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Il generale di Roma
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E-book607 pagine8 ore

Il generale di Roma

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Info su questo ebook

EDIZIONE SPECIALE: CONTIENE UN ESTRATTO DEL NUOVO ROMANZO

La storia del generale che divenne imperatore

Un grande romanzo storico di Roberto Fabbri

34 d.C. La rivolta infiamma le province dell’Impero. Solo un uomo può riportare la pace: Vespasiano.

Vespasiano è lontano dalla capitale, a sedare le rivolte che insanguinano le province dell’Impero.
Ma la tremenda carestia che sta affamando i cittadini romani e l’assurda gestione del potere di Tiberio lo costringono a tornare nell’Urbe, dove la situazione sta precipitando. E quando sul trono sale Caligola, il nuovo imperatore si rivela perfino peggiore del predecessore. La sua distorta personalità si manifesta, giorno dopo giorno, in un crescendo di sanguinaria pazzia, seminando il panico per le vie di Roma. La sua ultima follia è quella di voler costruire un ponte sul Golfo di Napoli e attraversarlo con la mitica corazza di Alessandro Magno indosso. E proprio a Vespasiano tocca raggiungere tra mille peripezie Alessandria d’Egitto per recuperare il prezioso cimelio: una missione pericolosa e violenta, che si conclude con un drammatico e inatteso tradimento…

Dall'autore de Il tribuno e Il giustiziere di Roma

Hanno scritto dei suoi libri:

«Un nuovo e promettente personaggio dell'antica Roma.»
Thriller Magazine

«È uno straordinario romanzo storico. Cos'altro posso dire? Aspetto il prossimo volume della serie!»
Goodreads

«Le scene d'azione sono raccontate con grande abilità... È bello trovare un autore che, quando parla di battaglie, non si sottrae alla mischia.»
Amazon
Roberto Fabbri
È nato a Ginevra e vive tra Londra e Berlino. Per venticinque anni ha lavorato in produzioni televisive e cinematografiche. La sua passione per la storia, in particolare per quella dell’antica Roma, lo ha spinto a scrivere la serie dedicata all’imperatore Vespasiano, di cui la Newton Compton ha già pubblicato: Il tribuno, Il giustiziere di Roma, Il generale di Roma e Il re della guerra.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854163560
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    Anteprima del libro

    Il generale di Roma - Roberto Fabbri

    655

    Titolo originale: False God of Rome. Vespasian III

    Copyright © Robert Fabbri, 2013

    The moral right of Robert Fabbri to be identified

    as the author of this work has been asserted

    by him in accordance with the Copyright,

    Designs and Patents Act of 1988.

    Traduzione dall’inglese di Giampiero Cara

    Prima edizione ebook: febbraio 2014

    © 2014 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-6356-0

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Grafica: Alessandro Tiburtini

    Immagine di cover: © Tim Byrne

    Roberto Fabbri

    Il generale di Roma

    mappa_generale.tif

    La parte orientale dell’Impero romano nel

    I

    secolo d.C.

    Per Anja Müller, senza la quale tutto questo non sarebbe accaduto. Vuoi sposarmi, amore mio?

    PROLOGO

    Gerusalemme, aprile del 33 d.C.

    Un brusco bussare alla porta svegliò di soprassalto Tito Flavio Sabino, che aprì subito gli occhi. Momentaneamente inconsapevole di dove si trovasse, sollevò di scatto la testa dallo scrittoio e si guardò intorno nella stanza. La luce smorzata del sole calante, che filtrava attraverso una stretta finestra aperta, gli bastò per scorgere l’ambiente poco familiare: il suo studio nella torre della Fortezza Antonia. Fuori dalla finestra, il Tempio si stagliava nel cielo, dominando il panorama. Le sue alte mura bianche, ricoperte di marmo, rilucevano del rosso tipico della sera, mentre la foglia d’oro che adornava il tetto rifletteva la luce del tramonto. Le dimensioni dell’edificio più sacro dei Giudei facevano quasi scomparire le enormi colonne che sostenevano l’ampia corte quadrangolare circostante; queste, a loro volta, trasformavano in formiche le moltitudini di persone che correvano su e giù lungo il vasto cortile colonnato.

    Quella sera l’odore penetrante del sangue di migliaia di agnelli, macellati, all’interno del complesso templare per il pasto pasquale, permeava l’aria fredda della stanza. Sabino rabbrividì; il breve sonno lo aveva raffreddato.

    La bussata si fece più insistente.

    «Questore, sei lì dentro?», gridò una voce dall’altro lato della porta.

    «Sì, entra», urlò Sabino di rimando, sistemando in fretta i papiri sullo scrittoio in modo da far credere di essere stato immerso in un diligente lavoro, invece che intento a schiacciare un pisolino pomeridiano per riprendersi dal viaggio di due giorni da Cesarea, la capitale provinciale della Giudea.

    La porta si aprì; un centurione ausiliario entrò a passo di marcia e scattò sull’attenti davanti allo scrittoio, tenendo stretto sotto il braccio sinistro l’elmo con il pennacchio di traverso. «Centurione Longino della Cohors Prima Augusta a rapporto, signore», urlò. Gli anni di servizio in Oriente gli aveva abbronzato e raggrinzito il viso, ormai simile a cuoio vecchio.

    «Cosa c’è, centurione?»

    «Due ebrei chiedono un’udienza con il prefetto, signore».

    «Allora portali da lui».

    «Sta cenando con un principe giudeo di Idumea e alcuni Parti appena arrivati in città, e ha detto che dovresti sbrigartela tu con loro. Lui è ubriaco come un legionario in licenza».

    Sabino grugnì; da quando era stato mandato in Giudea, dieci giorni prima, per verificarne le entrate tributarie per ordine del suo superiore – il governatore della Siria, che esercitava l’autorità suprema sulla Giudea – aveva già avuto abbastanza a che fare con il prefetto Ponzio Pilato da rendersi conto della veridicità di quell’ultima affermazione. «Di’ loro di tornare domattina, quando il prefetto sarà più avvicinabile», disse in tono perentorio.

    «L’ho fatto, signore, ma uno di loro è un malchus, un capitano della Guardia del Tempio mandato dal sommo sacerdote Caifa; ha detto con molta insistenza di essere in possesso di informazioni su qualcosa che dovrebbe accadere questa sera, dopo il pasto di Pasqua».

