le mani l’assassino. Nessuno avrebbe dovuto fare del male a Cesarino, che oltre ad essere suo cugino illegittimo era il suo migliore amico. Soprattutto, nessuno avrebbe dovuto fare uno sgarbo del genere alla sua famiglia: i Fontana.

    Così, quando poche ore prima si era presentato in casa il frate girovago Antonio che a nome del suo anziano e temuto padrone gli aveva proposto un modo per vendicare la morte del cugino illegittimo Cesarino, aveva fatto chiamare Marsilio e gli aveva raccontato i fatti.

    «Insomma, cugino» gli aveva detto «frate Antonio mi ha spiegato che se Cesarino è morto come sappiamo la colpa è di una donna, tale Maddalena de Buziis. Per colpa sua è stato catturato, castrato e lasciato morire dissanguato. Questa Maddalena, ha aggiunto il frate, si è nascosta da qualche parte appena oltre la frontiera. Difficile trovarla perché sicuramente si farà chiamare con un altro nome. Però» aveva detto Carlo illuminandosi «cugino mio, non dovrebbe essere impossibile: un pittore comasco girovago sparito chissà dove, l’ha usata per anni come modella per le sue Madonne. Capisci? Ci sono in giro decine di cappelle tra Mendrisio e Milano con Vergini che hanno la sua faccia. Non sappiamo il nome dell’artista perché per ragioni che ignoriamo si faceva chiamare semplicemente ul pitur e non dava le sue vere generalità. Però col pennello ci sapeva fare. E frate Antonio mi ha anche indicato quali affreschi andare a vedere. Per farla breve, il suo padrone è pronto a coprirci d’oro se gliela troviamo.»

    Marsilio non sembrava entusiasta dell’idea.

    «Il suo padrone non mi piace.»

    «Non ti piace? E chi se ne frega. Paga bene, no?»

    «Ricco è ricco. Ma come possiamo fidarci delle sue confidenze?» lo interruppe l’altro. «Chi ci garantisce che questa Maddalena sia davvero responsabile della morte di Cesarino?»

    «Perché la fai così difficile, Marsilio? Comunque vada ci riempiranno di soldi. Inoltre frate Antonio passa sempre preziose informazioni alla nostra famiglia e non oserebbe mai tirarci un bidone. Insomma, possiamo fidarci, vero frate Antonio?»

    Dal buio uscì un religioso che chinò il capo in direzione dei due cugini.

    «Vero, signor Carlo. E poi il mio padrone si è raccomandato che vi portassi questo, a testimonianza delle sue buone intenzioni.» Il frate buttò sul pavimento un sacchetto gonfio di monete. «È solo un anticipo, s’intende. Il resto arriverà dopo, a cose fatte.»

    «Fai tu, Carlo» tagliò corto l’altro. «Per me è uguale, basta che non salti fuori qualche nuovo scandalo legato alla nostra famiglia. Cercare una ragazza nel Ducato e portarla qui? Si può anche fare, ma non per meno di quaranta scudi di Milano.»

    Il frate annuì. «Non ci sono problemi. Quando l’avrete catturata vi farò sapere dove dovrete portarla.»

    Marsilio squadrò il cugino e sorrise.

    «Tutto a posto, quindi. Posso andare ora?»

    «Vai pure» rispose Carlo.

    «Ci vediamo, Carletto.»

    Prima o poi l’ammazzo. Giuro.

    4

    Cabbio, Valle di Muggio

    «In illo tempore, cioè in quel tempo, dixit Jesus turbis Iudaeorum, Gesù disse alle folle dei Giudei, Ego vado, io vado camminando per la retta via. Capito? Per la retta via. Ed è inutile che stia qui a tradurvi parola per parola il brano del Vangelo di San Giovanni, tanto lo sapete bene che voi, invece, camminate sulle strade storte del malaffare, sulle curve della tentazione, lungo i pantani del vizio. E infatti: in peccato vestro moriemini, morirete nel vostro peccato.»

