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Il nostro agente in Giudea
Il nostro agente in Giudea
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E-book276 pagine4 ore

Il nostro agente in Giudea

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Info su questo ebook

Quando si sparge la fama di Gesù il Nazireo, e l'eco delle sue azioni arriva a Roma, il potere imperiale decide di farlo diventare una pedina in più del suo gioco strategico in Giudea. Le sette che si oppongono al potere di Tiberio in nome del Dio d'Israele sono violente e irriducibili, e un messia pacifico potrebbe essere utile agli interessi romani. Per seguire i suoi passi e controllarlo viene inviato un fedele servitore dell'impero, Lucio Valerio Adunco, e Gesù si converte, a sua insaputa, in uno strumento del grande gioco politico, ma il suo destino precipiterà inatteso, deluderà i piani di Roma e cambierà il corso della storia.
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Valerio Massimo Manfredi (Panorama): “La sua è, ovviamente, la risposta di un laico che considera Gesù esclusivamente come personaggio storico, ma la vicenda che racconta, sostanzialmente la cronaca di una grande operazione di politica internazionale, è un'avventura appassionante.”
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Armando Massarenti (Il Sole-24Ore): “I Vangeli diventano lo sfondo per una intrigante storia di spionaggio, nella quale però ambienti, personaggi e strategie di dominio sono ricostruiti con tale plausibilità da spingere il lettore a credere che la ricostruzione sia perlomeno possibile: visto anche il fatto che questo Gesù, proprio come nelle ricostruzioni storiche, non fa miracoli.”
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Ettore Botti (Il Corriere della Sera): “Gesù, strumento inconsapevole e tuttavia utilissimo alla causa dell’occupazione imperiale... È l'ipotesi dalla quale si sviluppa l'ultima, suggestiva opera di Franco Mimmi, romanzo storico e politico abilmente costruito secondo le sequenze di un giallo.”
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Giovanni Serafini (Il Resto del Carlino): “Spicca per l'originale interpretazione degli avvenimenti su cui poggia la struttura narrativa... per la grande precisione dei riferimenti storici e culturali... per lo stile rigoroso ma non asettico, aderente alle situazioni emotive, e tuttavia dotato del distacco e del respiro indispensabile alla libertà di giudizio.”
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Paolo Romani (Famiglia Cristiana): “L’autore di questo thriller politico naviga con abilità nelle pieghe nascoste della storia e delle fonti evangeliche, e fino all’ultimo tiene il lettore col fiato sospeso proponendo una stupefacente interpretazione dell’avventura terrestre, della morte e della resurrezione di Gesù.”
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Generoso Picone (Il Mattino): “Cristo ignoto, come dice qualche teologo, ma eccezionale figura dalla trasparenza cristallina che Mimmi rende con capace maestria, mettendolo al centro di un meccanismo che il mondo in altri e minori termini ha ben imparato a perpetuare.”
LinguaItaliano
Data di uscita10 gen 2015
ISBN9786050348040
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    Il nostro agente in Giudea - Franco Mimmi

    Franco Mimmi

            IL NOSTRO AGENTE IN GIUDEA

                                                                                                                         A Teresa

    - Il suo racconto è estremamente

              interessante, professore, anche se non

                                   corrisponde affatto a quanto raccontano i vangeli.

                     - Per carità- ridacchiò con condiscendenza 

    il professore, - lei più di tutti deve pur

    sapere che niente di quanto è scritto nei

                   vangeli è mai successo; se cominciamo a

                              considerare il vangelo come una fonte storica...

                 - Sono d'accordo - rispose Berlioz, - ma

                          temo che nessuno ci potrà confermare che

                           quello che lei ci ha raccontato è avvenuto

    per davvero.

    Michail Bulgakov

    Il Maestro e Margherita

    I

    Si chiama Gesù, disse il sommo sacerdote, Gesù detto il Nazireo.

    Il prefetto della Giudea scosse la testa. Non so, Caifa, non mi sembra una buona idea. Voi giudei siete molto sottili, certo più di noi romani, che siamo un popolo pratico, ma qualche volta esagerate in finezza. Se il tuo popolo vuole ribellarsi ancora, faccia pure: sa già che cosa lo aspetta.