    Sabino sospirò; pur essendo nuovo della provincia, aveva appreso abbastanza delle complesse lotte politiche tra i turbolenti sudditi di Roma da sapere che Caifa doveva la sua posizione al favore dei Romani, ed era pertanto la cosa più simile a un alleato che si potesse aspettare di trovare tra la popolazione ebraica perlopiù ostile di quell’infiammabile città. Tra l’altro, visto che pullulava di pellegrini, sarebbe stato un errore diplomatico contrariare un alleato proprio durante la Pasqua che lui e il prefetto erano venuti entrambi a Gerusalemme a sorvegliare.

    «Va bene, centurione, falli salire».

    «È meglio se scendi tu, signore, così possiamo tenerteli a distanza». Longino tirò fuori dalla cintura due corti coltelli curvi. «Questi li abbiamo trovati nascosti negli abiti dell’altro uomo».

    Sabino prese i coltelli e ne esaminò le lame affilate come rasoi. «Cosa sono?»

    «Siche, signore; ciò significa che chi le portava è un membro dei Sicarii».

    Sabino guardò il centurione con espressione neutra.

    «Sono assassini religiosi, signore», continuò Longino a mo’ di spiegazione. «Credono di fare la volontà del loro dio eliminando coloro che considerano impuri e blasfemi, ovvero praticamente chiunque non faccia parte della loro setta. Non esiterebbe a ucciderti, anche a costo di morire lui stesso nel tentativo. Credono che, se muoiono compiendo un lavoro sacro, quando finalmente apparirà il messia che attendono da secoli saranno resuscitati insieme agli altri giusti defunti, in quella che chiamano la fine dei tempi, in modo da poter vivere poi per sempre in un paradiso terrestre governato dalle leggi del loro dio».

    «Gli Zeloti, in confronto, sembrano persone ragionevoli», osservò Sabino, alludendo alla setta giudaica che, fino a quel momento, gli era sembrata il più irragionevole gruppo di estremisti religiosi di cui avesse mai sentito parlare.

    «Non esiste la ragione in questo buco di culo dell’impero».

    Sabino fece una pausa per riflettere sulla veridicità di quell’affermazione. «E va bene, centurione, scenderò io. Va’ ad annunciarmi».

    «Sissignore!». Longino salutò e uscì dalla stanza a passo di marcia.

    Sabino scosse la testa; arrotolò i papiri contenenti la verifica delle entrate tributarie dell’anno precedente che prima lo aveva fatto assopire, si aggiustò la toga e lo seguì. Anche se offendeva la sua dignitas scendere a incontrare dei Giudei invece di farli portare al proprio cospetto, conosceva abbastanza la loro natura da ritenere saggio seguire il consiglio di quell’esperto centurione; di certo non voleva cadere vittima di un religioso fanatico e suicida.

    «Mi chiamo Gaio Giulio Paolo», annunciò il più basso dei due ebrei con tono impaziente, mentre Sabino entrava nella grande sala della fortezza. «Sono cittadino romano e capitano della Guardia del Tempio, e ho chiesto di vedere il prefetto, non il suo subordinato».

    «Il prefetto è indisposto, quindi parlerai con me», replicò Sabino in tono brusco, prendendo subito in antipatia quel piccolo ebreo arrogante dalle gambe arcuate. «E dovrai mostrare il rispetto dovuto al mio rango di questore del governatore della Siria, il diretto superiore del prefetto della Giudea. Altrimenti, cittadino o no, ti farò cacciare dalla fortezza a frustate».

    Paolo deglutì con forza e si passò una mano sui capelli radi. «Perdonami, questore, non intendevo offenderti», disse con una voce che cominciò all’improvviso a trasudare deferenza. «Porto una richiesta del sommo sacerdote riguardante l’agitatore e blasfemo Yeshua bar Yosef».

    «Non ne ho mai sentito parlare», disse Sabino in tono netto. «Cos’ha fatto?»

    «È un altro di quelli che si dichiarano messia, signore», lo informò Longino. «Abbiamo cercato di arrestarlo per sedizione, dato che ha causato una sommossa quando è arrivato in città, quattro giorni fa. Ha minacciato l’autorità di Cesare dichiarando di essere un re; diverse persone sono state uccise, tra cui tre dei miei ausiliari. Poi ha fatto arrabbiare il sommo sacerdote recandosi al Tempio e offendendo tutti quelli che ha potuto, prima di rovesciare i tavoli dei cambiavalute».

    «Cosa ci fanno dei cambiavalute nel tempio?», chiese Sabino con genuina curiosità.

    «I Giudei pensano che i nostri soldi pecchino di idolatria perché recano impressa la testa di Cesare, quindi hanno il permesso di usare la loro moneta del Tempio per comprare pecore per i sacrifici e cose del genere. I cambiavalute fanno dei buoni profitti sui tassi di cambio, come potrai immaginare».

    Sabino sollevò le sopracciglia; stava smettendo di sorprendersi per qualunque cosa riguardasse quella gente. Si voltò di nuovo verso i due Giudei; il secondo – alto, con una barba folta e i capelli neri oliati che fluivano da sotto il copricapo – restava immobile a fissare Sabino con occhi carichi d’odio. Aveva le mani legate di fronte a sé. Non era un rozzo contadino. La toga a maniche lunghe gli arrivava alle caviglie; era pulita e senza cuciture, tessuta come un unico pezzo di stoffa, alla maniera degli uomini ricchi. L’ottima qualità del mantello bianco e nero che portava sulle spalle rafforzava l’impressione di agiatezza.

    «Cosa c’entra quest’uomo con Yeshua?», chiese Sabino a Paolo.

    «È uno dei suoi seguaci», rispose questi con malcelata avversione. «È stato con lui nei due anni che Yeshua ha trascorso a provocare guai in Galilea. Sostiene che dopo il pasto di Pasqua egli dichiarerà vicina la fine dei tempi; si proclamerà il lungamente atteso Messia e condurrà una rivolta contro Roma e i sacerdoti del tempio. Caifa chiede il permesso del prefetto per arrestarlo per blasfemia e per processarlo davanti al sinedrio, il tribunale religioso; quest’uomo ha detto che ci porterà da lui stanotte».

    Sabino si voltò verso l’altro uomo. «Come ti chiami, giudeo?».

    L’uomo continuò a fissarlo per qualche altro istante prima di degnarlo di una risposta. «Yehudah», disse, raddrizzandosi.

    «Mi dicono che sei un sicario».

    «È un onore servire Dio», replicò Yehudah con tranquillità, in un greco quasi perfetto.

    «Allora, Yehudah il sicario, cosa chiedi in cambio del tradimento dell’uomo che hai seguito per due anni?»

    «Lo faccio per motivi personali, non per la ricompensa».

    «Un uomo di principi, eh?», lo schernì Sabino. «Dimmi perché lo fai, affinché io possa credere che non si tratti di una trappola».

