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101 storie su Napoli che non ti hanno mai raccontato
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E-book361 pagine4 ore

101 storie su Napoli che non ti hanno mai raccontato

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Info su questo ebook

C’è un'altra città nella città...

Come la Sherazade de Le mille e una notte, Napoli è una donna bellissima, che attrae e seduce raccontando storie sdraiata su cuscini di seta e morbidi merletti. Nei suoi ricordi, come per magia, si materializzano volti di uomini illustri e luoghi imperdibili, date che si perdono nei grani di un rosario e intrecci imprevisti. Si tratta di storie che intrattengono, emozionano e, soprattutto, invitano a guardare con occhi diversi gli angoli più suggestivi di una città stretta tra la terra e il mare. In quella grande camera delle meraviglie che è la memoria del popolo napoletano, ecco la regina Giovanna II, l’amante della città, e Urania, la smorfiosa spedita sulla Luna; ecco i matrimoni d’amore a San Leucio e quelli d’interesse intrallazzati a palazzo; i Te Deum che risuonano per ingraziarsi san Gennaro e i Te Diegum bestemmiati per smuovere il San Paolo. Se l’identità di una città passa attraverso le storie che ha da raccontare, allora queste storie svelano profili inediti e nuove prospettive. Storie di regni perduti, felicità tradite, sangue e guerre che la città sussurra con malizia e crudeltà, nella sua lingua carica di suggestioni, accenti ruvidi e morbidi passaggi. Storie note e meno note... come non ve le hanno mai raccontate.

«Uno stile ricercato, impressionista, che attiva l’immaginazione.»

La Repubblica

«Un’inedita e divertente guida alla città, lontana mille miglia dai luoghi comuni.»

Gazzetta del Sud

«Un vademecum inconsueto, divertente, ironico.»

Il Mattino

Tra le storie su Napoli che non ti hanno mai raccontato:

- Che si trattasse di una sirena o di una principessa, Napoli nacque struggendosi d’amore

- Graffiti pompeiani: pubblicità, sesso e promozione politica

- Napoli noir al tempo degli Angioini

- Napoli, 9 marzo 1562: sono banditi i baci in pubblico

- La Greta Garbo del Seicento

- Virgilio e l’invenzione della pizza da asporto

- Leopardi: storia di un pessimista universale che si esalta per il tuorlo d’uovo

- La prima donna sulla luna era napoletana

- Perché ’O sole mio è la canzone più conosciuta al mondo

- Il traffico delle bionde e la bancarellaia che ispirò la Loren

- L’opinione del semaforo: Napoli capitale del traffico

Agnese Palumbo

giornalista, ha collaborato con «la Repubblica», «il Riformista», «D di Repubblica». Per il teatro ha scritto, con Massimo Piccolo, Sante, Madonne e Malefemmene e Non farlo nel mio nome, storia di una brigantessa. Collabora con la casa di produzione cinematografica MoonOver. Per la Newton Compton ha pubblicato 101 cose da fare a Napoli almeno una volta nella vita, 101 storie su Napoli che non ti hanno mai raccontato e 101 donne che hanno fatto grande Napoli. Con Maurizio Ponticello ha scritto Misteri segreti e storie insolite di Napoli e Il giro di Napoli in 501 luoghi . È vicepresidente dell’associazione Luna di Seta.
LinguaItaliano
Data di uscita29 lug 2015
ISBN9788854183063
101 storie su Napoli che non ti hanno mai raccontato

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    101 storie su Napoli che non ti hanno mai raccontato - Agnese Palumbo

    1.

    CHE SI TRATTASSE DI UNA SIRENA O DI UNA PRINCIPESSA, NAPOLI NACQUE STRUGGENDOSI D’AMORE

    È controra quell’ora del pomeriggio in cui la città dorme anestetizzata dal calore e dal torpore, perduta sotto la cappa ardente, dimentica di ogni suo tormento. Si può solo riposare in questo pomeriggio, arrendersi alla calura e lasciarsi sudare i corpi sui giacigli d’occorrenza. Aspettare che il caldo, come la passione d’amore devastante, passi e s’acquieti. È l’ora del riposo e del ristoro, l’ora in cui le vene pulsanti tacciono in attesa di un impercettibile fremito che arrivi dal fiato fresco del mare. Un odore intenso attraversa silenzioso i decumani e i cardini del corpo addormentato di Partenope città. È forse questo il momento più plausibile per immaginare la sirena boccheggiante e morente, il corpo florido disteso sulla riva, che ansima in cerca di refrigerio. La maritima urbs, di Tito Livio, sorta su un sepolcro: il mare amniotico che accoglie la giovane vergine di «excellente e grandissima bellezza» (anonimo, Cronaca di Partenope).

