Storia di una capinera
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Edizione integrale
Scritto nel 1869 e pubblicato in volume nel 1871, questo breve romanzo di Verga ha goduto e continua a godere di una straordinaria fortuna. Sebbene appartenga cronologicamente al primo periodo della produzione verghiana, esso se ne distacca sensibilmente sia nella struttura sia nei contenuti. Scritto in forma epistolare, è tratto da un’esperienza autobiografica. La giovane Maria – costretta dal padre alla vita del convento pur senza vocazione – scrive all’amica Marianna lettere che testimoniano del suo turbamento di giovane novizia che riscopre nuovi orizzonti in contrasto con la vita monacale e soprattutto l’amore che, osteggiato da tutti, crescerà in lei assumendo una tensione parossistica. Considerato a suo tempo una polemica denuncia della condizione femminile, questo romanzo, adattato per il cinema da Zeffirelli, è piuttosto un grande dramma intimo, sentimentale, umano, spinto fino all’eccesso.
«Ora ti lascio. Ho il cuore troppo pieno per pensare ad altro. Scrivendoti ho provato ancora le stesse emozioni… Ora ho bisogno di rimaner sola, di sognare, di pensare, di esser felice…»
Giovanni Verga
nacque nel 1840 a Catania, dove trascorse la giovinezza. Nel 1865 fu a Firenze e successivamente a Milano, dove venne a contatto con gli ambienti letterari del tardo Romanticismo. Il ritorno in Sicilia e l’incontro con la dura realtà meridionale indirizzarono dal 1875 la sua produzione più matura all’analisi oggettiva e alla resa narrativa di tale realtà. Morì a Catania nel 1922. Di Verga la Newton Compton ha pubblicato I Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, Storia di una capinera e Tutti i romanzi, le novelle e il teatro.
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Anteprima del libro
Storia di una capinera - Giovanni Verga
169
Prima edizione in questa collana: settembre 2011
© 1993 Newton & Compton editori s.r.l.
© 2010 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-3411-9
www.newtoncompton.com
Edizione digitale a cura di geco srl
Giovanni Verga
Storia di una capinera
Introduzione di Sergio Campailla
logo_NCE.pngVolo di una capinera in gabbia
Come testimonia De Roberto, alle origini della Storia di una capinera ci sono esperienze e ricordi autobiografici: i racconti della madre dello scrittore, educata nella badia di Santa Chiara, prospiciente alla casa di Catania; il precedente di alcune zie, che avevano abbracciato la vita del chiostro; i soggiorni in quel di Tebidi, nel 1854-1855, per sfuggire al contagio, durante i quali sarebbe avvenuto l’incontro con il primo amore
, un’educanda dell’abbazia vizzinese di San Sebastiano; nonché il più recente soggiorno del 1867 a Battiati e a Trecastagni, sempre per sottrarsi ad un assalto epidemico.
Alle origini della Storia di una capinera, d’altra parte, c’è anche un problema storico e sociale, quello delle monacazioni forzate, rispetto a cui il romanzo verghiano intende in qualche modo porsi come una presa di coscienza pubblica, e che procurò all’autore il patrocinio di Dall’Ongaro e della Percoto, e per il suo effetto di risarcimento sentimentale, un notevole successo presso i contemporanei.
Nonostante queste sollecitazioni realistiche, di ordine diverso, del passato e dell’attualità, non è difficile accorgersi che la situazione rappresentata nella Storia di una capinera è profondamente letteraria. Letteraria, intanto, perché letterariamente autorizzata. Basti ricordare la Religieuse di Diderot e l’episodio della Monaca di Monza nei Promessi Sposi; per tacere della tradizione della novella in versi, dell’Ildegonda del Grossi; del Monastero della Sambucina del Padula, o della Suora del Carrer; e di altri numerosi testi minori, per i quali è anche più disagevole e improbabile la documentazione sulle letture dirette di Verga, e che comunque, tutti insieme, comprovano l’esistenza di una ben precisa tematica, se non di un genere, che dalle razionalizzanti e polemiche soluzioni illuministiche trapassa alle riprese variamente romantiche dell’Ottocento. Ancora nel nostro secolo, un autore di formazione cattolica come Guido Piovene ne ha tentato una riattualizzazione con le Lettere di una novizia. In questo senso si spiega meglio la simpatia dimostrata dai letterati per quest’opera verghiana. Si pensi a De Roberto, che si è compiaciuto di ricostruire la Storia della «Storia di una capinera»; o a Debenedetti che, combattuto fra attrazione e insoddisfazione, si è mostrato sensibile alla lusinga di una riscrittura.