    Yehudah fissò Sabino con occhi inespressivi, prima di distogliere lentamente lo sguardo.

    «Potrei fartelo dire sotto tortura, giudeo», lo minacciò Sabino, spazientendosi per la mancanza di deferenza dell’uomo nei confronti dell’autorità romana.

    «No, non puoi, questore», intervenne subito Paolo. «Offenderesti Caifa e i sacerdoti, che ti hanno chiesto aiuto per arrestare un ribelle. Con più di centomila pellegrini arrivati per la Pasqua, Roma ha bisogno del sostegno dei sacerdoti per mantenere l’ordine; c’è stata già un’insurrezione negli ultimi giorni».

    Sabino fissò la piccola, tozza guardia del Tempio, offeso. «Come osi dire a me, questore romano, cosa posso o non posso fare?»

    «Però ha ragione, signore», gli assicurò Longino. «Non sarebbe bene rifiutare una richiesta di aiuto da parte dei sacerdoti; non è così che si fanno le cose qui, soprattutto perché dobbiamo loro un favore».

    «Per cosa?».

    «Subito dopo la rivolta provocata da Yeshua, ci hanno consegnato gli assassini dei tre ausiliari; uno di loro, un altro Yeshua, Yeshua bar Abbas, è popolare tra la gente quasi quanto il suo omonimo. Ieri, al suo arrivo, il prefetto li ha condannati tutti e tre; saranno giustiziati domani».

    Sabino si rese conto che, con ogni probabilità, Longino aveva ragione: non poteva far altro che acconsentire alla richiesta di Caifa. Lì per lì maledì Pilato per averlo messo in quella posizione trascurando i propri doveri per ubriacarsi; ma poi, riflettendo, pensò che probabilmente era stata proprio la situazione intollerabile di quella provincia a spingerlo a comportarsi in quel modo.

    «Va bene, allora», grugnì. «Dite a Caifa che potete procedere all’arresto».

    «Il sommo sacerdote richiede che un ufficiale romano ci accompagni», replicò Paolo. «Altrimenti non avremmo l’autorità sufficiente».

    Sabino guardò Longino, il quale annuì a quell’affermazione. «D’accordo, verrò con voi. Dove dovremmo incontrarci?».

    Paolo guardò Yehudah. «Diglielo».

    Il sicario sollevò la testa e lanciò uno sguardo sprezzante a Sabino. «Consumeremo il pasto di Pasqua nella parte superiore della città. C’è solo una scala che conduce alla stanza, perciò facile da difendere e scelta proprio per questo; ma in seguito incontreremo nuovi iniziati fuori dalle mura della città. Incontriamoci davanti alla Porta delle pecore all’inizio del secondo turno di guardia e vi porterò da lui».

    «Perché non prenderlo per strada quando lascerà la stanza?»

    «Ci sarà più tranquillità al Getsemani».

    «Hai lasciato che le guardie del tempio prendessero quel sobillatore», ruggì il prefetto Pilato contro Sabino, biascicando le parole, «per farlo processare da altri Giudei come lui. Poi hai lasciato i suoi seguaci armati e liberi di andare a provocare caos a loro piacimento, proprio in un momento in cui questa sporca città è piena zeppa dei fanatici religiosi più militanti che chiunque abbia mai avuto la sventura di soggiogare?»

    «Le guardie del tempio li hanno lasciati andare dopo aver catturato Yeshua; al loro capitano è stato tagliato mezzo orecchio e loro non si sentivano in vena di combattere. E io non avevo altri soldati con me».

    «Perché no?». Gli occhi di Pilato, iniettati di sangue, sporgevano fuori dalle orbite per la rabbia, con il naso a patata da bevitore che riluceva di rosso come un ferro da marchio; goccioline di sudore gli grondavano giù per le guance cadenti. Il rapporto di Sabino sull’arresto di Yeshua lo aveva a dir poco deluso. I suoi tre ospiti per la cena sorseggiavano il vino in silenzio, mentre lui si stravaccava ancora di più sul triclinio massaggiandosi le tempie. Prese la sua coppa, la svuotò con un unico sorso e la sbatté di nuovo sul tavolo, fissando Sabino con astio, per poi rivolgersi a un elegante uomo di mezza età disteso sul triclinio alla sua sinistra.

    «Erode Agrippa, ho bisogno del tuo consiglio. Il questore ha permesso che questo ribelle ci fregasse».

    Erode Agrippa scosse la testa, facendo oscillare i capelli che pendevano in riccioli oliati fino a poco sotto la barba corta, incorniciando una faccia magra dalla mascella compatta che si sarebbe potuta definire bella, se non fosse stato per un naso largo e ricurvo, sporgente come il becco di un falco tra gli occhi scuri. «Hai ragione, prefetto», disse porgendo in modo malfermo la propria coppa a uno schiavo perché la riempisse. «I sacerdoti sono caduti nella trappola di Yeshua senza…». Si fermò quando lo schiavo gli versò del vino sulla mano tremante. «Eutiche! Sei inutile quasi quanto il questore qui presente. Vattene!».

    Sabino rimase in piedi a fissare con cipiglio davanti a sé, senza cercare di nascondere la propria avversione per Erode.

    «Nel nostro Paese un uomo perderebbe gli occhi per l’incompetenza dimostrata dal questore», disse il più vecchio dei due uomini distesi alla destra di Pilato, accarezzandosi la lunga barba arricciata.

    Erode scagliò la coppa verso lo schiavo che si ritirava. «Purtroppo, Sinnace, qui non hanno la stessa libertà che c’è in Partia di assegnare meritate punizioni agli idioti».

    Sabino lanciò uno sguardo velenoso a Erode. «Ti ricordo, giudeo, che sono un senatore, quindi sta’ attento a quel che dici». Si rivolse di nuovo a Pilato. «I sacerdoti ci hanno offerto l’opportunità di arrestare quest’uomo, perciò ho agito di mia iniziativa, dato che tu non volevi occuparti della faccenda perché… impegnato altrimenti».

    «Non ero impegnato altrimenti: ero ubriaco, e ora lo sono ancor di più. Ma anche in queste condizioni avrei saputo riportare quel pazzo qui in mani romane, e non lasciare che i Giudei lo prendessero, indipendentemente da quanti maledetti sacerdoti avrei turbato. Che vadano tutti al diavolo, questore. Mi senti? Vaffanculo a tutti quanti».

    «Ma i sacerdoti lo processeranno e lo giudicheranno colpevole; è nel loro interesse farlo», argomentò Sabino.