    Come la giovane sposa, che per tradizione si immerge nel mare mormorando una preghiera per la fertilità, la sirena Partenope si appoggia sulla riva; il mito vuole che Napoli nasca dalla morte di una vergine tormentata d’amore. Ai Campi Ardenti – i boschi sacri dell’Averno, il Fusaro – Acheronte, il lago Miseno, la Sibilla che scruta il futuro – Ulisse è venuto per attraversare la porta oscura di Plutone, nell’imbocco che vomita fuoco e acqua bollente, a perdersi nel labirinto dell’oltretomba. Partenope intona il misterioso canto delle sirene e lui, fissato al palo maestro, ne gode interamente il piacere. È questo l’ennesimo stratagemma dell’eroe dell’ingegno, l’espediente che lo porta fin dentro la passione amorosa senza perdere il senno. La sirena trafitta da un dolore atroce, delusa e abbandonata, si lascerà morire in acqua, naufraga su un lido, portata dai flutti; «l’accoglierà la torre di Falero e il Clanio (Regi Lagni o Sebeto) che con la sua corrente bagna questa terra. Lì indigeni avendo innalzato un sepolcro alla fanciulla le renderanno onori ogni anno [...]» (Licofrone, nel IV secolo a.C.).

    Tra l’isolotto di Megaride e il Monte Echia-Pizzofalcone, quell’insediamento chiamato Paleapolis, città vecchia, lascia il posto a Neapolis, città nuova, tagliata dal reticolo ippodameo, incrocio di cardi e decumani. Altre fonti riporterebbero di una Partenope senza coda, principessa greca, salpata dall’Eubea in compagnia del padre: «PARTHENOPAE . EUMELI. PHAERAE TESSAIIAE . REGIS . FILIAE», recita un’iscrizione lungo la parete di Sant’Eligio, incastrata sotto un arco della chiesa, a pochi passi da piazza Mercato; «Alla vergine che diede alla città le prime fondamenta e la governò. Il popolo napoletano ne sottrasse la memoria dagli Inferi». Arriva per mare la giovane vergine figlia di Eumelo Falevo, fuggita dalla Grecia per un tormento d’amore. Arriva sulle coste della città nuova e la lascia pura, vergine come lei, trafiggendosi fino alla morte, per compiere il destino immacolato che si portano dentro, lasciandoci la sensazione tutta napoletana di abitare su un corpo mitico vivente.

    Controra è l’ora immobile in cui è possibile immaginare la morte come un lungo sonno, un infinito riposo da cui si genera la nuova discendenza dei napoletani.

    2.

    LICINIO LUCULLO, QUID EST? SO’ CERASE!

    Più di tutto Lucullo adorava i coup de théâtre ben orchestrati. Adorava trascinare gli ospiti in visibilio per la sua immensa dimora, attardandosi in racconti di guerra, disquisendo di arti e letteratura, lasciandoli a bocca aperta davanti alla fioritura primaverile di un ciliegio o estasiandoli con lo stupore estivo di sapori ancora sconosciuti. Era studiata la nonchalance con la quale passava davanti allo splendido albero fronzuto da cui pendevano succulente palline rosse, turgide perle da lasciare senza fiato: «Lucullo, che sono?». Cerase, ciliegie: frutto degli dèi dolce come ambrosia, recuperato in Cappadocia al tempo di Mitriade. Cerasella, frutto magico e appassionato che nell’immaginario collettivo sostituì la descrizione di labbra infiammate di rossa passione: ceraselle partite da Keracos, diventate nel tempo metafora romantica di ragazzette sensuali che non assecondano insistenti corteggiamenti, capaci di trasformare i poeti in posteggiatori.

