Una stupida avventura
Di Franco Mimmi
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Info su questo ebook
“Si passa la vita,” dice Rossana, “a cercare una giustificazione della vita stessa. Se si fosse capaci di farne a meno ci si risparmierebbe un sacco di fatica inutile.”
All’idea della vita come avventura Rossana ride, fa segno di no con la testa. “Che cosa c’è nel passato o nel futuro,” chiede, “diverso dal presente? La vita è solo un modo di passare il tempo.”
Quella di cantare, o meglio canticchiare, è l’unica bizzarria che si conosca di Rossana, ironica cittadina di “una Repubblica basata sul lavoro e sul Festival di Sanremo”.
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Franco Mimmi approda, con questo libro, al romanzo “popolare” nella sua versione più nobile, quella che coniuga, o meglio immerge, la storia privata dei personaggi nella grande storia del tempo in cui essi fittiziamente vivono. Ma gli interrogativi che l’autore propone al lettore attraverso la figura della protagonista Rossana vanno oltre ed hanno un che di universale e anche di inquietante, e fanno parte dell’esperienza e spesso del subconscio di tutti noi. (Gianfranco Abenante – Slavia)
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Anteprima del libro
Una stupida avventura - Franco Mimmi
Franco Mimmi
UNA STUPIDA AVVENTURA
Farla non puoi, la vita,
come vorresti? Almeno questo tenta
quanto più puoi: non la svilire troppo
nell’assiduo contatto della gente,
nell’assiduo gestire e nelle ciance.
Non la svilire a furia di recarla
cosí sovente in giro, e con l’esporla
alla dissennatezza quotidiana
di commerci e rapporti,
sin che divenga una straniera uggiosa.
(Costantino Kavafis, Quanto più puoi)
All men are mild lunatics engaged in persuits
that seem to them very important while an absurdly logical force
keeps them at their futile jobs.
(Vladimir Nabokov, Lectures on Russian literature)
1 - AMALIA, ROSSANA E PIPPO CONTRO I TEDESCHI
Giovedì 9 settembre 1943
Amalia pedala nel tramonto, piegata in avanti verso Rossana che sta seduta nel sellino fissato al manubrio della bicicletta. Le canta a bassa voce arriva la banda, arriva la banda, arriva la banda coi suonator, e la bambina fa coro correggendo con la sua vocetta infallibile le stonature che la madre infligge perfino a quella melodia sempliciotta. Aldo Donà, Nella Colombo e Dea Garbaccio ne hanno fatto un grande successo ed è una delle canzoni favorite di Amalia: lei non ha mai dato credito alla voce, che gira in paese con qualche ghigno e gomitate nel costato, secondo la quale con il tamburo principal della banda d’Affori si allude al Duce stesso, e i 550 pifferi della banda sarebbero i componenti della Camera dei fasci e delle corporazioni che sono proprio quel numero lì. Il compositore, Mario Panzeri, ha potuto dimostrare ai funzionari del Min.Cul.Pop. che anche questa volta – gli era già successo quattro anni prima con Maramao perché sei morto - si tratta di pura coincidenza, sfortunata quanto innocente.
Amalia pedala e canta le ragazze nel vederlo diventan timide lui confonde il Trovator con la Semiramide, ben sostenuta vocalmente da Rossana, però a una curva della strada di campagna, coperta fin lì alla vista da un gruppo di alberi, appare un drappello di soldati tedeschi che puntano i mitra e gridano halt e altre ostrogoterie, e quando la bicicletta arriva frenando alla loro altezza le danno una gran spinta. Per una volta, Amalia sa perché: la sera prima ha ascoltato alla radio il proclama letto dal maresciallo Pietro Badoglio, e anche se lei ha capito bene solo che le forze anglo-americane non sono più il nemico (e subito si è vista, a guerra finalmente finita, correre incontro all’abbraccio del reduce Vittorio), ci ha pensato suo suocero a spiegarle il resto della storia: che i soldati italiani adesso reagiranno a eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza, ovvero che da quel momento i tedeschi sono il nemico e quindi attenzione quando va in giro come una scervellata. Achtung!
La donna e la bambina finiscono nella cunetta ancora molle di fango per la prime piogge di fine estate, i soldati le prendono di mira con mitra e fucili, che ironia, pensa Amalia terrorizzata e tuttavia romantica, morire quando la guerra certamente volge al termine, quando Vittorio sta per tornare, quando la vita sta per ricominciare, lei gettata sul corpicino di Rossana, tremando ma dicendole all’orecchio, in una estrema carezza, in un estremo conforto, sperando follemente di ripararla, di morire lei sola: Non avere paura, non è niente, non c’è da avere paura,
e la bambina dice qualcosa ma lei non fa caso perché, pur di rassicurarla, si è messa a canticchiare le prime parole di un’altra canzonetta che piace tanto a tutte e due, che sempre le fa ridere: Pippo non lo sa, ma quando passa ride tutta la città. Poi arriva il crepitio delle mitragliatrici ma insieme con il rombo di un aereo e a cadere sono i quattro tedeschi che le hanno fermate, uno addosso a loro, crivellato, inondandole di sangue.