    «Lo stanno già processando, e non vedono l’ora di poterlo condannare a morte; a tal punto che hanno persino trasgredito lo Shabbat di Pasqua per farlo subito. Caifa mi ha inviato un messaggio chiedendomi di arrivare al palazzo la mattina presto per confermare la sentenza prima della lapidazione».

    Sabino guardò il suo superiore senza comprendere. «E allora? Qual è il problema?».

    Pilato sospirò, esasperato. Chiuse gli occhi e si passò entrambe le mani tra i capelli, tirando indietro la testa. «Sei nuovo in questo squallido posto, quindi cercherò di spiegartelo con parole semplici», disse con una certa condiscendenza. «Per tua stessa ammissione, nel rapporto che mi hai presentato si capisce che Yeshua ha organizzato il proprio arresto, mandando Yehudah a consegnarlo ai sacerdoti perché voleva che loro lo giudicassero colpevole, non noi. Grazie alla sua popolarità presso la gente comune, sta cercando di farla ribellare contro i sacerdoti e tutta la gerarchia del tempio che lo condanneranno a morte, così come contro Roma che confermerà la sentenza. Con una colossale ingenuità hai permesso a Yeshua di scavare un solco tra il popolo e l’unico potere che rispetta: quello dei sacerdoti, che devono la loro posizione a Roma, e pertanto non hanno nulla da guadagnare da una rivolta».

    All’improvviso Sabino si rese conto della gravità del suo errore di giudizio. «Se invece noi lo condannassimo, i sacerdoti potrebbero rivolgere un appello alla calma e aspettarsi di essere ascoltati; e questo, insieme a una dimostrazione di forza da parte nostra, dovrebbe bastare a sedare una rivolta».

    «Proprio così», disse Pilato con sarcasmo, «finalmente ci sei arrivato. Allora, Erode, devo rimediare in fretta a questo pasticcio, prima che i seguaci di Yeshua comincino a sobillare la popolazione. Cosa dovrei fare, secondo te?»

    «Devi andare subito al palazzo, domattina».

    «Per revocare la condanna?»

    «No, non puoi lasciare che quell’uomo viva, una volta catturato. Devi riunire i sacerdoti con il popolo, di modo che possano controllarlo meglio».

    «D’accordo, ma come?»

    «Trasformando una lapidazione ebraica in una crocifissione romana».

    «Quest’uomo deve morire», sibilò il sommo sacerdote Caifa a Pilato attraverso la lunga e folta barba grigia. Avvolto nelle sue sontuose vesti e coperto da un curioso copricapo di seta ingioiellato e a forma di cupola, a Sabino parve molto più simile a un re cliente orientale che a un sacerdote. D’altronde, a giudicare dalle dimensioni e dallo splendore del Tempio dei Giudei, il giudaismo era una religione molto ricca, e i suoi sacerdoti potevano permettersi spese smodate con i soldi che i poveri, nella speranza di essere considerati giusti dai loro dèi, facevano affluire verso di loro.

    «E morirà, sacerdote», replicò Pilato; non essendo mai dell’umore migliore nelle prime due ore dopo l’alba, stava cercando di controllare la propria irritabilità. «Ma morirà nel modo romano, non in quello giudaico».

    Sabino stava in piedi con Erode Agrippa a osservare con interesse la lotta tra i due uomini più potenti della provincia. Era stato un incontro astioso, soprattutto dopo che Pilato aveva descritto, con grande gusto, la trappola disposta da Yeshua ai danni di Caifa, sottolineando come quest’ultimo fosse stato abbastanza maldestro politicamente da caderci.

    «Per evitare un’insurrezione», continuò Pilato, «che, a giudicare dai rapporti che ho ricevuto, Yeshua e i suoi seguaci stanno già iniziando, devi fare subito come ho ordinato».

    «E come posso essere sicuro che tu faccia quel che hai promesso?»

    «Stai facendo il finto tonto?», scattò Pilato, incapace di sopportare oltre lo sforzo di dover trattare con quel prete preoccupato solo dei propri interessi. «Perché in questa faccenda siamo entrambi dalla stessa parte. Sono stati già dati gli ordini e fatti i preparativi necessari. Ora vai, forza!».

    Caifa si voltò e s’incamminò, con più dignità che poté dopo essere stato liquidato in quel modo, fuori dalla sontuosa sala d’udienza dall’alto soffitto, al centro del palazzo del defunto Erode il Grande sul lato occidentale della città alta.

    «Cosa ne pensi, Erode?», chiese Pilato.

    «Penso che reciterà la sua parte. I soldati sono pronti?»

    «Sì». Pilato volse gli occhi iniettati di sangue verso Sabino. «Ecco la tua opportunità per redimerti, questore; fai semplicemente come ti ha detto Erode».

    Lo strepitio della folla rumorosa aumentava man mano che Sabino ed Erode si avvicinavano all’ingresso principale del palazzo. Uscendo dalle alte porte di legno di cedro lucidato, si trovarono di fronte una marea di gente; riempiva l’intera agorà di fronte al palazzo, straripando nell’ampio viale che, dall’estremità più lontana, conduceva al Tempio e alla Fortezza Antonia.

    Le ombre apparivano lunghe e l’aria era fredda, essendo solo la prima ora del giorno. Sollevando lo sguardo alla sua sinistra, Sabino poteva vedere, sulla collina del Golgota oltre la Porta vecchia sulle mura della città, una croce lasciata lì sempre eretta, anche tra una crocifissione e l’altra, per ricordare alla popolazione il destino che attendeva chiunque cercasse di opporsi al potere di Roma.

    Caifa stava in cima ai gradini del palazzo con le braccia sollevate nel tentativo di acquietare la folla. Era circondato da una dozzina di altri sacerdoti; dietro di loro, protetto da Paolo e da un gruppo di guardie del tempio, stava in piedi Yeshua, con le mani legate e una benda insanguinata intorno alla testa.

    A poco a poco il frastuono diminuì, e Caifa poté cominciare il suo discorso.

    «Che sta dicendo?», chiese Sabino a Erode.

    «Ha rivolto un appello alla calma, e adesso sta dicendo alla folla che, per la sua popolarità tra la gente comune, Yeshua dev’essere graziato e liberato con un gesto di clemenza proprio nel periodo pasquale».

    Una forte acclamazione si levò dalla folla quando Caifa smise di parlare. Dopo qualche istante, il sommo sacerdote alzò di nuovo le braccia per chiedere il silenzio prima di continuare.

    «Adesso sta chiedendo loro di tornare alle proprie case», tradusse Erode. «E assicura che Yeshua sarà liberato subito».