    Un frutto nuovo che in breve sostituì la più aspra amarena, facendo vibrare le penne austere di Plinio il vecchio, Varrone e Apicio. A Lucullo bastò una talea trasportata per mare al suo ritorno. Uno spunto di pianta. Il resto lo fece quella Campania Felix, umore prezioso, incontro tra il mare e le ricche ispirazioni del Creator Vesevo, in grado di rendere rigogliosa qualunque vegetazione.

    Nel mezzo di quel mare dove Partenope si era accasciata e sarebbe sorto il castello dell’uovo magico, su quello spazio ora di Megaride, si inauguravano banchetti sontuosi, tavole infinite imbandite di esotiche sorprendenti delizie; tra fiumi di vini pregiati nei quali affondava dispiaceri e memorie di glorie lontane, di oltraggi subiti e crudeltà inflitte. Divorando porzioni spropositate di cibo e felicità Licinio Lucullo, calamita romana di fine secolo, attraeva ogni sorta di romani; fuggitivi provenienti dall’impero austero e lontano oramai fuso e confuso nella molle grecità. Valoroso e crudele generale, aveva tratto gloria e ricchezze inestinguibili dalle sue campagne in Oriente; mecenate dell’ultima età repubblicana, era fuggito da Roma per inciuci, intrallazzi e ferventi discussioni con Giulio Cesare, preferendo rifugiarsi nell’immenso castrum, tra ozi intellettuali e pantagrueliche abbuffate. Ironica fusione di koiné greco-romana-partenopea amava perdersi tra fughe di colonne e zampilli di fontane, offrendo a scelti ospiti pranzi memorabili, ospitando in un passaparola trasversale ogni specie di pubblico, dai politici ai filosofi, dagli artisti ai letterati...: viveur dell’ultim’ora che, liberi dai ruoli (e spesso anche dagli abiti) formali, si lasciavano sedurre dai suoi racconti. Tutt’altro che corpulento, come si penserebbe dalle sue abitudini, Lucullo manteneva un corpo bellissimo, sottoposto a quella rigida disciplina a cui aveva in passato obbligato il suo stesso esercito; si abbandonava a cibi prelibati, di ogni fattura e cucina, carni e dolci e più di tutto spettacolari trionfi di pesce, con specie pregiate di aragoste, murene e gamberi, che lui stesso amava allevare, mentre un gran numero di schiavi gli accudiva i migliori frutteti d’Italia. Visse nel lusso più sfrenato, nella lussuria più perduta, morendo nel 57 a.C per un probabile eccesso di quelle droghe, pozioni, e filtri d’amore che un liberto gli somministrava giornalmente.

    2. LICINIO LUCULLO, QUID EST? SO’ CERASE!

    3.

    UNO SPETTATORE INEDITO ALLE IDI DI MARZO E UNA PROPOSTA CHE NON SI PUÒ RIFIUTARE

    «Gli farò una proposta che non potrà rifiutare».

    Don Vito Corleone, da Il Padrino

    Non crediate che le cose a Napoli si risolvano sempre con il divertimento. In quel caso fu Roma a chiedere di poter affogare nei rutilanti colori della festa gli ultimi fatti che l’avevano insanguinata. Alla città greca, non restò che fornirle i più grandi maestri di giochi. Maestro, chi è di scena stasera? Sullo sfondo paradisiaco dei suoi mari un gruppo di illuminati o di assassini mette a punto gli ultimi dettagli, trame di Parche trasferite sull’isola di Nisida, isola-ninfa, nella trasposizione cinquecentesca del Pontano.

    Nella splendida villa, Bruto è corteggiato a lungo, stordito dai molli fumi della solfatara, del vulcano gemello, intontito da racconti di gesta trionfali; si decise e impugnò il coltello, una di quelle venti lame che all’ora quinta del 44 a.C colpirono a morte Cesare. Nascosto dalla toga, il Kai ov, tekvov pronunciato in un fiato, quel quoque tu tradotto male, per quel figlio che forse non era di sangue, ma che sempre di parricidio si macchiò. Roma ammutolì sotto i colpi di ventitré coltellate e i congiurati ascoltarono con sgomento il silenzio opprimente: era morto il dittatore, cosa li aspettava?