    Giuseppe detto Caifa che significa la buona vita, il sottile politico, il potente sommo sacerdote, sentì - nonostante il caldo torrido che gravava su Cesarea in quei primi giorni dell'autunno - che un brivido gli correva lungo la spina dorsale. I metodi con cui il prefetto romano aveva mantenuto la pace nella indomita provincia di Giudea erano infatti ben noti fin dal momento del suo arrivo: per conoscerli bastava salire su una collina al centro di Gerusalemme, sempre irta dei pali delle croci alle quali venivano appesi i sobillatori e i rivoltosi.

    Si diceva che dopo tre anni dall'arrivo del prefetto la regione scarseggiasse ormai di olivi, tanti ne erano stati abbattuti per i supplizi, e la collina sulla quale venivano eseguite le crocifissioni si era guadagnata l'appellativo macabro e sarcastico al tempo stesso di Golgota, parola aramaica che definisce il cranio umano, non tanto per la sua forma quanto perché biancheggiava dei teschi dei giustiziati.

    Caifa chinò il capo. Come vuoi tu, Prefetto, disse.

    L'altro ebbe un gesto d'irritazione. Quando mi chiami con il titolo anziché per nome, disse, so che devo aspettarmi qualcosa di sgradevole. È sempre stato così, fin dal nostro primo incontro.

    Deciso a far osservare le leggi d'occupazione e a mantenere l'ordine in Giudea, pochi giorni dopo il suo arrivo Pilato era entrato in Gerusalemme portando con sé da Cesarea trecento cavalieri idumei: un numero eccessivo per una scorta, sicché poteva solo significare una minaccia. I cavalieri, poi, portavano sulle insegne l'immagine dell'imperatore, che era anche un dio e dunque, per gli ebrei monoteisti, un idolo inaccettabile.

    Tutti i governatori precedenti avevano preferito rispettare le convinzioni religiose locali per evitare le reazioni di quelle teste calde, ma Ponzio Pilato giungeva con le consegne di Lucio Elio Seiano, onnipotente prefetto del pretorio e suo grande protettore, che detestava gli ebrei e gli aveva raccomandato di usare con loro la mano dura. Entrò in Gerusalemme con le immagini di Tiberio Cesare Augusto sulle insegne e annichilì ogni tentazione di sommossa: raddoppiò la guardia attorno al palazzo nel quale si ospitava e schierò i cavalieri attorno alla Fortezza Antonia, dove era acquartierata la coorte di guarnigione alla città.

    Sette giorni dopo aveva ripreso la strada di Cesarea Marittima, e una delegazione formata da cittadini prominenti, sadducei e farisei, lo aveva seguito. Per cinque giorni il prefetto respinse le loro richieste di essere ricevuti, poi li convocò nel meraviglioso anfiteatro che Erode il Grande aveva fatto costruire sulla spiaggia e con la mano mostrò loro i legionari che, schierati attorno al palcoscenico, li circondavano.

    Chi è il capo? chiese Pilato.

    Caifa fece un passo avanti. Sono Giuseppe Caifa, il sommo sacerdote, disse, mi ha nominato dieci anni fa il tuo predecessore Valerio Grato.

    Lui ti ha nominato e io posso destituirti. E posso fare anche di più: farvi crocifiggere tutti, qui e ora, se non ve ne tornate a Gerusalemme dimenticando le vostre stupide lamentele.

    Caifa abbassò la testa. Va bene, prefetto disse.

    Pilato sorrise, sdegnoso. Vedo che sei un uomo saggio, Caifa. Andatevene, adesso.

    Caifa tornò a guardarlo negli occhi. No, prefetto, disse, non ce ne andiamo, puoi dare ai tuoi uomini l'ordine di ucciderci.

    Pilato era amico di Seiano e si diceva che Seiano fosse onnipotente, ma l'imperatore Tiberio era più potente ancora e non avrebbe perdonato una condanna non solo ingiusta ma inutile, e anzi pericolosa. Così Caifa aveva vinto il loro primo scontro: il prefetto aveva promesso che i suoi soldati, prima di entrare a Gerusalemme, avrebbero sempre rimosso l'immagine dell'imperatore dalle insegne.

    Ma Pilato non era uomo da rimanere in debito. Era passato poco più di un anno quando trovò una magnifica occasione per saldarlo nella scarsità di acqua di cui soffrivano gli abitanti di Gerusalemme: fece disegnare un nuovo acquedotto e coprì le spese mandando i soldati a razziare il tesoro del tempio. Così, per la seconda volta, Caifa era andato a Cesarea e aveva chiesto udienza al prefetto, che questa volta lo aveva ricevuto subito e con grande cortesia. Non avrete da lamentarvi, io spero, dopo quello che ho fatto per voi.