    Don Tommaso alzò la testa dal libro e scrutò a una ad una le otto fedeli – tutte donne – che quella mattina erano venute a messa nella chiesetta di Cabbio. La più giovane poteva essere sua madre e quindi ci pensò su prima di proseguire. Fino a che punto le sue invettive contro la concupiscenza potevano colpire quelle anziane rattrappite? Fino a che punto le cose di letto le riguardavano ancora? Scorgendo un bagliore di sgomento nelle pupille dell’Antonia, in prima fila, una matassa di capelli bianchi sulla testa un po’ smunta da vedova incallita, vecchia come il cucco, sola da una vita, il prete cacciò l’idea che certe cose non si scordano mai, che non c’era bisogno di un uomo o di una donna in carne ed ossa per peccare, che bastava il pensiero, il ricordo, a renderti dannato. E si arrese al buon senso che gli suggeriva, da sempre, di non attardarsi sui precipizi della sensualità con quel piccolo gregge di devote attempate. No, una come l’Antonia, prima di dormire, al massimo cercava il gatto da coccolare recitando il rosario, altro che peccati da alcova. Che senso aveva infliggere una ramanzina contro la fornicazione a quelle cariatidi di montagna, neanche fossero procaci ragazze da bordello? Eppure era proprio quello che la sua Chiesa gli stava chiedendo con insistenza da anni: i preti come lui dovevano esercitare un controllo serrato sui costumi intimi delle persone, soprattutto su quelli delle donne. E il pulpito era la sede istituzionale di quel discorso morale. Attardandosi per qualche secondo negli occhi da vecchia bambina dell’Antonia, don Tommaso decise di far virare la predica sul registro della misericordia.

    «Vos de mundo hoc estis, voi, care fedeli, anzi... noi siamo di questo mondo, Ego non sum de hoc mundo, ma nostro Signore no, Lui viene dal Cielo. Va bene, Lui sta su e noi stiamo giù. Però, mi chiedo...» e a questo punto parlava più per se stesso che per le astanti «le porte del Paradiso sono murate per noi? La Maddalena che peccò per fragilità, non vi è forse comunque entrata? Re Davide, che peccò per malizia, ne è forse rimasto fuori? E san Pietro che negò di conoscere il Cristo, non ci è entrato pure lui?»

    Le vecchie, nei banchi, trattenevano il fiato e non sapevano se annuire o far finta di niente. Cosa c’entravano loro con la turbis deorum, o come cavolo si chiamava, l’ochestis, la Maddalena e re Davide? Prima o poi moriemini tutti sì, ma di noia. Che si spicciasse, il prete, loro avevano da fare in casa.

    Quando Dio volle la predica finì, e poco dopo anche la messa. Il curato si era ritirato in sacristia per togliersi i paramenti e quando era rientrato in chiesa mancò poco che scoppiasse a ridere, vedendo che fra i banchi era rimasta proprio l’Antonia, la vedova che in un qualche modo doveva essere rimasta scombussolata dal suo predicozzo per meretrici. Le sorrise conciliante.

    «E allora, Antonia, perché non sei andata a casa come le altre? Che succede?»

    «I pantani del vizio, ecco cosa succede.»

    «Cioè?»

    «I pantani del vizio e le curve della tentazione.»

    «Le ho già dette io queste cose. Ti vuoi spiegare meglio per favore?»

    «Mi vergogno.»

    Don Tommaso non aveva nessuna voglia di sciropparsi i pensieri impuri di quella povera vedova nel corso di un’inutilissima confessione sacramentale. L’idea gli dava quasi ribrezzo, anche se di sicuro, mille anni fa, qualcuno l’aveva trovata desiderabile e l’aveva fatta sua. Al buio forse, ma come Dio comanda, visto che aveva scodellato nove figli. Certo, a vederla adesso con quei rossori e quelle vecchie prurigini faceva quasi tenerezza... No, non avrebbe mai dovuto infliggere un simile sermone alle sue vecchiette.

    «Senti Antonia, guarda che io parlavo così, in generale. Non mi riferivo a nessuna di voi, lo so che siete in regola con Quello che sta lassù. Non c’è alcun bisogno che ti confessi per qualche vecchia e innocua fantasia, credimi.»

    «Io sì.»

    «Io sì cosa?» don Tommaso si stava innervosendo.