Ma al di là di questi e di altri possibili riferimenti, letteraria è la condizione dello scrittore catanese, così come si esprime in questo libro e, più generalmente, nella lunga fase di preparazione che approda alla stesura di Nedda. Una condizione letteraria da intendersi come non vissuto, come insufficienza di realtà, come vizio di posizione, che caratterizza il Pietro Brusio di Una peccatrice, il pittore Enrico Lanti di Eva, il Giorgio La Ferlita di Tigre reale. All’interno di questa galleria si distingue per radicalismo la figura della timida, inerme Maria, estromessa dalla vita, sin dall’inizio. «Nacqui monaca», constata senza nemmeno presumere di potersi ribellare. Tra lei e la vita ci sono le mura di un chiostro. Oltre, sta il fantasmagorico, inimmaginabile scenario della vita; che essa ha intravisto con un’incursione imprevista e provvisoria, per poi ricostringersi al di qua. Come il Tasso leopardiano, la Capinera si trova in un’essenziale condizione letteraria e poetica.
Di qui la semplicità dello schema su cui è costruito il libro e che consente forse meglio delle altre opere giovanili di cogliere la dialettica sentimentale e intellettuale verghiana nel suo movimento primario. Verga azzarda l’adozione dell’io
, sia pure attraverso lo schermo del personaggio femminile, che lo aiuta a contenere ma non ad evitare i rischi dell’identificazione. Quest’io
si effonde direttamente, per via di lettere. Sullo sfondo, non si può non considerare l’esempio del grande romanzo epistolare wertheriano e ortisiano; il che vale pure a misurare la temperatura romantica dell’operazione. E a tal proposito ancora Debenedetti ha insistito sull’equivoco irrisolto tra racconto e romanzo, mettendo in luce come «una concretezza da immagine lirica» risulti diluita nel tempo di una narrazione. Verga, insomma, non è in grado di sliricarsi
. Come è confermato dal titolo e dalla paginetta di prefazione, i quali indicano che la vicenda è stata pensata nel segno di una classica figura retorica, la similitudine. Maria infatti è come una capinera.
Questo immobilismo narrativo si può verificare per altra via. La narrazione si pone come confessione; ma le lettere non sono indirizzate all’amato, bensì a una confidente, a una testimone passiva. La confessione perciò è monologo. Anche la scelta dei nomi si inserisce in questa logica profonda. Maria scrive a Marianna (Maria-Anna), che già nella sua identità onomastica si rivela essere il suo doppio. Un doppio a cui il destino riserva sorte più felice. Marianna è infatti una Maria che è stata educata in convento, ma a differenza dell’altra ne esce, conosce il mondo e finirà per sposarsi. Già il Manzoni aveva sottolineato l’effetto scatenante esercitato sull’irrequieta Gertrude dall’esempio delle compagne che allo sterile primato nel chiostro contrapponevano i piaceri e il lusso della vita secolare. Rivolgendosi a Marianna, Maria trova un’immagine di sé gratificata; scrivendole, automaticamente si colloca in una disposizione fabulatrice. La povera Capinera si guarda allo specchio e sogna. Se Marianna a un certo punto, per un mutato orientamento della regia, intervenisse, sarebbe una rottura dell’illusione. Si intende che ogni gratificazione può, ad un altro livello psichico, agire come una nuova frustrazione.
A parte Marianna, l’unica amica della monologante protagonista di cui veniamo a conoscenza è Annetta Valentini: che è l’altra
per il tramite (Maria; Maria-Anna; Annetta) del doppio, la destinataria delle lettere che difatti potrebbe anche essere gelosa
. Egualmente interessante può essere il ricordare che la Monaca di Monza anagraficamente si chiamava Marianna; e che la protagonista della Religieuse a sua volta aveva per nome Marie-Suzanne. Su un versante di opposizione, che la comune appartenenza alla tradizione biblica ribadisce, alla Capinera Maria fa fronte la sorella Giuditta, concorrente vittoriosa e sprovvista di simpatia.
Certo, sul piano dell’intrigo romanzesco la storia di una trasgressione sarebbe stata più redditizia. È la strada scelta, con intenti e misure diversi, da Manzoni e da Diderot. Nei capitoli nono e decimo dei Promessi Sposi un lungo racconto in flash-back ricostruisce l’eziologia della disposizione al male maturata dalla Signora, la quale, sul presente degli avvenimenti, già si è macchiata di ogni specie di turpitudini. Rispetto alla castigata stesura definitiva (con la celebre sospensione «la sventurata rispose»), quella di Fermo e Lucia si attardava anzi in maggiori particolari. Dal canto suo, lo scrittore francese risparmia alla sua creatura, non senza ambiguità e inverisimiglianze, la responsabilità di colpe degradanti, peraltro analiticamente descritte in rapporto alle pratiche dell’ambiente monacale; e qui si arriva alle audacie del romanzo libertino, alle scene proibite di sadismo e di lesbismo. La trasgressione di questa eroina è di taglio differente, ispirata a una nuova intelligenza critica, a una morale più avanzata: intelligenza e morale che predicano la socialità dell’uomo, quindi l’assurdità e la pericolosa innaturalità del costume medievale della clausura, e la liceità degli istinti amorosi.