    Caifa era infuriato ma sapeva di non poterselo permettere, e di nuovo aveva trovato la forza per rispondere con moderazione: Il nostro tempio, prefetto, non è come i vostri: non è solo la casa del nostro Dio, che è l'unico Dio, ma anche la nostra casa e la nostra storia. Il suo tesoro è sacro e tu lo hai portato via. Come chiami, tu, una simile azione?

    Necessità, Caifa, la chiamo necessità, rispose il prefetto sospirando. La tua gente aveva bisogno d'acqua, implorava l'acqua, ma non voleva pagarla. Avresti preferito vederla morire di sete? O rinunciare alle copiose abluzioni rituali vostre e degli altari del tempio? Che ci posso fare, Caifa, se qui nessuno vuole pagare le tasse?

    E questa volta a tacere era stato il sommo sacerdote, perché sapeva che il rimprovero del prefetto era fondato e ormai aveva rinunciato a fargli capire che non era un problema economico ma religioso: che gli ebrei non volevano pagare le imposte a Cesare perché tutto ciò che esiste è di Dio, e solo a lui, e non a un re che pretende di essere anche un Dio, si deve pagare quanto gli è dovuto, o si commette sacrilegio. Così era tornato a Gerusalemme e aveva spiegato al Sinedrio e al popolo che questa volta non ci sarebbero state scuse, non ci sarebbe stata riparazione.

    Allora le strade si riempirono di gente, e invano Caifa e gli altri sadducei tentarono di placare gli animi ricordando le migliaia di vittime che avevano pagato con le torture e la vita le sommosse precedenti. Infuriati, sobillati dagli esseni che avevano lasciato il loro quartiere presso il Monte Sion per mescolarsi alla folla, aizzati dagli zeloti che subito erano accorsi dai loro accampamenti nel deserto, moltiplicati dai numerosi gruppi provenienti dalla Galilea e dalla Samaria, dalla Perea e dalla Giudea, gli abitanti di Gerusalemme si riversarono come un fiume lungo le strade che si arrampicavano verso il Tempio, resistettero ai legionari romani che cercavano di rompere gli assembramenti e costringere la gente nelle loro case, si ammucchiarono davanti alle mura della Fortezza Antonia, gridarono il loro odio agli uomini di quel re che non era il loro re perché solo Dio è Signore di Israele.

    Era quanto Pilato si aspettava e desiderava. Immediatamente un messo partì per annunciare a Roma l'ennesima rivolta dei giudei, la necessità di reprimerla con qualsiasi mezzo. Folti gruppi di soldati, scelti soprattutto fra gli ausiliari perché il loro aspetto fosse più simili a quelle dei locali, avevano cambiato l'uniforme con abiti normali: entrarono in città da tutte le porte, si mescolarono alla folla e al segnale convenuto trassero di sotto i mantelli le loro daghe e i loro pugnali. Prima ancora di capire da dove arrivasse la morte gli ebrei caddero a decine, a centinaia, e mentre si sbandavano i legionari uscirono dalla Fortezza Antonia e presero a inseguirli in ogni strada, in ogni vicolo, fin dentro le case. La rivolta era finita, Pilato aveva vinto la seconda battaglia.

    Il prefetto credeva di avere vinto anche la guerra, ma presto dovette ammettere che non era così: con allarmante frequenza, infatti, continuavano a scoppiare delle sommosse non solo a Gerusalemme ma in tutto il paese. Spesso gli istigatori erano dei galilei, di cui ormai anche Pilato, sebbene parlasse solo poche parole dell'aramaico in cui essi si esprimevano, aveva imparato a riconoscere il pesante accento, e tuttavia il centro dei focolai non era quella fertile regione ma il deserto della Giudea, che sembrava esercitare sui ribelli una attrazione di cui il prefetto non riusciva a capire né l'origine né la ragione. La guerriglia era incessante e naturalmente, nonostante qualche vittoriosa imboscata tesa dai ribelli ai legionari, assai più cruenta per i giudei che per i romani, i quali non esitavano a reprimere nel sangue la più insignificante delle chiassate e ad appendere alle croci quanti fossero sfuggiti alle loro spade.