    Sabino continuava a osservare, ben sapendo che il suo momento di agire era imminente; Caifa si voltò e fece un cenno a Paolo, il quale cominciò, sia pure con riluttanza, a slegare le mani del prigioniero.

    «Adesso!», sibilò Erode. «E cerca di non dire stupidaggini».

    «Ora quell’uomo è prigioniero del senato di Roma», urlò Sabino, facendosi avanti; dietro di lui Longino condusse una mezza centuria di ausiliari fuori dal palazzo, circondando rapidamente le guardie del tempio e il loro ex prigioniero. Dalla direzione della Fortezza Antonia, una coorte di legionari discese il viale a passo di marcia, allineandosi dietro la folla per bloccare la strada e qualunque opportunità di fuga.

    «Cosa significa tutto questo?», gridò Caifa a Sabino, recitando la propria parte con eccessiva teatralità.

    «Il senato richiede che quest’uomo, Yeshua, sia processato di fronte al rappresentante di Cesare, il prefetto Pilato», replicò Sabino con una voce alta e stentorea che si diffuse per tutta l’agorà. Dalla folla cominciarono a levarsi urla di rabbia, man mano che chi conosceva il greco traduceva per gli altri le parole del questore. Mentre il fragore della folla aumentava, la coorte dietro di essa sguainò le spade e cominciò a batterle ritmicamente sugli scudi.

    Pilato uscì dal palazzo in compagnia di un giudeo scarmigliato e contuso. Oltrepassò Sabino e, in piedi accanto a Caifa, intimò il silenzio con un cenno; le urla e il clangore delle armi si affievolirono.

    «Ho le mani legate», declamò il prefetto, incrociando i polsi sopra la testa. «Il questore Tito Flavio Sabino mi ha chiesto, per conto del senato, di processare Yeshua per aver sostenuto di essere un re e incitato alla ribellione contro Cesare; come servitore di Roma, non posso rifiutare una simile richiesta. Se quest’uomo verrà trovato colpevole, sarà Roma a condannarlo, non io, il vostro prefetto. Mi lavo le mani del suo sangue perché non scorrerà per opera mia, bensì per volontà del senato». Fece una pausa e spinse avanti l’ebreo che lo accompagnava. «Tuttavia, in uno spirito di benevolenza e per dimostrare la clemenza di Roma in onore della vostra festa pasquale, rilascerò un altro Yeshua che vi è caro: quest’uomo, Yeshua bar Abbas».

    Sommerso da urla di approvazione, Pilato accompagnò il prigioniero liberato giù per i gradini del palazzo, affinché potesse poi confondersi tra la folla gioiosa.

    «Hanno avuto il loro contentino, sacerdote; ora usa la tua autorità su di loro e falli disperdere prima che io debba massacrarli», sibilò Pilato a Caifa mentre si voltava per andarsene. «Erode, vieni con me».

    «Penso che mi assenterò adesso, col tuo permesso, prefetto. Non sarebbe bene per un principe ebreo essere associato alla morte di quest’uomo. Oltretutto, dovrei intrattenere i miei ospiti parti».

    «Come preferisci. Longino, portami il prigioniero, dopo averlo ammorbidito un po’».

    «E così sei colui che si definisce re dei Giudei?», chiese Pilato, guardando giù verso l’uomo deperito inginocchiato sul pavimento della camera d’udienza di fronte alla sua sella curule.

    «Sono parole tue, non mie», rispose Yeshua, sollevando la testa con dolore per guardare negli occhi il suo accusatore; il sangue proveniente dalle ferite inflitte da una corona di spine, conficcatagli a forza sulla testa in segno di scherno, gli appiccicava i capelli e gli colava giù per il viso. Sabino poteva vedere che la sua schiena portava i lividi di una dura fustigazione.

    «Ma tu non le neghi».

    «Il mio regno non è nel mondo terreno». Yeshua sollevò le mani legate per toccarsi la testa. «È qui, come per tutti gli uomini».

    «È questo che predichi, giudeo?», chiese Sabino, attirandosi uno sguardo di rimprovero da Pilato, seccato per l’interruzione.

    Yeshua rivolse l’attenzione a Sabino, il quale si sentì trafiggere dall’intensità di quello sguardo. Le sue pulsazioni accelerarono.

    «Tutti gli uomini recano in sé il regno di Dio, romano, anche i cani gentili come te. Io predico la purificazione attraverso il battesimo che lava via i nostri peccati; poi, se seguiremo la Torah e mostreremo compassione verso gli altri credenti, facendo loro quel che vorremmo fosse fatto a noi, verremo giudicati virtuosi e degni di unirci a nostro Padre alla fine dei tempi, che si sta avvicinando rapidamente».

    «Basta con le sciocchezze», scattò Pilato. «Neghi forse che tu e i tuoi seguaci avete incoraggiato il popolo a ribellarsi ai suoi padroni romani?»

    «Nessun uomo può essere padrone di un altro», rispose semplicemente Yeshua.

    «È qui che ti sbagli, giudeo. Io sono il tuo padrone; il tuo destino è nelle mie mani».

    «Lo è il destino del mio corpo, ma non il mio destino, romano».

    Pilato si alzò e colpì forte Yeshua in viso; con uno sguardo di sfida, questi gli offrì l’altra guancia; il sangue del labbro spaccato gli gocciolava lungo la barba. Pilato lo accontentò con un secondo colpo fragoroso.

    Yeshua sputò sul pavimento una boccata di sangue. «Puoi provocarmi dolore fisico, romano, ma non puoi far del male a ciò che ho dentro».

    Sabino si trovò come ipnotizzato dalla forza di volontà di quell’uomo; sentiva che sarebbe stato impossibile spezzarla.

    «Ne ho avuto abbastanza», disse Pilato, fumante di rabbia. «Questore, fallo crocifiggere subito con gli altri due prigionieri».

    «Di cosa è stato giudicato colpevole, signore?»

    «Non lo so; qualunque cosa. Sedizione, ribellione, o magari il semplice fatto che mi stia antipatico; quello che ti pare. Ora portalo via e assicurati che sia morto e sepolto prima che lo Shabbat cominci, al crepuscolo, in modo da non violare la legge giudaica. Ci ha già provocato abbastanza guai da vivo, e non voglio che ne provochi altri da morto».

    Con il cielo ormai grigio, avevano cominciato a cadere delle goccioline di pioggia, diluendo il sangue che scorreva dalle ferite dei tre uomini crocifissi. Era la nona ora del giorno; Sabino e Longino scendevano dalla collina del Golgota, con i tuoni rimbombanti in lontananza.