Pippo, pensa la donna senza rendersi conto che intanto sta gridando e spingendo via a calci il corpo del tedesco, è stato Pippo, pensa, e finalmente riesce a rimettersi in piedi sempre tenendo tra le braccia Rossana, tutta sporca e graffiata ma incolume. Amalia le ravvia i capelli con le dita e intanto si guarda attorno in cerca della bici, la vede nella cunetta e si avvia di corsa a recuperare l’arnese, ma Rossana, che fin lì non ha pianto e non ha gridato, ora si divincola e riesce a sottrarsi alla stretta della madre, scivola al suolo e corre, indifferente ai richiami, a osservare i corpi dei soldati crivellati dalle raffiche di Pippo, l’aereo da caccia che da qualche tempo, sul far della sera, ossessiona i tedeschi con le sue incursioni a volo radente.
Amalia vorrebbe seguirla ma le gambe le fanno giacomo giacomo, non può fare altro che restare ad aspettarla chiamandola debolmente di tanto in tanto – Rossana, torna qui, Rossana, non guardare – finché finalmente la bambina, terminato coscienziosamente il suo giro d’ispezione, torna da sua madre e la prende per mano, si avviano a recuperare la bici, Amalia rimette Rossana nel sellino ma lei non risale perché trema tutta e non potrebbe mantenere l’equilibrio. Sospinge la bicicletta verso il paese dell’Oltrepò dove sono sfollate con i genitori di Vittorio, Vincenzo e Rosalia, per sfuggire alla penuria e ai bombardamenti della città, e alza gli occhi al cielo perché di nuovo si ode il rumore dell’aereo da caccia che ha salvato loro la vita, lo guarda sparire all’orizzonte e mentalmente ringrazia, lo spavento sta passando e si grida dentro: Siamo vive! Siamo vive! Prima è incredulità. Poi allegria. Quasi riprenderebbe a cantare che passion, che emozion quando fa bum bum, o meglio ancora, pensa ridendo, Pippo sì lo sa, però in quel momento la memoria le restituisce il suono delle parole di Rossana, quando erano rannicchiate nella cunetta e lei le diceva non è niente non avere paura. Che cosa le rispondeva, la bambina? Dipana quella eco, la interpreta, un po’ sconcertata, un po’ incredula, eppure... Non ha importanza, mamma,
le diceva Rossana, non ha importanza.
2 - IL VENTO DEL SUD PORTA IL NOME A ROSSANA
Primo settembre 1939
Anche Rossana non è una bellezza, ma almeno non ha un nome difficile come quella ragazza del libro che tanto piace alla cognata d’America, al punto che nelle lettere mensili che da Los Angeles invia ad Amalia le fa un riassuntino dei capitoli che va leggendo. Per me,
scrive Concetta, esagerata per natura, "è come per gli americani la Bibbia: mi offre sempre un’occasione per citarne qualche riga". E giù con la storia di quella ragazza ricca e vanitosa che la guerra civile porta alla povertà ma poi lei riesce a forza di volontà a rifarsi una vita perché domani è un altro giorno.
Da quella dorata lontananza sul Pacifico, nella mecca della celluloide, Concetta neppure immagina che già esiste una traduzione italiana del libro, ma le letture di Amalia non vanno oltre il Radiocorriere, che dedica molto spazio alla musica leggera, e così neppure lei sa che Scarlett è stato tradotto Rossella, e quando nasce sua figlia, che vuole forte e coraggiosa e perché no ricca, non osando Scarlatta, che certo le sarebbe respinto all’anagrafe in quanto ridicola scimmiottatura delle usanze straniere, traduce in Rossana e già quel giorno stesso, che è il primo settembre del 1939 e la radio ha annunciato l’invasione tedesca della Polonia (seguita per fortuna dalla notizia della non belligeranza italiana), stringe a sé la sua bimba nel lettino della maternità e le dice che domani è un altro giorno.
Ai piedi del letto Vittorio le guarda estasiato, la ragazza un po’ pallida e la neonata un po’ rossa, e invece delle trionfali notizie dell’Eiar sente risuonare nelle orecchie le note di Mille lire al mese che da un annetto accompagna in musica la speranza di tanti impiegati e aspiranti impiegati, e vorrebbe cantare alle sue donne la certezza che con quelle mille lire al mese loro tre troverebbero, senza esagerare, tutta la felicità, proprio come la coppia Osvaldo Valenti-Alida Valli nel film omonimo appena uscito, non fosse che il suo innato senso della realtà (pedestre, lo definisce a volte Amalia quando vuole farlo arrabbiare) gli riporta piuttosto il Valzer della povera gente, che Odoardo Spadaro ha da poco lanciato.