    Però i repressi sembravano moltiplicare in quelle carneficine le loro forze e il loro numero, pronti a seguire il primo fanatico che uscisse dal deserto affermando di esservi stato consacrato da Dio capo di una nuova rivolta. Il prefetto capì che se non voleva continuare a mandare a Roma dei rapporti che gli rendevano assai poco onore, poiché lo facevano sembrare incapace di stabilire un ordine autentico e duraturo, doveva trovare un accordo almeno con una parte della popolazione locale, e si accordò con Caifa. Chi più dei sadducei, infatti, aveva interesse alla pace? Era da quel partito che uscivano i grandi sacerdoti, e a quel partito appartenevano le famiglie più ricche e influenti. Insomma: i sadducei erano la classe privilegiata, e come tale la più interessata a una tranquilla stabilità che garantisse i loro privilegi e favorisse i loro affari.

    Nonostante le frizioni che avevano caratterizzato i loro primi rapporti, Pilato e Caifa trovarono facilmente un accordo e le cose migliorarono sensibilmente, ma le rotte del deserto rimasero insicure e di tanto in tanto scoppiava ancora qualche tafferuglio che spesso si trasformava in qualcosa di più grosso. Allora gli ulivi venivano abbattuti a decine, per fornire le croci di una punizione esemplare.

    Pilato si alzò dallo scranno e uscì sulla terrazza che dava al mare. Il sole si rifletteva sui marmi bianchi del palazzo che Erode il Grande aveva fatto costruire per sé quando, cinquant'anni prima, aveva fondato la città alla quale poi avrebbe dato nome Cesarea, in onore di quel Cesare Augusto che pur essendo il padrone del mondo mai aveva voluto essere chiamato imperatore, eppure aveva concesso a lui di essere re. Odio questa città, pensò Pilato. E poi si concesse la verità e aggiunse: Odio questa gente.

    Con le mani bendate di lino sollevò un lembo della veste per proteggere il capo, ormai semicalvo, dal sole del mezzogiorno. Il riverbero sull'ondulazione dell'acqua gli faceva socchiudere gli occhi, lo strido degli uccelli marini gli feriva l'udito e lo infastidiva, perché gli ricordava luoghi lontani e rimpianti. Vide una figura bianca, abbacinante, che avanzava lungo il bagnasciuga, e due ombre scure che la seguivano a poca distanza: sua moglie Claudia Procula con i due legionari che le facevano da guardia del corpo. È sola, pensò, è sempre sola. Lo è da quando ci siamo sposati, e ormai sono più di vent'anni. Vent'anni di matrimonio! Un vero primato, per una coppia romana!

    Come sempre, quando i suoi pensieri finivano su Claudia, ogni altra cosa sembrava svanire dalla sua mente per lasciarlo immerso in una sottile angoscia. Quella era la fanciulla che aveva amato fin da fanciullo, nella loro cittadina di Velletri; quella era la donna che aveva sposato per renderla felice, e che aveva sempre aveva reso infelice. Se solo potessi..., pensò il prefetto. Ma sapeva che non poteva.

    Si voltò e affrontò di nuovo il sommo sacerdote, che lo aveva atteso pazientemente senza uscire dal riparo dell'ombra. Torna a spiegarmi tutto, Caifa. Il prefetto di Giudea è uno stupido, il sommo sacerdote dovrà ripetergli tutta la storia e spiegargliela bene. Allora, Gesù detto... Come demonio hai detto che si fa chiamare?

    Caifa ignorò la bestemmia. Il Nazireo, disse.

    Il Nazireo, ripeté ancora una volta Pilato, quasi stolidamente. Sfregò una contro l'altra le mani bendate di lino, ma non fu sufficiente a sedare il terribile prurito che da qualche tempo lo affliggeva. Bastò un breve gesto del prefetto e due schiavi apparvero, uno portando un bacile d'argento, l'altro una brocca. Appoggiarono il bacile su un piccolo tavolo rotondo di marmo e lo riempirono di acqua profumata, nella quale Pilato immerse immediatamente le mani senza neppure sfasciarle. Lo fece poi a poco a poco, e Caifa dovette fare appello a tutta la sua forza d'animo per reprimere una smorfia di disgusto davanti a quel segno così evidente di impurità: erano rosse ovunque, piagate sul dorso, e attorno alle unghie la pelle si era gonfiata mostruosamente.

    Il prefetto tornò a immergerle nel liquido balsamico, poi le porse a uno degli schiavi perché gliele fasciasse con grande delicatezza con bende pulite. Solo allora sembrò ricordarsi che il sommo sacerdote era ancora lì con lui, e gli si rivolse ostentando grande indifferenza.