    Sabino si voltò a guardare Yeshua appeso alla sua croce; la testa era crollata in avanti e il sangue colava lentamente da una ferita di lancia sul fianco, infertagli da Longino per affrettare la fine delle sue sofferenze prima dell’inizio dello Shabbat. Sei ore prima, l’avevano frustrato mentre saliva la collina trascinando la sua croce, aiutato da un uomo preso dalla folla. Poi aveva sopportato in silenzio che gli fossero conficcati dei chiodi nei polsi; era sembrato accorgersi a malapena anche di quelli piantatigli a martellate nei piedi per fissarlo al legno. I brutali sobbalzi mentre la croce veniva tirata su, che avevano intensificato le urla degli altri due uomini crocifissi fino a livelli disumani, gli avevano strappato soltanto un gemito dalle labbra. A Sabino sembrava che finalmente quell’uomo fosse in pace.

    Il questore attraversò il cordone di ausiliari che stava tenendo lontano dagli uomini giustiziati la piccola folla triste di spettatori e vide Paolo che, in piedi con un paio di guardie del tempio, guardava in alto verso Yeshua; intorno alla testa portava una benda macchiata dal sangue sgorgato dalla ferita all’orecchio. «Cosa ci fai qui?», chiese Sabino.

    Paolo, che sembrava perso nei propri pensieri, per un momento non lo udì neppure; poi sbatté più volte le palpebre mentre registrava la domanda. «Sono venuto a controllare che fosse morto e a prendere il suo corpo per seppellirlo in una tomba anonima, affinché non diventi meta di pellegrinaggio per i suoi eretici seguaci. L’ha ordinato Caifa».

    «Perché avete tutti così tanta paura di lui?», chiese Sabino.

    Paolo lo guardò come se fosse un idiota. «Perché avrebbe portato un cambiamento».

    Sabino scosse la testa con sdegno e spinse via il malchus della Guardia. Mentre lo faceva, un gruppo di due uomini e due donne, la più giovane delle quali si trovava in stato avanzato di gravidanza e portava in braccio un bambino, gli si avvicinarono.

    L’uomo più anziano, un ebreo dall’aria benestante, sulla trentina e con una folta barba nera, s’inginocchiò. «Questore, vogliamo reclamare il corpo di Yeshua per la sepoltura».

    «Ci sono già le guardie del tempio per questo. Che diritto avete di chiedere il suo corpo?»

    «Mi chiamo Yosef, sono un congiunto di Yeshua», rispose l’uomo, mettendo un braccio intorno alla spalla della più anziana delle due donne, «e questa è Miriam, sua madre».

    Miriam rivolse a Sabino uno sguardo implorante, con le lacrime che le scendevano lungo le guance. «Ti prego di non lasciare che lo prendano, questore. Dammi mio figlio, affinché io possa riportarlo in Galilea e seppellirlo laggiù».

    «Ho ricevuto ordine di farlo seppellire prima del crepuscolo».

    «Ho una tomba di famiglia proprio qui vicino», disse Yosef. «Metteremo lì il corpo per il momento, per poi spostarlo il giorno dopo lo Shabbat».

    Sabino si voltò di nuovo verso Paolo con un sorriso malizioso. «Paolo, queste persone rivendicano un legame di parentela con il defunto».

    Paolo parve sdegnato. «Non puoi farlo; Caifa vuole il suo corpo».

    «Caifa è un suddito di Roma! Longino, fai scortare quest’orribile ometto lontano da qui».

    Mentre Paolo veniva portato via in malo modo, malgrado le sue proteste, Sabino si rivolse di nuovo a Yosef. «Potete prendere il corpo; Roma ha finito di fargli quel che doveva». Si voltò per andarsene.

    Yosef chinò la testa. «È stata una gentilezza che non dimenticherò, questore».

    «Questore», gridò l’uomo più giovane, fermando Sabino. «Roma può anche essere la nostra padrona adesso, ma ti avverto: la fine dei tempi si sta avvicinando, e gli insegnamenti di Yeshua ne fanno parte; un nuovo regno emergerà, nuovi uomini con nuove idee lo guideranno, e il vecchio ordine comincerà a venir meno».

    Ricordando l’astrologo dell’imperatore Tiberio, Trasillo, che due anni prima aveva predetto l’avvento di una nuova era, Sabino fissò il giovane, riconoscendo in lui l’uomo che nella mattinata aveva aiutato Yeshua a portare la croce. «Cosa ti fa essere così sicuro di questo, giudeo?»

    «Io vengo dalla Cirenaica, romano, che una volta era una provincia del regno d’Egitto; là attendono la rinascita dell’uccello di fuoco. Il suo ciclo cinquecentenario sta giungendo al termine; l’anno prossimo la Fenice rinascerà in Egitto per l’ultima volta, e tutte le cose cominceranno a cambiare in vista della fine dei tempi».

    PARTE PRIMA

    Cirenaica, novembre del 34 d.C.

    I

    «Ce l’hai?», chiese Vespasiano, mentre Magno scendeva dalla passerella di una grande nave mercantile appena arrivata nel porto di Apollonia.

    «No, signore, temo di no», rispose Magno con una borsa sulle spalle. «Per il momento l’imperatore sta rifiutando tutti i permessi d’ingresso in Egitto».

    «Perché?».

    Magno prese l’avambraccio che l’amico gli offriva. «Secondo Caligola, su consiglio dell’astrologo di Tiberio, Trasillo; nemmeno Antonia riuscirebbe a fargli cambiare idea».

    «E allora che sei venuto a fare?»

    «Be’, questo non è un bel modo di accogliere un amico che ha viaggiato in quella tinozza marcia per centinaia di miglia, in un periodo dell’anno in cui la maggior parte dei marinai si rimbocca le coperte a vicenda».

    «Mi dispiace, Magno. Contavo sul fatto che Antonia potesse procurarmi il permesso; sono passati quattro anni dalla morte di Atafane e ancora non siamo riusciti a mantenere la promessa di riportare l’oro alla sua famiglia, in Partia».

    «Be’, allora un altro paio d’anni non farà una gran differenza, no?»

    «Non è questo il punto. L’Egitto è la provincia più vicina; avrei potuto fare una breve deviazione ad Alessandria sulla via del ritorno a casa, a marzo, trovare l’alabarca, dargli la scatola di Atafane e organizzare le cose in modo da far trasferire i soldi alla sua famiglia, a Ctesifonte, per poi tornare a Roma prima del maggio successivo».

    «Dovrai semplicemente farlo un’altra volta».

    «Sì, ma mi ci vorrà molto di più venendo da Roma. Potrei non averne il tempo; ho la tenuta da amministrare e, tra due anni, auspico di farmi eleggere edile».

