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La Decima Musa (Racconti Mitologici)
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La Decima Musa (Racconti Mitologici)
E-book108 pagine2 ore

La Decima Musa (Racconti Mitologici)

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La Decima Musa è una raccolta di racconti mitici immaginati dall’autore i cui temi richiamano quelli del-la mitologia classica, Ovidio, Hygino, Apollodoro, per intenderci. Sono narrazioni che si avvalgono di un lin-guaggio sontuoso e raffinatissimo, stilate sognando con il naso per aria, guardando nel firmamento, nelle geo-metrie fantasiose delle costellazioni, nelle acque scom-poste dei mari in tempesta, nelle tenerezze delle albe e nelle violenze rosse di certi tramonti. In questi bozzetti, eleganti e lievi come impressioni poetiche, affiora il duplice profilo della condizione umana che la fantasia greca espresse nell’astrazione di Musa e di Medusa.
E’ questa realtà del vivere e del divenire che l’autore esprime con simboli tenui che fanno fede di una sensibilità insolita e di uno stato d’animo apparentemente non turbato dai traumi della vita. Purtroppo non è così! Questo dice solo che la poesia sa fare astrazione delle sciagure del quotidiano quando la sensibilità che la esprime si tempra nella visione del bello che il mito sa forgiare. Se il mito è radicato in noi e nel nostro immaginario in maniera così profonda è perché, come Vittorio Russo ha scritto da qualche parte, forse gli dèi non sono morti e non sono nemmeno in letargo. Essi ci scrutano sornioni e di tanto in tanto tornano tra noi a provocarci con la loro malia e la loro malizia, senza pretendere altro che la nostra simpatia...
Al libro è stato conferito il Premio Speciale per la tematica “Il Convivio” 2007 dell’Accademia Internazionale Il Convivio.
 
LinguaItaliano
Data di uscita1 set 2014
ISBN9786050319446
La Decima Musa (Racconti Mitologici)

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    La Decima Musa (Racconti Mitologici) - Vittorio Russo

    Musa

    Arte e Poesia ne

    la decima musa

    di Vittorio Russo

    Presentazione di

    Stavros Melissinos

    http://www.vittoriorusso.eu/userfiles/image/DSCN0101%20(Medium).jpg

    I doni migliori che gli dèi fecero all’uomo furono gli occhi e l’immaginazione. Con essi egli vede ed elabora la realtà. Ed è così che esiste e prende coscienza della compitezza in continuo divenire del sapere cui aspira. Di questi doni gode il mio amico Vittorio Russo e di essi ha fatto buon uso per leggere nell’astratto la bellezza della poesia che lui fa fluente come seta sul bel corpo di Elena. Mi ha incantato con il ritmo del suo flauto, più di un’elegia di Mimnermo raccontando di Elissa, di Korydos, di Leiche, di Eos e di tutte le altre vaghe figure femminili che mi ha posto davanti agli occhi in prospettive cui non ero avvezzo. Rigiro nella memoria le sue frasi, come grani di rosario tra le dita. Mi ha spinto a chiedermi, una volta di più, da quando penso in termini di poesia e di mito, che cosa essi siano ancora e cosa altro siano in grado di nascondere, misteriosamente, dietro le ambiguità delle visioni oniriche. E una volta di più non ho trovato risposte se non di artificio. Ho aggiunto altro mistero nelle osservazioni, altre curiosità nei pensieri e forse un velo di nuovi desideri negli occhi come rugiada su un fiore.

    Mi chiedo a questo punto se è poi così necessario definire esattamente il mito. Importa proprio tanto sapere se esso può essere il modo per interpretare i fenomeni naturali trasmessi attraverso immagini icastiche, così come ha sostenuto Max Müller? Chi impone di essere d’accordo con G. B. Vico, che nei miti suggeriva di leggere la sapienza poetica della fantasia dell’umanità primitiva? E perché bisognerebbe convenire sulla prospettiva del sogno che al racconto mitico somiglia, così come hanno enunciato Freud e Jung? Queste pagine di così fresca suggestione, è vero, non mi decidono sull’opportunità di smettere l’indagine sul mito, ma mi convincono sulla priorità di godere poeticamente della ricchezza che da esso procede, senza l’affanno di risalire necessariamente ai mitologemi originari che sono il mio assillo di mitologo. Leggo la fluida traduzione che mio figlio ha fatto de La Decima Musa e mi pare di entrare in un’aura sacra, di affondarmi in uno sciame di farfalle ed essere sfiorato da milioni di vibratili ali il cui oro mi resta sulla pelle affascinata dal contatto.