    Hai visto, no? È incominciato qualche mese fa e va peggiorando. Il mio medico greco ha una strana teoria, che assomiglia più alla stregoneria che alla medicina: sostiene che mi fanno male i pensieri, e soprattutto i pensieri dei giudei.

    Vuoi dire che sei oggetto di una specie di sortilegio? chiese Caifa sorridendo.

    Il prefetto scosse la testa. No, sacerdote, sono i miei stessi pensieri che mi fanno ammalare, soprattutto quando penso a voi e ai fastidi che mi date continuamente.

    L'altro si strinse nelle spalle. Tu sai bene che noi sadducei facciamo il possibile per mantenere la pace, disse.

    È vero, Caifa, ammise Pilato, voi fate il possibile, ma a quanto pare è insufficiente. Avanti, torna a spiegarmi il tuo sottilissimo piano e il ruolo di questo Gesù . Innanzitutto: che vuol dire Nazireo?

    Senza essere invitato a farlo Caifa si sedette, sospirando. Non era facile essere amico dei romani, o almeno di quel romano, che sembrava incapace di apprendere le nozioni più semplici sul popolo che doveva amministrare, e per l'ennesima volta da quando si era instaurato il loro faticoso ma indispensabile sodalizio si sforzò di dare una lezione al procuratore di Cesare senza che quello avesse l'impressione di riceverla.

    Nazara è la verità, disse Caifa, e nazireo è colui che porta in sé la verità. È gente semplice e durissima al tempo stesso: vogliono raggiungere uno stato di purezza e santità, e per questo sono assai parchi nel mangiare, non bevono vino, non si tagliano mai i capelli. Tu sai chi era Sansone?

    Anche Pilato si sedette, ma senza cercare l'ombra: teneva gli occhi chiusi e la faccia alzata verso il sole, come se volesse farsi stordire dal calore. Il terribile fastidio alle mani si era attenuato e il prefetto si lasciava avvolgere dal sollievo, disposto alla benevolenza e persino a interessarsi a una di quelle innumerevoli storie che i giudei si raccontavano continuamente e sulle quali spesso discutevano fino al litigio. Fece un cenno perché uno schiavo portasse del vino, e disse: No, Caifa, non lo so, dimmelo tu.

    Il sommo sacerdote gli narrò brevemente la storia di un eroe vissuto mille anni prima, tanto forte da uccidere da solo, armato di una mascella d'asino, più di mille filistei, perché la fedeltà al suo voto di nazireo faceva sì che con i capelli crescesse anche la forza. Ma l'amore per una donna venduta ai filistei lo tradì: nel sonno ella gli tagliò i capelli, e i suoi nemici poterono catturarlo e accecarlo.

    Un triste finale, disse il prefetto gustando il vino e alcuni datteri.

    Caifa accettò i secondi e rifiutò il primo. Triste per tutti, disse, perché i capelli ricrebbero e Sansone fece crollare le colonne del tempio di Dagon seppellendoci sotto se stesso e migliaia di filistei.

    Abbiamo anche noi storie così, disse Pilato con noncuranza, molto utili per la morale del popolo. E questo Gesù è tanto forte da far crollare qualche tempio?

    Preso alla sprovvista, Caifa ebbe la visione del Tempio in rovina: il meraviglioso Tempio di Gerusalemme che Erode aveva fatto erigere in luogo di quello modesto costruito dal popolo ebreo cinquecento anni prima, al ritorno dall'esilio in Babilonia, ridotto in macerie. Fece un gesto brusco con la mano, come per allontanare quella visione. Ma no! esclamò. Tutto il contrario! Proprio in questo consiste il piano. Lui ci aiuterà.

    Gesù il Nazireo, disse Pilato.

    Proprio lui, disse il sommo sacerdote.

    Il prefetto della Giudea sospirò e si mise le mani sotto le ascelle, premendole tra il corpo e le braccia, perché sentiva che il sollievo delle abluzioni balsamiche stava scomparendo.

    Va bene, Caifa, disse, torna a spiegarmi tutto.