    A questo punto Bruto il pretore fece l’unica cosa da fare: organizzò i più grandi giochi che la storia della capitale avesse mai ricordato; stordì l’orrore nell’oblio della festa, nei tripudi sanguinosi dei ludi gladiatorii, nelle frenetiche danze dei sacerdoti di Bacco. Era morto il pontefice massimo, l’invincibile capo militare che aveva assoggettato il mondo alla legge romana, c’era un solo posto dove andare: Neapolis la greca gli avrebbe fornito i più grandi maestri, gli histriones più famosi. Partì, attraversò quell’antica via Domitiana che conosceva bene, raggiunse Neapolis, visitò la truppa di comici e di musici che dovevano servirlo nei giochi, contrattando con i professori di Bacco, procacciando gli artisti più quotati. Conosceva bene l’arte teatrale napoletana, lui stesso aveva partecipato da attore a diverse rappresentazioni e amava perdersi nelle finzioni del palcoscenico intessendo scenari irreali. Scrisse agli amici per scritturare il celebre Canuzio, l’attore che più di tutti «riusciva felicemente ne’ teatri», artista rinomato della commedia e della tragedia, un uomo impegnato, restio a lasciare i suoi luoghi, che nonostante tutto partì. Bruto aveva insistito perché lo convincessero con la massima persuasione. Un invito per cui furono usati molti mezzi, certamente i più efficaci, nonostante non sia «convenevole usare violenza con veruno de’ Greci» (Bruto). Nemmeno per portarlo a salvare la capitale sconvolta dalla morte dell’imperatore.

    Agli spettacoli del teatro Bruto aggiunse i combattimenti di belve feroci: ne fece radunare un grandissimo numero, sacrificandole al piacere del popolo. Per l’occasione tornò in patria anche Cicerone, convinto dalla stessa autorevolezza che aveva spostato a Roma l’attore. I giochi ebbero inizio e furono grandiosi, una fusione magistrale, un fragore di applausi che presto lasciò il posto al rammarico e alla perplessità. Lo stesso Cicerone non poteva accettare che il popolo si logorasse le mani ad applaudire, invece di difendere la repubblica. Ma anche il popolo di Roma, altro non era che un nome lacerato da fazioni. Il partito di Antonio, i soldati e tutti coloro che erano affezionati alla memoria di Cesare turbarono e interruppero i giochi con così grandi clamori da riuscire a farli tacere. I congiurati lasciarono la capitale approfittando di alcuni vascelli allestiti per le biade. Lasciarono Roma e due anni dopo trovarono la morte, a seguito della battaglia di Filippi. E Nisida tornò teatro, questa volta del suicidio di Porzia, figlia di Catone, moglie di Bruto, che alla notizia della morte del marito si uccise ingoiando carboni ardenti. A starci lì davanti, o a guardarla da lontano, dall’altura di Posillipo, Nisida non sembra più nemmeno un’isola, una lingua di cemento la tiene attraccata alla terra. Sotto i nostri occhi spariscono le scogliere, gli oliveti, i vigneti a terrazze e le vecchie fabbriche. Luoghi che concorrono a restituirle memorie di uomini e fatti eccellenti, che ebbero inizio con quella congiura, scenario di leggende storiche e miti struggenti.

    4.

    IL GIALLO DI NERONE, INGEGNERIA DI UN DELITTO DI STATO

    Che in questa notte di marzo si apra la più affascinante delle quinte per dare spazio al più crudele degli assassinii! È qui che Nerone si libera dalle fasce materne: nelle acque sulfuree, tra i vapori della terra che ribolle, l’imperatore scioglie il vincolo squarciando il grembo. Il matricidio, dapprima fallito nelle placide acque di Baia su una nave trappola, sarà consumato la notte stessa nella villa imperiale di Bacoli.

    Era il 29 marzo del 59 d.C., e mentre l’acqua del golfo continuava a ingoiare come una nera pozza d’inchiostro uomini e pezzi di quel disastro, una donna cercava di salvarsi gridando di essere l’imperatrice. Per lei i soccorsi si trasformarono in nuova violenza, tra bastonate con i remi e ultimi tentativi di annegarla. La barca in mezzo al mare si era spaccata in due, come un frutto sodo sotto l’insistenza di una lama, facendoli precipitare in acqua. Adesso la vera Agrippina, che aveva compreso le trame dell’attentato, si salvava nuotando lentamente verso riva, tra la sorpresa e la gioia dei pescatori che riconoscendola accorrevano in suo aiuto.

