Le tre età dell'uomo
Di Franco Mimmi
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Le tre età dell'uomo - Franco Mimmi
Franco Mimmi
LE TRE ETÀ DELL’UOMO
I
La vita, dietro la sua apparente complessità, è di fatto un fenomeno assai semplice. Dopo alcuni eoni, sia teologici sia geocronologici, Adamo se n’è finalmente reso conto e da quel momento tende a semplificare. Il momento topico della scoperta, ovvero il momento in cui gli sono sfilati davanti gli argomenti a dimostrazione, è coinciso con la morte della sua amata Eva che peraltro si chiamava meno biblicamente Carlotta, nome prettamente goethiano visto che l’ultimo uomo universale a camminare sulla terra la fece protagonista sia del Werther sia delle Affinità elettive, forse perché Carlotta, essendo variante femminile di Carlo che significa, in tedesco, uomo libero, può rappresentare la donna libera che se da un libro non cede alle tentazioni intellettualoidi del giovane romantico rompicazzo, dall’altro, sempre pragmatica, può passare di coppia in coppia e seppellire una volta di più il suo innamorato. Con Adamo, invece, è toccato a lei congedarsi, e lui, dopo quel momento di indicibile (straziante? lancinante? atroce? terribile?) dolore, ha provato, non senza un successivo senso di vergogna, quasi un senso di sollievo.
Dunque Carlotta, che dice: perdonami Adamo, muoio. E muore. Perdonami perché muoio? Forse, ma bisognerà tornarci sopra. Intanto Adamo sente quel dolore indicibile che gli fa finalmente intendere l’io non mori’ e non rimasi vivo di Dante e che però, come già assicurava Epicuro, dura poco tempo, al contrario della sofferenza temperata che perdura molto tempo nella carne (e nell’anima). Poi giunge l’inatteso sollievo che sarà anche vergognoso ma è pur sempre un sollievo, tanto più che Adamo presto si rende conto che è dovuto anche al non avere lasciato a Carlotta la triste eredità del disfarsi del proprio corpo, disgustosa incombenza degli umani se vogliono chiamarsi umani. E così gli passa pure la vergogna.
C’è poi da dire che non pensava di sopravviverle tanto a lungo, sette anni ormai, lui ora alla soglia degli ottanta, però ha già molto semplificato, una pulizia esemplare. Innanzitutto: gli oggettini, i ninnoli, i gingilli, le bagatelle, le carabattole, i quadretti, le cornicette, i coffeetablebooks, i servizi di posate e di posatine, le tovaglie e le tovagliette in tinta unita o fiorate, gli asciugamani e gli accappatoi di spugna e di ciniglia lisci e a nido d’ape, i lenzuoli di lino con doppio orlo a giorno e le federe coi loro monogrammi ricamati, e insomma tutte quelle cose che tanto le piacevano e così poco assomigliavano al suo aspetto boldiniano, splendide spalle bianche, massa di capelli scuri ben raccolti eppure mossi (si parla di molti anni fa), ma poi, sotto la snella raffinata silhouette e gli appetiti che portava con sé, ecco la confortante anima borghesotta che a natale spingeva le dita affusolate nella massa farinosa per la sfoglia dei tradizionali tortellini, dio me li ha dati guai a chi me li tocca, insomma tutte quelle cose là sono state le prime a partire, vendute alcune, regalate altre, in beneficienza molte, e qualcosa nella valigia di ricordi che Paola si è riportata oltre oceano insieme con le lacrime e con l’affitto mensile del bar ereditato da sua madre.
Secondo passo, la casa: ben centocinquanta metri quadrati che gli erano pesati addosso per quindici anni di mutuo e che dopo la laurea e la partenza di Paola per le americhe erano apparsi immensi, tanto da stimolare, per riempirli, l’istinto oggettistico di Carlotta e quello libresco di Adamo, e che ormai erano solo un costoso ingombro. Venduti in un mese, lui in comodo affitto in sessanta comodi metri quadrati (c’è anche una stanzetta per gli ospiti per l’improbabile caso di un ospite, Paola la più improbabile di tutti), i soldi al tre per cento netto per impinguare la pensione di un professore di applicazioni tecniche che in realtà era solo un tecnico responsabile della custodia degli apparecchi del laboratorio, poco più di un bidello ma felicemente catapultato in cattedra nel 1963 da una legge che voleva tre ore settimanali al traforo e all’elettricità di base per i maschi e al ricamo e all’uncinetto per le femmine.