    II

    Gesù si sedette su un masso a riposare, si tolse i sandali per farne cadere alcuni sassolini e poi, dopo essersi massaggiato i piedi per qualche minuto, tornò a calzarli e riprese il cammino. Era l'alba: i pescatori che si avviavano a incominciare la giornata di lavoro sul Mare di Galilea lo salutavano con un cenno del capo o gli auguravano il buon giorno chiamandolo per nome. La strada si faceva via via più ripida, tanto che lo sguardo ormai non incontrava più davanti a sé, lontana, la linea dell'orizzonte, ma la strada stessa, vicinissima.

    Dopo un'altra ora di cammino attraverso un paesaggio fitto di oliveti si fermò di nuovo e alzò gli occhi verso la cima della montagna. Da lì si staccava uno sperone che formava una gobba, sicché il profilo del monte richiamava quello di un cammello e questo aveva dato il nome - Gamala - al grosso villaggio appollaiato sulle pendici. Il cielo era limpido e specchiato, era troppo presto persino per i grandi avvoltoi che durante la giornata lo percorrevano pigramente per poi tuffarsi all'improvviso su qualche preda in una delle tante valli fiorite che si alternavano alle alture della Gaulanitide, ma quando giunse a casa, una delle prime della cittadina, trovò sua madre già alzata, intenta a alimentare la fiamma per scaldare il forno.

    Maria alzò gli occhi e sorrise. Così ti hanno lasciato andare, disse, la notizia è arrivata ieri, ma non sapevo se crederci.

    L'uomo appoggiò al muro il lungo bastone da viaggio, si tolse il mantello e si sedette su uno sgabello, con la schiena al muro. Sciolse la cordicella attorno alla fronte che teneva ferma la pezzuola bianca a riparo del sole e passò tra i capelli e tra i peli della barba, per scioglierne gli intrichi, le lunghe dita nodose segnate dagli incidenti del suo mestiere.

    Questa volta sì, mi hanno rilasciato, disse, ma non so perché. D'altra parte neppure sapevo perché mi avessero arrestato, sicché non ha importanza.

    Prese dalle mani della madre un pane rotondo e piatto unto d'olio d'oliva e incominciò a mangiarlo avidamente, ma si fermò per alzarsi a baciare sulla fronte le due ragazze che erano entrate silenziosamente e lasciò loro sulla pelle una impronta oleosa che poi cancellò con il polpastrello del pollice, mentre le due sorelle ridevano. Andarono a aiutare la madre, che lasciò la fiamma e si rivolse al figlio. Torneranno a arrestarti, disse tranquillamente.

    Gesù si strinse nelle spalle. Forse no, disse, e in ogni caso non smetterò per questo.

    O forse, disse Maria, saranno gli zeloti a portarti nel deserto.

    Il figlio la guardò, passandosi di nuovo le dita nella lunga barba nera nel gesto che gli era abituale. È venuto Menahem? chiese infine.

    Lei fece cenno di sì, ma non proseguì. Ecco Giuseppe, disse, lui ti spiegherà meglio.

    Tornò al forno e incominciò, aiutata dalle figlie, a mettere sui mattoni caldi i cerchi di pasta che aveva preparato, mentre i due fratelli si abbracciavano. Gesù chiese a Giuseppe - il terzo dei fratelli, che da tempo viveva a Cafarnao - come stessero sua moglie e i bambini, poi gli chiese di Menahem. L'altro negò con la testa. Io non l'ho visto, disse, ha parlato con Giacomo, che poi me lo ha raccontato. Ma eccolo che arriva, lui ti dirà.

    Entrava infatti un terzo uomo, che ricordava con evidenza gli altri due negli occhi marroni e nella bella faccia di colore bruno chiaro dai tratti decisi. Come gli altri due portava baffi e barba. I capelli neri lunghi fino alle spalle, divisi in due bande al centro della testa, erano lisci e unti di olio come quelli di Giuseppe, mentre la capigliatura di Gesù era arruffata e polverosa per il viaggio. Giacomo viveva nella casa accanto, con sua moglie e le due figlie, mentre Simone e Giuda, i due fratelli più giovani, abitavano ancora con la madre, le sorelle e il primogenito, e infatti apparvero sollevando la tenda che faceva da porta alla loro stanza. I saluti e l'augurio di pace si ripeterono, poi i cinque uomini uscirono e andarono nella bottega di carpentiere che stava sotto una tettoia sul retro della casa. Gesù si sedette sull'unico sgabello, gli altri si accoccolarono al suolo.

    Com'è stato? chiese Simone.

    Il fratello maggiore si strinse nelle spalle. Niente di drammatico, disse, "sai bene che le nostre guardie, in confronto ai romani,

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