    Spostiamo l’eterna Roma negli spazi metafisici dei Campi Flegrei, spostiamo il gigantesco e ingombrante imperatore, la seducente madre, intrigante donna politica, sottile e crudele stratega, spostiamo gli intrighi le tensioni, i complotti: la capitale trema di silenzi e segreti inconfessabili, pronunciati nel minuscolo porto di Baia, la responsabilità di un impero che agonizza in un minuscolo specchio di mare. Un teatro che non era nuovo ai verdetti; da queste coste erano partite altre congiure, di altri potenti si era già decisa la morte.

    Neapolis riecheggiava ancora degli applausi profusi all’Odeon per la performance dell’imperatore; trionfi promossi dalla sua claque particolare arrivata dritta dritta da Roma, la confusione festosa della notte fu squarciata da un nuovo terrore: le urla dell’imperatore pervasero con raggelante intensità ogni angolo; Nerone era preso da una follia cieca, da un panico disperato. Quello che si era iniziato doveva essere concluso.

    Aniceto aveva già fallito per quella sera, la sua nave si era dimostrata un progetto disastroso, ora non restava che tentare di rimediare. Scelse di farlo alla vecchia maniera, raccolse un gruppo di marinai fidati della flotta di Miseno e navigò fino alla villa. Alcuni uomini accerchiarono il perimetro, mentre altri irruppero nella stanza. Agrippina aggredita si dibatteva tra grida atroci di dolore: il triarca Erculeio la colpì con un bastone, il centurione di marina Obarito le vibrò una prima coltellata, i volti degli assassini le erano familiari, il profilo del figlio si delineava a ogni taglio inferto, la mater, devastata da tanto strazio, offrì il corpo all’ultimo pugnale perché la facesse finita.

    L’acqua di mare si sa che rende pazzi; acqua sorseggiata come lento veleno nei giorni di naufragio e di calura. Nerone era folle d’amore, ebbro di giochi e di feste, disperato e al tempo stesso euforico. Voleva Poppea, il suo latte santo, voleva un’altra mater. Risolta Agrippina, partì alla volta di Napoli, verso i giochi ludici che di lì a poco si sarebbero inaugurati. Napoli l’avrebbe accolto tra danze e feste, l’idolatra misura, in quell’ultimo estasiato rigurgito di paganità, l’avrebbe inebriato, ubriacato, perduto tra i suoi sensi, ma l’incubo di Agrippina, il fantasma ossessivo, avrebbe continuato a fargli visita, l’avrebbe reso folle di disperazione. Perché scelse Neapolis, perché far morire sua madre nella terra delle madri?

    5.

    PETRONIO, LA SIBILLA E IL DESIDERIO DI MORIRE

    Sibillini passi alla soglia del futuro: per arrivare alla città eletta si passa dagli Inferi, per conoscere il proprio destino si supera senza timore il cunicolo trapezoidale, dove una donna si è concessa corpo e anima al dio Apollo, accogliendone ogni richiesta dentro il suo corpo.

    Nell’oscuro antro, solo qualche intervallo di luce regalato da evidenti aperture, solidi stratagemmi di battaglia, si racconta, o semplicemente necessità d’architettura. Sei grandi fenditure aperte in gallerie laterali verso il mare e una caratteristica sezione trapezoidale che aumenta l’impressione di altezza già notevole nei suoi cinque metri. Un utero lungo centotrentuno metri, nel quale entrare e dal quale uscire, un attimo dopo, sollevati o sconvolti, spavaldi perché si stringe tra le dita un futuro, o piegati, spezzati, morti, sotto il peso di una verità insostenibile.