Al confronto, la Capinera verghiana non ha l’intrepidezza e il disprezzo della Monaca di Monza, che a questa derivano dal suo prestigioso ceto sociale, dall’orgoglio di discendere dalla costola d’Adamo
. Meno drastica, ma ancora sensibile, è la differenza di classe rispetto alla Religieuse; di cui condivide l’infortunio di una nascita irregolare, ma di cui non possiede affatto la stringente cultura illuministica e femministica. La specificità della Capinera sta in ciò: che non può né peccare come la Monaca di Monza, né contestare impavidamente e ragionatamente il giogo delle inibizioni, come succede alla consorella d’Oltralpe. Invece della storia di una trasgressione abbiamo, per conseguenza, la storia di una repressione.
Per valutare le tensioni che urgono nel testo, bisogna riportare alla luce questo strato problematico, della peccatrice repressa. La Storia di una capinera, a ben guardare, eredita da Una peccatrice una tematica che reinterpreta estremizzandola. Non è un caso che Una peccatrice adotti in chiusura la forma epistolare. Una lettera come quella datata 12 novembre, in cui Narcisa Valderi effonde la sua angoscia per l’imminente separazione dall’amante («Dio! Dio! Pietà! Pietà! Son pazza...») potrebbe già appartenere alla Storia di una capinera. Lo stesso titolo Una peccatrice, che ha fatto indubbiamente da guida alla ricerca verghiana, si adatta a questa sorta di Anna Karenina imbellettata e un po’ rigida, comunque debitamente adultera e moritura; ma anche meglio potrebbe adattarsi alla candida Maria e alla storia delle sue impossibili tentazioni.
Una lettura linguistica e stilistica, sia pure per brevi cenni, utilmente mostra come l’operetta sia ideologicamente concepita sull’elaborazione di questo concetto. Già nella prima lettera, che descrive l’ingenua, gioiosa espansione dell’educanda uscita dal convento, viene formulato il timore che le nuove esperienze derivanti dall’intimità familiare e dalla comunione con la natura siano illecite: «Mio Dio! Se queste gioie fossero un peccato...». Per adesso si tratta solo di un pericolo ipotetico, che scrupolosamente si vuole scongiurare. Ma già poche righe appresso, il congiuntivo dell’eventualità si trasforma in un desolato presentimento per il futuro: «Non sarò degna di tanta grazia; sarò una peccatrice...». La storia della Capinera sembra configurarsi proprio in questa predestinazione, in questa involontaria assunzione di colpa. L’unica salvezza è individuata nell’appartenenza a un nucleo familiare compatto: la famiglia stessa di Maria, di cui la giovane nel primo entusiasmo del ritorno celebra il calore protettivo, ma che tuttavia presto si rivela attraversata da contrasti e persino estranea: con una sorella capricciosa, egoista e privilegiata, e una matrigna che la emargina, preoccupata soltanto di perseguire il proprio interesse. Anche i dati più trascurabili della cronaca quotidiana e domestica suggeriscono questa immagine di miseria e crudeltà: è la matrigna che tira il collo al tacchino in occasione della festa, è lei che in regalo preferisce la lepre ai fiori. La famiglia-modello è un’altra, umile e solidale, quella del castaldo.
Dal peccato vagheggiato a quello effettivamente commesso: «Se sapessi, Marianna! se sapessi... Il peccataccio che ho fatto!». Questa volta ha ballato con Nino. Ancora si parla non, obiettivamente e severamente, di peccato, ma di peccataccio, per che siamo sempre nel campo dei timori e delle esagerazioni. «Peccataccio» è enfatico e moderatamente scherzoso; l’esercizio dell’ironia è giustificato dalla speranza di uscire indenne. «Ti ho scritto tutto quello che faccio, tutto quello che penso, tutti i miei divertimenti, tutti i miei peccatacci...». Più avanti, quest’ironia appare più dubbia e perciò bisognosa di conferma: «Oh! sì! Sono peccatacci grossi!... e chi sa quanto dovrò soffrire nel farne la confessione». Maria ha provato il desiderio di abbracciare Nino, ma fraternamente; e l’idea di rivelarlo in confessione l’imbarazza e la turba. Con evidenza comincia a mentire a se stessa, avviando un doloroso processo di scissione della sua personalità.
I desideri, nonostante vengano espressi, mantengono una apparente innocuità, perché la loro motivazione è coperta. Si può desiderare di abbracciare Nino, perché lo si sente come un fratello. Ma il desiderio camuffato può essere aggressivo, ove l’oggetto sia la sorella rivale: «Ella ha magnifiche treccie castagne; e tutti i giorni, quando le sciolgo i capelli per pettinarla, penso al gran peccato che sarebbe se fossero condannati ad essere recisi come i miei». Falsa pietà che mal nasconde una fantasia sadica. Maria pensa ai suoi capelli che verranno sacrificati in occasione della cerimonia di vestizione; e si compensa con l’idea che lei stessa potrebbe recidere la magnifica chioma della sorella. Non sorprende che,