    Io ho imparato a capire che il poeta nacque con il mito. Ma non cambierebbe molto se scrivessi che il mito nacque con il poeta. Non furono poeti, prima di tutto, i mitologi dell’antichità e, supremi tra essi, Omero, Esiodo, Mimnermo, Terpandro, Stesicoro, Pindaro, Callimaco di Cirene, e i tragici, Eschilo, Sofocle, Euripide, che poeti furono essi pure e di grande anima, e ancora, Ovidio, Virgilio, Papinio Stazio…? Tutte le ferite che possono toccare la natura dell’infelice mortale come lo sconforto, la delusione, il rimpianto, la nostalgia, la disperazione, può curare talvolta l’oblio, ma definitivamente l’onda della poesia cantata nel mito. L’uomo che in essa fissò le sue percezioni era, infatti, un cantore che dava voce al suo turbamento fissando su uno schermo unitario di tempo, di luogo e di azione tutti gli stupori che l’universo suscitava nella sua psiche. Questo ho sempre avvertito per istinto e da mitologo; da poeta questo ho provato pure a esprimere. Oggi, leggendo questi racconti di Vittorio Russo, trovo conferma che il mito è la voce della sensibilità congenita dell’uomo.

    Capisco da quali sfumature nasce la bellezza. Capisco la bellezza sottile del mito così come quella dell’Ermes di Prassitele e di tutti i capolavori ellenici del passato concepiti per crearla. Capisco che la bellezza è un pre-requisito della libertà e la libertà cui l’universo aspira si raggiunge solo attraverso l’armonia e la grazia. Noi non possiamo mutare il ciclo ordinario del determinismo, ma possiamo tener viva la fiamma della civiltà con il sorriso, l’armonia, la karis, la grazia cioè, su cui il mito in special modo ci schiude le porte.

    Se, come sostiene Hermann Fränkel, il mito nasce dalla necessità di spiegare la realtà fisica in termini extra fisici, esso è d’altro vero anche bisogno d’illusione e di trascendenza. Non per caso esso coinvolge prevalentemente il divino, sia pure in una prospettiva che nulla condivide con la nostra rappresentazione del soprannaturale. Il significato del termine stesso mythos, ancorché di oscura etimologia e variamente inteso, diventa nella mitologia la narrazione sacra delle gesta e delle origini di personaggi fuori dal tempo storico. Tuttavia il mito non è solo favola ma vaghezza di percezioni illusorie ancora più sbalorditive se si considera che esse si formarono nella fantasia di un’umanità così sensibile da essere capace di vedere nelle violenze della natura immagini perfino tenere e sognanti. Queste immagini diventarono divinità ed eroi con tutte le qualità abiette e sublimi dell’indole umana, ma con il privilegio dell’immortalità e il vantaggio di non essere giudicabili. Noi siamo l’eredità di questi valori, l’eredità della poesia di Omero e del suo mondo sfiorato appena dalle scoperte archeologiche avviate da Heinrich Schliemann, l’eredità dei miti degli autori lirici e tragici di un tempo remoto che sono l’orgoglio della nostra civiltà, perché senza il loro apporto la cultura universale sarebbe davvero spoglia.

    La lettura de La Decima Musa ha sollecitato più di una riflessione, soprattutto ha sollecito una domanda: …e se il mondo vero fosse quello dei miti luminosi e quello opaco che abbiamo sotto gli occhi solo una sua alterazione? Queste non sono parole dettate da una riflessione pagana che inneggia agli dèi di Omero per il trastullo del cuore. Se il mito è radicato in noi e nel nostro immaginario è perché, come Vittorio Russo ha scritto da qualche parte, forse gli dèi non sono morti e non sono nemmeno in letargo. Essi ci scrutano sornioni e di tanto in tanto tornano tra noi a provocarci con la loro malia e la loro malizia, senza pretendere altro che la nostra simpatia...

    Stavros Melissinos

    (Mitologo e Poeta)

    Atene, Febbraio 2005

    Prefazione dell’Editore

    La Decima Musa è una raccolta di racconti mitici immaginati dall’autore i cui temi richiamano quelli della mitologia classica, Ovidio, Hygino, Apollodoro, per intenderci. Sono narrazioni che si avvalgono di un linguaggio sontuoso e raffinatissimo, stilate sognando con il naso per aria, guardando nel firmamento, nelle geometrie fantasiose delle costellazioni, nelle acque scomposte dei mari in tempesta, nelle tenerezze delle albe e nelle violenze rosse di certi tramonti. In questi bozzetti, eleganti e lievi come impressioni poetiche, affiora il duplice profilo della condizione umana che la fantasia greca espresse nell’astrazione di Musa e di Medusa.

    E’ questa realtà del vivere e del divenire che l’autore esprime con simboli tenui che fanno fede di una sensibilità insolita e di uno stato d’animo apparentemente non turbato dai traumi della vita. Purtroppo non è così! Questo dice solo che la poesia sa fare astrazione delle sciagure del quotidiano quando la sensibilità che la esprime si tempra nella visione del bello che il mito sa forgiare. Se il mito è radicato in noi e nel nostro immaginario in maniera così profonda è perché, come Vittorio Russo ha scritto da qualche parte, forse gli dèi non sono morti e non sono nemmeno in letargo. Essi ci scrutano sornioni e di tanto in tanto tornano tra noi a provocarci con la

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