    «Io sono in regola eccetera eccetera, come dice lei.»

    «Appunto.»

    «Appunto cosa? Io sì, ma qualcun altro, anzi qualcun’altra no. Capito?»

    Finalmente era uscita allo scoperto. La santa donnetta non era in vergogna per se stessa, ma era pronta a mettere in vergogna qualcun’altra.

    «Ah» commentò asciutto don Tommaso. Sapeva che a quel punto il suo ufficio gli avrebbe imposto di andare a fondo della questione. Avrebbe dovuto fregarsi le mani constatando che la rete spontanea del controllo sulle anime del suo gregge funzionava tanto bene da non aver bisogno di girare con sguardo inquisitorio su tizio o caia per conoscere o anche solo intuirne le malefatte. Gli sarebbe bastato chiedere alla vecchia nomi cognomi e dettagli e poi avrebbe consegnato in mano alla giustizia gli adulteri, probabilmente solo uno: la donna. La virtù avrebbe trionfato, la peccatrice sarebbe stata punita. Un cerchio perfetto, e lui al centro, uomo di Dio e degli uomini, ne sarebbe uscito con l’aura del prete giusto e severo. Ma a don Tommaso tutto quello zelo nel denunciare i peccati degli altri dava sui nervi.

    C’era già passato una volta da queste delazioni selvagge che si abbattevano quasi sempre su una ragazza troppo bella e spudorata per uscire indenne dal proprio potere sugli uomini altrui. Chiuse gli occhi e nella sua mente si formò il ricordo di un’adolescente inginocchiata a terra che muoveva le braccia come fossero ali. Li riaprì subito, per cacciare l’immagine interiore, ma dovette prendere il fiato per riuscire a liberarsene del tutto. Solo allora parlò.

    «Bada Antonia, sei ancora in tempo per uscire da questa chiesa con l’anima in pace senza dirmi niente di cui potresti poi pentirti.»

    «Perché dovrei essere io a pentirmi dei peccati di quella puttana della...»

    «Taci!» urlò il sacerdote facendo sobbalzare la vecchia. «Pensaci bene prima di accusare qualcuno, anzi qualcuna di commettere peccati mortali. Se non è vero all’inferno ci finisci te.»

    Antonia si alzò dal banco stizzita.

    «Cos’è, ve l’ha data anche a Voi, con rispetto parlando, quella troia della Giacinta?»

    Missione compiuta, pensò la donna fra sé.

    Mi ha fregato, pensò il prete.

    Antonia uscì piamente dalla chiesa.

    5

    Brusata, frazione di Novazzano

    Alfredo Castiglioni, detto la Bestia, si grattò il naso, anzi il grugno visto che era difficile distinguerlo da un maiale. La sfida che gli aveva lanciato il suo capo, Carlo Fontana – quello di Brusata, non quello di Roma –, gli pareva nebbiosa e cervellotica. Non ci era abituato. Di solito l’ordine era elementare: spaventa Tizio, uccidi Caio, dai una bella lezione a Sempronio. Ordine sempre corredato di nomi e cognomi chiari, luoghi precisi in cui intervenire, tempi esatti nei quali il malcapitato si sarebbe trovato in sua balia. Questa volta, invece...

    «Senti, capo, mica posso andare in giro con un pezzo di muro in tasca con su dipinta la faccia della Madonna per rintracciare questa... come hai detto che si chiama?»

    «Maddalena. Maddalena de Buziis.»

    «Maddalena de Buziis. Che poi se chiedo in giro nessuno mi saprà dire niente, visto che usa un altro nome, giusto?»

    «Magari no, ma è molto probabile. È quello che pensiamo.»

    «Quindi, riassumendo, tu mi mandi a cercare una donna sui ventisette ventotto anni che vive da qualche parte nel Ducato di Milano, che un certo pittore di cui non sai il nome usava come modella per fare la Madonna, di cui non sappiamo se è sposata, se ha figli, se è viva o se è morta. E dovrei trovarla mandando a memoria la faccia di due o tre Madonne affrescate qua e là?»

    «Non qua e là. Ti posso indicare almeno tre dipinti di quel pittore. Tu vai a vederli, ti stampi nel cervello quella faccia e poi la stani. Ovunque sia.»