    «Allora non dovresti fare promesse che non puoi mantenere».

    «Ha servito fedelmente la mia famiglia per molti anni; glielo devo».

    «Stando così le cose, non concedergli malvolentieri il tuo tempo».

    Vespasiano grugnì e si girò per tornare indietro lungo l’animato molo, facendosi largo tra la massa di portuali intenti a scaricare dalla flotta commerciale che aveva appena attraccato. La sua toga senatoriale intimidiva chi la scorgeva, garantendogli sempre un varco tra la folla. Pertanto, non gli riuscì difficile percorrere un centinaio di passi lungo il molo verso la lettiga trasportata dai servitori che l’attendeva.

    Magno lo seguì, godendosi la deferenza della popolazione locale nei confronti del suo giovane amico. «Non pensavo che, nelle province, i questori fossero trattati con tanto rispetto», osservò mentre uno dei quattro portantini aiutava Vespasiano a sedersi senza che fosse davvero necessario.

    «È perché i governatori odiano questo posto. E non a torto, visto che è un po’ come vivere nel forno di un panettiere, ma senza il buon odore. Loro tendono piuttosto a trascorrere tutto il tempo nella capitale della provincia, Gortyna, sull’isola di Creta, e a mandare qui i loro questori per amministrare la Cirenaica a loro nome».

    Magno ridacchiò. «Ah, il potere di vita e di morte aiuterà sempre le persone a rispettarti».

    «Non proprio, dato che come questore non ho imperium, potere di comando. Tutte le mie decisioni devono essere ratificate dal governatore, cosa che richiede un procedimento molto lungo», disse Vespasiano, rabbuiato. «Ho il potere di procurare i cavalli, però», aggiunse con un sorriso mentre un giovane schiavo dalla pelle scura ne portava uno sellato a Magno.

    Questi prese l’animale con gratitudine e gli gettò in groppa il suo bagaglio prima di montarci sopra. «Come facevi a sapere che sarei arrivato oggi?»

    «Non lo sapevo, mi limitavo a sperarlo», rispose Vespasiano mentre la sua lettiga avanzava, oltrepassando un teatro aggettante sul mare. «Quando la flotta è stata avvistata stamattina, ho deciso di rischiare e di scendere, dato che è probabilmente l’ultima della stagione ad arrivare da Roma. In ogni caso, non è che avessi di meglio da fare».

    «È così difficile la situazione qui?». Magno inarcò un sopracciglio, mentre il giovane schiavo cominciava a sventolare Vespasiano con un ampio ventaglio ricavato da una fronda di palma fissata su un lungo bastone.

    «È terribile: gli indigeni Libu trascorrono tutto il tempo a derubare i ricchi agricoltori greci; i Greci si divertono ad avanzare false accuse di frode o di furto contro i mercanti Giudei; i Giudei non smettono mai di protestare per le statue sacrileghe o per le presunte offese religiose perpetrate con i maiali; i mercanti romani di passaggio, infine, non fanno altro che lamentarsi delle truffe subite da Giudei, Greci e Libu, nell’ordine. Oltre a questo, tutti vivono nel terrore di incursioni a caccia di schiavi da parte dei Garamanti da sud o dei nomadi marmaridi a est, tra qui e l’Egitto. È un calderone ribollente di odio etnico, e l’unica cosa in grado di superare il disprezzo reciproco è l’avversione nei nostri confronti, che però non impedisce ad alcuni individui di gettarmi addosso del denaro affinché io possa decidere in loro favore nei processi».

    «E tu lo prendi, spero».

    «All’inizio no, ma ora sì. Ricordo di essere rimasto scioccato quando mio zio mi disse che prendeva delle mazzette mentre era governatore di Aquitania, ma ora capisco meglio il sistema e mi rendo conto che ci si aspetta che anch’io lo faccia. E comunque, la maggior parte della gente ricca del posto è così odiosa che è un piacere prendere i loro soldi».

    «Somiglia molto alla situazione in Giudea, a giudicare da come la descrive Sabino», rifletté Magno mentre attraversavano un’agorà affollata, circondata da antichi templi in rovina, dedicati alle divinità greche e dominati dagli edifici civili scavati nella collina soprastante.

    «È ancora peggio, credimi», replicò Vespasiano, ricordando le conversazioni sull’estrema ingovernabilità dei Giudei avute con il fratello di ritorno dall’Oriente. Si erano incrociati per un paio di giorni a Roma, prima che lui partisse per Creta alla fine di marzo. «Là devi vedertela solo con i Giudei, che si possono tenere a bada attraverso i loro sacerdoti e dei piccoli favori. Qui, invece, se ti venisse in mente di offrire una concessione a un gruppo, allora ogni bastardo ne vorrebbe una anche lui, fino a farti dar via l’intera provincia, per essere poi trascinato di fronte al senato, o peggio, al tuo ritorno a Roma. Ecco perché non concedo nulla a nessuno, a meno che non mi paghi bene; in questo modo, le altre fazioni non possono lamentarsi del mio favoritismo perché sanno che sono stato corrotto. Sorprendentemente, questo sembra far accettare la cosa a tutti quanti».

    «Scommetto che vorresti tornare in Tracia», disse Magno, ammirando gli sforzi del giovane schiavo, che stava riuscendo a mantenere un flusso costante d’aria in movimento verso il suo padrone senza perdere l’equilibrio, malgrado le cattive condizioni delle pietre della pavimentazione; la città aveva conosciuto senz’altro giorni migliori.

    «Almeno là avevamo truppe decenti con cui minacciare la gente del posto. Qui, invece, abbiamo solo una coorte di fanteria ausiliaria locale, formata da uomini troppo stupidi per guadagnarsi da vivere rubando; poi c’è la milizia cittadina, composta da uomini troppo stupidi per fare gli ausiliari; e infine c’è un’ala di cavalleria ausiliaria che dovrebbe proteggerci dai nomadi, il che è assurdo perché la maggior parte di loro dispone di cammelli».

    «Cos’è un cammello?»

    «È una bestia simile a una grande capra marrone col collo lungo e due gobbe sulla schiena; i cavalli ne detestano l’odore».

    «Oh, ne ho visti alcuni al circo, una volta; facevano ridere la gente ma non erano molto combattivi».

    «Non hanno bisogno di esserlo. Secondo il prefetto di cavalleria Corvino, possono correre nel deserto per tutto il giorno; la nostra cavalleria non riesce quasi mai ad avvicinarli».