Più in là del diploma di perito non è mai andato, e a dire la verità anche con la tecnologia aveva ben poco in comune. Che cosa ha insegnato per quarant’anni? A quali mirabolanti applicazioni scientifiche ha addestrato i suoi alunni in quelle tre ore settimanali? A parte qualche battuta scherzosa, sempre bene accolta dalla bambinaglia, sull’antica e tarpata pelle di gatto ormai incapace di produrre elettrizzazione alcuna nella bacchetta d’ebanite, se l’è cavata per la via teorica dettando anno dopo anno agli annoiatissimi alunni le pagine di un quadernetto intitolato Ideazione e costruzione di una cassetta portastrumenti
, peraltro mai costruita in classe ma della quale gli era possibile esibire un esemplare ripescato in magazzino, e chi volesse davvero riprodurre il pregevole manufatto non aveva altro da fare che mettere in pratica le istruzioni nel pomeridiano raccoglimento di casa.
Adamo lo ha sempre ammesso: non è stato ciò che si dice un fior di docente, ma quello che gli avevano fatto studiare, per trovare un lavoro in fretta, proprio non era nelle sue corde, e buona grazia se per le imperscrutabili riforme scolastiche italiane è finito in cattedra. La sua passione, fin da bambino e quando ancora non sapeva come quella passione si chiamasse, era la tassonomia ovvero la classificazione degli esseri viventi ma anche non viventi, e tra quegli esseri non viventi a lui piacevano in modo particolare i libri. Quando poteva mettere le mani su un volume, il piccolo Adamo lo rimirava, lo palpava, lo accarezzava, lo sfogliava, scriveva su un foglietto autore e titolo, casa editrice e anno di pubblicazione, numero di pagine e prezzo, però, con stupore dei suoi genitori, si guardava bene dal leggerlo o almeno dal leggerlo tutto: qualche paragrafo, qualche pagina tutt’al più, l’inizio e il finale, nient’altro. Per lui erano solo oggetti amati e venerati in quanto tali, e insomma, come gli avrebbe detto molti anni dopo sua moglie con un certo dispetto, erano come belle donne che gli facevano girare la testa ma senza dargli il desiderio di andarci a letto. Però, con una memoria di ferro: nessuno poteva citare un libro di cui Adamo ignorasse l’esistenza, l’autore, le altre opere dell’autore, frasi sciolte come quelle dei cioccolatini, e a non sottoporlo a un interrogatorio ragionato si poteva credere che fosse in possesso di tutto lo scibile umano.
Insomma, un bibliofilo un po’ particolare. Ma la carriera del bibliotecario è lunga, richiede una laurea e una specializzazione e se aspiri a un posto decente devi fare un concorso, sicché Adamo si è dovuto accontentare dei cinque anni di perito industriale e poi della spintarella parentale che lo ha rapidamente piazzato neppure in una fabbrica ma, per fortuna, in una scuola, a sorvegliare le pelli di gatto, i becchi Bunsen e gli emisferi di Magdeburgo ai quali un alunno buontempone, chissà di quale antico corso, ha grattato un po’ i bordi combacianti sicché è ormai impossibile fare davvero il vuoto all’interno, e per staccarli, anziché i due gruppi di quindici cavalli impiegati invano nel maggio del 1654 da Otto von Guericke a Ratisbona, sono sufficienti due ragazzotti robusti di una dozzina d’anni.