    Corpodebis, pensò la Bestia.

    «La fai facile, tu! Quando guardo un dipinto è già bello se distinguo san Giuseppe dal suo bastone.»

    «Esagerato! E poi ti pagherò molto bene. Per questo lavoretto ci daranno quaranta scudi di Milano. Dieci sono per te.»

    Dieci scudi, una bella cifra.

    «Mettiamo che accetto e mettiamo che la trovo. A quel punto l’ammazzo che è tutto più semplice, no? Non posso immaginare di portarmi un cadavere in giro per il Ducato e per il baliaggio. Ti porto la sua testa, va bene?»

    Carlo stava per dirgli di no, ma si fermò. Il committente la voleva viva. Ma lui voleva essere certo che Maddalena de Buziis pagasse per aver fatto morire Cesarino. Il mandante se la sarebbe presa? Amen! Non aveva certo bisogno dei suoi soldi. A lui interessava solo vendicare suo cugino e ora il Cielo gli offriva l’occasione di farlo. Alzò le spalle. «Trovala» rispose, «e falla a pezzi.»

    Rimasto solo con se stesso, Carlo Fontana pensò che da tre anni Brusata non era più la stessa. Per questo Maddalena de Buziis doveva morire. Per far capire al mondo che la banda era più viva e feroce che mai, che nessuno poteva passarla liscia se attaccava un uomo del clan.

    Il potere si impone col terrore.

    Il potere dei Fontana si era di colpo indebolito tre anni prima, alla morte dell’Imperatore. Così la gente del posto chiamava il capo dei traffici di qua e di là del confine tra il baliaggio di Mendrisio, roba elvetica, e la pieve di Uggiate, roba comasca. Pochi metri di terra spartiti tra due comunità di servi: i mendrisiensi sotto i Dodici cantoni, i milanesi sotto la Spagna. Alla frontiera di quei due mondi di sudditi regnava un sovrano incontrastato: Cesare Fontana. Cesare l’Imperatore, appunto, signore di un regno di poveracci.

    Da quando, più di cent’anni prima, era stato tracciato il confine di Stato, per gli abitanti di Chiasso, Balerna e Mendrisio la vita si era fatta più grama. Le leggi entrate in vigore a quei tempi nel Ducato di Milano proibivano l’esportazione di cereali verso i territori svizzeri. Fino a quel momento chi viveva a nord di Ponte Chiasso andava a Como a rifornirsi dei beni di prima necessità, grano in primis. Quel confine maledetto aveva reso molto più difficile di un tempo, per i servi degli svizzeri, avere il pane in tavola. Sulla loro fame si era arricchito l’Imperatore. Le convenzioni che ogni tanto gli svizzeri pattuivano coi milanesi permettevano ai loro uomini di rifornirsi oltre confine del grano necessario al sostentamento familiare di un solo giorno. Niente di più. Se per caso qualcuno tentava di portarsi a casa una scorta più abbondante di cibo doveva vedersela coi burlandotti, gli agenti spagnoli che il Ducato aveva piazzato lungo la Val Mulini e Chiasso e finiva dritto davanti al ghigno del commissario del grano (o delle biade). Qui i casi erano due: o riusciva a corromperlo a suon di monete, oppure veniva assegnato alle premure del boia. A meno che, tertium datur, invece di cercare di gabbare le guardie spagnole quel qualcuno si rivolgesse direttamente alla banda del Fontana. Cioè all’Imperatore.

    A Cesare, fino a tre anni fa. A me da allora e nei secoli a venire, pensò Carlo. A costo di uccidere tutte le stronze Maddalene che troverò sulla mia strada.

    Sì, falla a pezzi.

    6

    Cabbio, Valle di Muggio

    Non fosse stato il sant’uomo che era, don Tommaso avrebbe bestemmiato. Non era la prima volta che gli capitava di svegliarsi in piena notte senza riuscire a riprendere sonno. Ma di solito l’interruzione era dovuta ad una scocciatura esterna e universale: il boato di una frana che partiva dal monte Generoso durante un temporale, un gatto o un cane coi bollori, il Gino e il Pino ubriachi che si rincorrevano col forcone nelle vie di Cabbio per il solito nonnulla. Notti ecumenicamente bianche per tutti, nel villaggio di montagna. Ma quella lo era solo per lui. La notte della spia.