    A Cuma è ancora così, anche se lei non c’è più. Un dromos è scavato interamente nella roccia tufacea, a partire dall’esterno dell’acropoli lungo il ciglione occidentale della collina, e si inabissa fino a giungere in un vasto ambiente rettangolare con una copertura a falsa volta: l’antro vero e proprio dove la Sibilla dava un tempo i suoi ambigui responsi. A ogni domanda la sacerdotessa vaticina, tra mosse d’epilessia e scosse violente, scriveva su frammenti incomprensibili di foglie di palma. È qui che lascia il destino in esametri greci, frammenti che il vento, prontamente, provvede a sparpagliare. Sibilla di dieci sibille sparse per l’impero, la più importante, chiamata di volta in volta Amaltea, Demofila, Erofila, la sola degna di essere nominata nella letteratura greca.

    «Sibilla che cosa desideri?». «Desidero morire». Una volta Apollo si era offerto di realizzarle un desiderio. Lei sperò di vivere tanti anni quanti erano i granelli che aveva preso tra le mani, senza pensare che, presto, il tempo inesorabile si sarebbe accanito sul suo corpo mortale.

    La vergine nera, immagine di morte, oscura nei suoi presagi, lei stessa tormentata mentre tormentava. Non sarà forse per questo che in realtà aspettava la morte? Per lo spasimo che costante e insostenibile la obbligava ogni volta a penetrare fin dentro le sofferenze, fin nel profondo e oscuro anelito dei cuori infelici che a lei chiedevano soluzioni? Le dava dolore atroce il contatto con il dolore? Figura tragica, non resta più niente della femminilità, della bellezza che aveva sedotto il dio: di lei non resta che l’ambigua figura di un essere che genera avvolto da atroci dolori: «Nam Sibyllam quidem Cumis ego ipse oculis meis vidi in ampulla pendere, et cum illi pueri dicerent: Σίβυλλα τί θελει; respondebat illa: Ἂποθανείν θελω». «E quindi io stesso, con i miei occhi, vidi a Cuma la Sibilla protesa sulla sua ampolla e, chiedendole i fanciulli: Sibilla che cosa desideri?, quella rispondeva: Desidero morire». Si parlano in greco per Petronio, il greco di cui è intrisa la memoria di questa terra, un fil rouge segreto che porta a Cuma la Pizia di Delfi.

    Per Virgilio, «horrendo» era piuttosto lo spaventoso contorcimento di quel corpo mentre esprimeva il misterioso verdetto. Il Vate poeta aggrovigliò tutto qui, trascinò per noi, solo per noi, achei e troiani, riprodusse la lunga battaglia, rievocò le alte mura, il cavallo vuoto, la violenza, il dolore, il trionfo: per questi Campi Ardenti, dove l’acqua e il fuoco incontrandosi puzzano di zolfo.

    Cuma generatrice, riprodusse tutto quanto la genetica della fondazione le aveva indotto: prima città greca fondò Dikarchia (Pozzuoli), Palepolis (la città antica) e Neapolis (la città nuova), dopo aver lasciato Ischia sospesa sul mare. Cornice di laghi, acqua e imbocchi sovrannaturali, da lasciarsi alle spalle nel ventunesimo secolo, sperando nel cinismo del nostro tempo, credendo che oltre questi luoghi, superata la Solfatara per Pozzuoli, ci si possa lasciare alle spalle dèi, vati ed eroi, senza rammarico e senza dispiacere; chiudendo la memoria in qualche verso del passato, lasciandola ingoiare tra borbottii sotterranei che inghiottono la terra. Eppure la domanda non trova ancora soluzione.

    Perché la Sibilla desiderava morire?

    6.

    LE CORSE LAMPADICHE

    Partenope, figlia d’Inferno, sceglieva braci infuocate per le gare in suo onore. Giochi istituiti nel 425 a.C. da Diotimo, navarca ateniese, corse lampadiche, riproposte tutti gli anni nella zona ercolense per la vergine naufragata sulle rive della città marina, memoria limpida rinnovata ogni cinque anni. Splendidi atleti che correvano nudi lungo il corpo della città sirena, divorati dagli sguardi lascivi delle giovani vergini. Uomini inghiottiti dal buio, illuminati a tratti dal fiume tremolante di fuoco che raramente e con poca convinzione lasciava intravedere i loro corpi scultorei.