Il suo primo impiego, lui appena ventenne, è in una scuola media dell’Appennino, dove c’è persino una piccola biblioteca che viene affidata alla sua passione tassonomica. Parliamo del 1953, e di un pullman il cui autista è convinto di potere, un giorno, vincere la Bologna-Raticosa che è giunta alla sua quarta edizione, cronoscalata in salita di ben 42 chilometri (seconda per lunghezza in Europa dopo la Parma-Poggio di Berceto), sicché non sono pochi i casi di vomito a bordo. Il pullman parte dalla piazza della stazione e Adamo sale alla fermata di Porta Santo Stefano, ancora dentro le mura, poi si arriva al ponte di San Ruffillo e lì il conduttore si scatena perché quello è il punto d’inizio della corsa, vinta finora da Giovanni Bracco su Ferrari, Giulio Cabianca su Osca, Pietro Palmieri su Ferrari e Felice Bonetto su Lancia. Fino al passo, dove c’era la Linea Gotica e ancora si incontrano nei boschi elmetti baionette e qualche osso, si susseguono seicento tornanti a tutta birra, ma il veicolo non li percorre tutti perché fa capolinea a Scaricalasino, ultimo centro abitato prima di scavalcare, e Adamo ne fa ancora meno perché il paese della sua scuola è il penultimo.
Nell’intervallo la bidella porta un caffè ai professori (ai maschi e alla vicepreside, che ha delusioni amorose, con un goccio di cognac casereccio), ma Adamo preferisce andare al bar perché lì al banco c’è Carlotta, quattordici anni scarsi e già è la più bella del borgo, alta come se di anni ne avesse venti, gran chioma nera che quando la acconcia sembra (anche se non lo sa) una Vera Nemidoff giovanissima e inconscia, gambe che neanche a Bologna il sabato sotto il portico del Pavaglione, poco portata agli studi e infatti ha abbandonato alla fine della seconda media ma tutt’altro che stupida, diciamo un po’ semplice ma con le cognizioni matematiche sufficienti a riscuotere le consumazioni e a fare i conti di dove può arrivare lo stipendio di un tecnico, quando lei tocchi almeno i quindici anni e quel giovanottino di città, dalla chioma incredibilmente rossa, si decida a dirle con la bocca quello che le dice con gli occhi tutte le mattine alle dieci e due minuti.
Glielo dice quando lei di anni ne ha solo quattordici e mezzo, viene subito accettato e portato in un fienile, sicché fa il suo primo investimento in una Norton modello Big Four con sidecar, relitto bellico che un amico meccanico ha rimesso in sesto alla bell’e meglio e gli fa pagare carissima perché in quegli anni la motocicletta inglese sta trionfando al Tourist Trophy e anche al campionato del mondo con Geoff Duke sia nella categoria 350 che nella 500 cc., e per fortuna che ogni tanto vince anche Umberto Masetti su Gilera. Con la Norton, quando non lo lascia a piedi, Adamo fa ondeggiare la sua chioma fiammeggiante su per i tornanti e arriva spetezzando al paese non solo nei giorni feriali, quando spesso dà un passaggio alla vicepreside che gli si insinua inutilmente, ma anche il sabato e la domenica, carica Carlotta alla soglia del bar e se la porta per i campi come per un ideale giro dei fienili. Naturalmente ha già parlato coi propri genitori e col padre di lei (la madre gliel’hanno ammazzata i tedeschi), si sposeranno allo scoccar dei sedici perché se non la sposa, dice il padre della ragazza che era capo partigiano ma anche ex seminarista, gli brucia le cervella con la sua Beretta M35 semiautomatica bene oliata e nascosta il giorno della Liberazione, e perché, come diceva l’apostolo Paolo a quei coglioni dei corinzi, se non sono capaci di contenersi, si sposino: è meglio sposarsi che bruciare.
Adamo saluta babbo e mamma e si trasferisce sui monti con la moglie bambina che ne sa cento più di lui e forse anche cinquanta più del diavolo, però tiene a freno tanta naturale sapienza non perché abbia letto il Faust, ur o non ur, ma perché sa che il padre vede quel che non vede il marito ed è armato, oltre che di semiautomatica, anche di due mani che sembrano pale da fornaio, sicché tutto procede tranquillamente finché il tecnico-bibliotecario viene inopinatamente promosso a professore e finisce, così transustanziato, nella rotazione dei trasferimenti. Giunge comunicazione del destino ed è Rogoredo che è e non è Milano, perché fa parte del comune però se uno deve andarci dal centro deve sorbirsi tutte le mattine l’odissea del filobus numero 84, il cui pantografo ha una colpevole tendenza a disertare il cavo elettrico che lo alimenta. Certo si potrebbe abitare a Rogoredo, vicino alla scuola, ma Carlotta ha detto che no e poi no: del natio borgo selvaggio,