    Perfida Antonia, Dio mi perdoni: maledetta Antonia! si diceva premendosi il cuscino sulla testa, come se sotto la pressione di qualcosa di morbido il cruccio potesse addolcirsi. Per tutto il giorno aveva provato a rimuovere il pensiero della vecchia delatrice che aveva deposto ai suoi piedi il nome di una puttana: Giacinta. Ci aveva pregato su. Aveva aperto e chiuso il breviario alla ricerca di un salmo che lo placasse. Ma niente. Sapeva che a quel punto era meglio andare a fondo della vicenda. Ne andava della sua credibilità. Se avesse fatto orecchio da mercante l’avrebbero cacciato. Non poteva permetterselo, era un prete povero. Ma, soprattutto, non poteva permetterglielo la sua coscienza di uomo giusto.

    Non deve finire come allora. Non dico che questa Giacinta non abbia violato il sesto comandamento, o altre leggi di Dio, ma scommetto che, qualsiasi cosa abbia fatto, i veri colpevoli rimarranno impuniti. Come l’altra volta.

    Si sedette al bordo del letto, i piedi a penzoloni nel vuoto. Avrebbe voluto piangere, ma il Cielo, che l’aveva dotato di fede, intelligenza e di una rara capacità di percepire il cuore dei deboli, non gli aveva concesso il dono delle lacrime. Le lacrime che non riusciva a piangere, però, quella notte non le avrebbe usate né per le ragazze accusate di impudicizia in generale né per Giacinta in particolare.

    Le avrebbe usate per Susanna. Seduto sul letto lasciò che i ricordi di quanto era avvenuto più di vent’anni prima tornassero a galla. Susanna, la ragazza che volava, pensò.

    All’inizio dell’autunno del 1637 don Tommaso era prete da appena due settimane. Dal Seminario di Como era stato spedito a farsi le ossa a Salorino, una parrocchietta di poche case e molti spiazzi assolati che si raggiunge in venti minuti di buon passo salendo a piedi da Mendrisio. Non poteva ancora crederci: tanti anni di studi, penitenze, esercizi spirituali, ore ed ore a macinare libri in biblioteca, orazioni in cappella, rosari tra sé e sé dentro quella piccola fabbrica per aspiranti sacerdoti e adesso eccolo lì, un soldato di Dio nel gregge perduto dei semplici battezzati. Per lui Salorino rappresentava il campo di battaglia dove era chiamato a far trionfare il bene e la verità, la terra selvaggia da strappare al demonio. In quel villaggio uomini, donne e bambini sarebbero usciti dalle astrazioni dei manuali ecclesiastici per diventare carne. Che cos’erano? Com’erano fatti? Come funzionavano? In che modo il Signore entrava nei loro cuori, in che modo lo faceva Satana? Come avrebbe potuto parlare alle loro anime? Salorino era il luogo in cui la teoria era chiamata a diventare pratica. Quel pensiero lo eccitava e al tempo stesso lo atterriva.

    Alla prima messa in parrocchia i fedeli lo avevano inquadrato subito. Puzzava ancora di Seminario. L’è domàa ’n fiöö, dicevano vedendo che avvampava di timidezza ad ogni sguardo. Eppure, anche se lo consideravano solo un ragazzo, tre giorni dopo il suo ingresso gli avevano trascinato davanti una gabola per preti sperimentati, fermi, ricchi di anni e di saggezza. Preti che non tremano.

    La gabola si chiamava Susanna, Susanna Piazza.

    «’Giorno sior curato» gli aveva detto Abbondio Capello presentandosi. Con una mano stringeva al petto una coperta. Con l’altra serrava il braccio di una ragazzina dagli occhi grandi e smarriti. «E tu, saluta il nuovo parroco» aggiunse strattonando la fanciulla.

    «Ahia, mi fai male» aveva strillato quella.

    «Saluta, cretina!»

    Ma la ragazza taceva.

    «Ecco, lo vede? È

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