    Attraversarono le porte della città, sorvegliate da leoni di marmo su ogni lato, e cominciarono la leggera salita di otto miglia fino alla città di Cirene, situata in cima a un altopiano calcareo. Vespasiano ricadde in un silenzio malinconico, contemplando l’inutilità della sua posizione in quella parte della provincia di Creta e Cirene. Nei sette mesi che aveva trascorso là non era riuscito a combinare nulla, soprattutto per mancanza di fondi. Per secoli la ricchezza della Cirenaica si era fondata sul silfio, una pianta dalla cima bulbosa con un lungo gambo, la cui resina era molto apprezzata sia come condimento sia come cura per le malattie della gola e per la febbre; anche la carne degli animali che pascolavano in quella zona veniva venduta sovrapprezzo. Cresceva lungo l’arida pianura costiera, dato che l’altopiano cirenaico era più adatto alla coltivazione di frutta e verdura. Negli ultimi anni, però, il raccolto aveva misteriosamente cominciato a ridursi fino al punto da non essere più dato al bestiame, stroncando così l’industria della carne; e appena trascorsi due anni la qualità era peggiorata a ogni raccolto, nonostante la coltivazione intensiva.

    Vespasiano aveva cercato di convincere gli agricoltori locali a dedicarsi ad altre colture, ma il suolo sottile e la scarsità di piogge sulla pianura, combinati con la fervida convinzione degli agricoltori che, se si fossero compiuti abbastanza sacrifici regolari agli dèi, il silfio sarebbe tornato in auge, lo avevano frustrato. Di conseguenza, le entrate tributarie si stavano riducendo, man mano che chi aveva soldi li nascondeva e ne spendeva ben pochi per comprare merci da coloro che ne avevano ancora meno. E così, con pochissimo denaro in circolazione, le granaglie importate dalle più fertili province vicine dell’Egitto e dell’Africa avevano raggiunto prezzi esorbitanti, in conseguenza dell’avida speculazione da parte dei mercanti che ne controllavano il commercio. Tutti l’avevano negato, quando li aveva convocati per spiegarsi, e avevano dato la colpa solo alla minore quantità di grano ricevuta dall’Egitto l’anno precedente; eppure nessuno aveva mai parlato di un fallimento del raccolto egiziano. Il risultato era che i poveri – greci, ebrei o libu che fossero – si trovavano sempre sul punto di morire di fame, e le agitazioni civili rappresentavano una minaccia costante.

    Senza truppe sufficienti per soffocare una rivolta tra la popolazione di quasi mezzo milione di abitanti delle sette città principali della Cirenaica, e senza l’autorità di agire autonomamente, Vespasiano si era sentito impotente e frustrato per tutta la durata della sua carica. Quella sensazione era ora aggravata dal rifiuto, da parte di Tiberio, di concedergli un’autorizzazione d’ingresso nella provincia imperiale dell’Egitto, così ricca che i senatori potevano visitarla solo con l’esplicito permesso dell’imperatore, senza il quale avrebbero commesso un reato capitale.

    Rimproverandosi per quell’attacco di autocompatimento, si voltò indietro verso il suo compagno, che lo seguiva di buon passo. «Sabino è riuscito finalmente a farsi eleggere edile?»

    «Sì, a malapena», rispose Magno. «Ma come dice sempre tuo fratello: A malapena è abbastanza. Anche se il fatto di non dover competere nelle elezioni a pretore fino all’anno prossimo è stato un sollievo per lui. Tutte quelle cariche erano ricoperte dai figli degli amici di Macrone».

    «Allora siamo tornati ad avere un prefetto del pretorio che interferisce con la politica? Si poteva pensare che Macrone avesse imparato la lezione dalla prematura dipartita del suo predecessore. Non credo proprio che questo lo abbia reso molto simpatico ad Antonia. Crede che immischiarsi nella politica sia prerogativa della famiglia imperiale, e sua in particolare».

    Magno indicò i portantini.

    «Non preoccuparti di loro, non parlano latino», lo informò Vespasiano. «Il ragazzo, poi, è sordomuto».

    «Ah, d’accordo. Be’, da quando te ne sei andato, a marzo, sono accadute cose strane; Antonia si sta preoccupando».

    «Pensavo che ti dicesse soltanto cosa fare».

    «In effetti la maggior parte delle informazioni vengo a saperle da tuo zio, il senatore Pollione. Lei però, di tanto in tanto, qualcosa se la lascia scappare… Dopo, se capisci cosa voglio dire…».

    «Vecchio stallone!». Vespasiano sorrise per quella che gli parve la prima volta da quando era arrivato in Cirenaica, godendosi l’improbabile e impari relazione sessuale tra il suo vecchio amico e la donna più formidabile di Roma, la sua protettrice Antonia, cognata dell’imperatore Tiberio.

    «Be’, per fortuna non capita molto spesso ultimamente; lei sta diventando un po’… cascante, capisci? In ogni caso, è preoccupata del rapporto di Caligola con Macrone, o più precisamente del nuovo rapporto di Caligola con la moglie di Macrone, Emma, che il prefetto sembra incoraggiare».

    Vespasiano sorrise e fece un gesto con la mano, come per liquidare la questione. «Caligola le aveva messo gli occhi addosso da tempo; senza dubbio si stancherà di lei, dato che è notoriamente insaziabile. Macrone si sta semplicemente dimostrando saggio in proposito; sa bene che, facendo storie adesso, si troverà in una posizione molto precaria se e quando Caligola diventerà imperatore».

    «Forse, ma tuo zio pensa che Macrone non intenda soltanto essere cortese. Secondo lui sta cercando d’ingraziarsi Caligola perché vuole qualcosa da lui se diventerà imperatore».

    «Come prefetto del pretorio è la persona più potente di Roma al di fuori della famiglia imperiale; cosa può volere di più, oltre a diventare suo erede? Caligola può essere tante cose, ma non è uno stupido».

    «È proprio questo a preoccupare Antonia: non capisce a cosa stia mirando; quel che non riesce a capire non lo può controllare, e questo la fa arrabbiare parecchio».

    «Posso immaginarlo, ma non lo considererei molto strano».

    «No, la parte strana è rappresentata dall’altra persona che Macrone si sta coltivando», disse Magno con uno sguardo cospiratorio. «Erode Agrippa. Era un amico di Antonia, da cui si faceva prestare dei soldi senza poi restituirglieli; evidentemente pensava che, essendo favorito di Tiberio e buon amico di suo figlio Druso, con cui aveva studiato, gli fossero dovuti dei mezzi di sostentamento. Quando Druso è morto, però, è fuggito da Roma e dai suoi debiti per tornare in patria, l’Idumea».

    «E dove sta?»

    «Che cazzo ne so? Vicino alla Giudea, credo, visto che

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