    Dal vico del Lampario il serpente infuocato correva lambendo le coste del mare, in gara verso il sepolcro della vergine sirena, tre giri attenti a non far spegnere le fiamme. Riti di chiara derivazione greca, ispirati agli Eleusi, nella celebrazione del ratto di Kore-Persefone; i mysti interrompevano le danze, accendevano le torce urlando sconvolti dalla paura della carestia, si prodigavano dovunque alla ricerca della vergine sparita, rapita, fino all’arrivo di un araldo di Helios, il dio del sole, che sapeva dov’era la giovane, lasciando che riprendessero le danze forsennate e le musiche trascinanti.

    Ogni anno a fine gara, questi Ganimede stanchi, eccitati da tanta luce dopo le profonde tenebre, si cercavano una compagna lasciando la festa degenerare in orgia, avviando in futuro quei carnasciali pagani per i quali fu famosa l’epoca di Nerone.

    Arrivava via mare l’imperatore, in trionfo da Baia su un cocchio dorato, al suono di mille cembali, mentre giovani e giovinette intrezzavano la cicinnide, antica forma di tarantella, accompagnati dal verso dei cantori greci e costruzioni di archi trionfali. ’O mast’e festa, trainato da quattro animali feroci, entrava trionfante nella città, osannato dal quel rigurgito di esaltazione pagana che il 5 febbraio, alla nuova festa del Messia, preferiva ancora tirare giù dal cielo gli dèi dando spazio ai più sfrenati baccanali. Carnevali corrotti e interrotti nel 65 d.C., proseguiti edulcorati e ripuliti, cristianizzati e morigerati, sotto il segno del Cristo, nella vigilia che anticipa i quaranta giorni di penitenza nel deserto. La festa in cui la carne – cibo utopico dell’abbondanza festiva – vale, ancora per poche ore, tra lo stordimento e il delirio degli astanti.

    La vocazioni della città porosa, realizza in se stessa l’architettura del tempo, si erge su altissime macchine, effimere proiezioni architettoniche, gigli stretti nel vicolo, unico spazio a disposizione per gigantesche macchine da festa rette dagli sguardi rapiti dei napoletani.

    Partenope ritorna a farsi strada, icona mai tramontata della città metà donna e metà pesce, provocante seduttrice, plasmata dalle mani oscene di artisti rinomati, trova posto su un carro del 1876, femmina dai seni nudi e la coda invisibile, nascosta con cura tra le morbide curve del corpo. Bellissima opera d’arte, destinata a lasciarsi guardare per una manciata di ore, a rimanere viva solo tra le cronache dei giornali, creatura di Mancini, Toma, Dichirico, Matania e Jerace, lo stesso che piantò la sua gemella nel cuore di piazza Sannazaro. La scandalosa incantatrice dovette cambiare percorso, obbligata a passare per vicoli e stradine secondarie, rincorsa da giovanissimi scugnizzi desiderosi di ammirare il corpo bellissimo della Partenope nuda.

    Napoli intesse il suo carnevale allestendo lo stesso teatro che amò Nerone, è il momento in cui la città si compie, richiamando a sé la memoria che l’ha generata, rappresentazione della continuità che non esclude la trasformazione, ma la ingloba diventandone oggetto. Identità moltiplicate come i Numi Tutelari che chiama a raccolta, presi in prestito dai suoi altari, fusi l’uno dentro l’altro, Maradona, Totò, la Madonna del Carmine, la sirena Partenope, senza che nessuno soverchi l’altro; celebrazione, trasgressione e al tempo stesso restaurazione. Napoli torna capitale nel 1880 quando ospita un altro imperatore, Don Pedro II de Alcantara del Brasile che, pazzo di questo Carnevale, vuole portarselo pezzo pezzo a Rio.

    6. LE CORSE LAMPADICHE

    7.

    PLINIO IL VECCHIO, CHE SFIDÒ L’IRA DEL VESUVIO PER IL BIGLIETTO DI UNA DONNA

    Sotto il Vesuvio, l’occhio segue la costa fino alla punta Campanella, l’estremo che metterà fine al lungo viaggio partito da Posillipo. Si passa davanti alle gru di San Giovanni, davanti alla schiera di ville settecentesche di Ercolano, si arriva a Portici,

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