Sul nome della bambina Vittorio non ha avuto niente da obiettare, anche se avrebbe preferito chiamarla come sua madre, Rosalia, o magari Annunziata, come la sua povera nonna che non ha mai conosciuto, però Amalia, con tutta la sua dolcezza e il suo romanticismo, ha un caratterino che levati, da vera veneta con un corpo morbido e uno spirito d’acciaio. Perché vedi, Vittorio,
gli ha detto cantilenando la cadenza trevigiana che non è mai riuscita a togliersi, oggi è diverso, soprattutto qui al nord, non è come giù da voi,
e non ha detto terroni ma Vittorio lo ha sentito benissimo, proprio come se lei lo avesse detto. Però quello spirito un po’ semplice ma d’acciaio è ospitato in un corpo morbido, morbidissimo, e Rossana in fondo non è un brutto nome anche se suo padre, Vincenzo, gli ha detto ma che minchia di nome è. Ah, se potessi avere mille lire al mese...
Forse, se si decidesse ad accettare l’invito di sua sorella Concetta, se se ne andassero tutti e tre in California che è piena d’italiani perció non si sentirebbe neanche tanto la nostalgia, magari laggiù un impiego da mille lire al mese lo troverebbe, ma là ci sono i dollari, quanti dollari sarebbero mille lire? Sì e no un centinaio. E si vive, laggiù, con cento dollari al mese? Sua sorella, che da quando è andata in America fa la sbruffona, dice che lá, in confronto all’Italia, si vive come dei pasciá, ma secondo Vittorio lo dice perché suo marito, Orlando, è un antifascista sfegatato, però è vero che non se la devono passar male se quello che scrive Concetta, che non solo hanno in casa una macchina per fare il bucato ma anche una macchina lavastoviglie nella trattoria, non è un’altra sbruffonata. Poi c’è la storia di tutti quegli attori che andrebbero a mangiare da loro, lasciando mance favolose ai camerieri che poi è uno solo, Rinaldo, il fratello di Orlando, ma su questi clienti famosi Vittorio ha i suoi dubbi perché sua sorella non fa nomi, solo una volta ha parlato di un attore italiano, certo Gino Corrado di Firenze, che avrebbe partecipato a film famosissimi compresi I tre moschettieri e quello recentissimo preso dal libro dove c’è il nome di sua figlia, Via col vento si chiama in Italia, e ha pure accluso una foto con autografo dell’attore dove però le uniche cose famose sono il cappello alla Humphrey Bogart e i baffetti alla Clark Gable. Loro l’hanno mostrata e hanno chiesto a tutti gli amici, ma nessuno, neanche i più appassionati di cinema, di quel Gino Corrado lì hanno mai sentito parlare.
Vittorio va a sedersi sul bordo del letto, e con grande delicatezza sottrae il fagottino bianco all’abbraccio di Amalia. Non sa se è più commosso o più spaventato, perché è inutile nasconderselo: non sono anni facili che aspettano quella creatura. Benissimo la non belligeranza, ma c’è anche il patto d’acciaio che pochi mesi prima Ciano e Ribbentrop hanno firmato a Berlino. Lì c’è scritto che trattasi di alleanza difensiva e offensiva, Hitler non è tipo che si lasci abbindolare, e lui, Vittorio, ha solo ventun’anni... Per scacciare i pensieri cattivi contempla sua figlia, che per la sua età, poche ore appena, sembra anche troppo vispa, con gli occhietti bene aperti e senza mai piangere: gli sembra che lo guardi non con lo sguardo velato di un neonato ma con piena coscienza, però, direbbe, senza curiosità alcuna, e anzi con una grande, tranquilla indifferenza.
3 – VINCENZO E ROSALIA VINCONO LA GUERRA
Novembre 1918
L’incertezza è la cosa peggiore. Sarà morto? Vivo? Ferito grave? Giorni e giorni di silenzio pieno di voci, di incertezza, e poi, finalmente, torna dal fronte un compaesano che ha perduto un occhio, per lui ormai la naja è finita, aspetterà il congedo a casa, ed è finita, assicura il commilitone a Rosalia, anche per Vincenzo, perché ha una brutta ferita a una gamba ma non grave, è stato ricoverato in un ospedale da campo lassù in Veneto, in una città che si chiama Treviso vicino a una cittadina che si chiama Vittorio per via dell’emanuele secondo e dove c’è stata una battaglia tremenda: migliaia di morti, decine di migliaia di feriti, e i caduti austriaci dieci volte tanti, e i prigionieri magri da far pena, immaginarsi, più degli italiani, e le strade tutto un rottame, e corpi di uomini e di cavalli falciati dalle mitragliatrici, massacrati dalle bombe che piovevano a grappoli dai biplani Caproni contro i quali ben poco avevano potuto fare gli Albatros prussiani. Massacrati anche i campi, i raccolti, e il reduce, che è contadino e ama il vino, quasi si commuove di più adesso che racconta dei vigneti massacrati, dell’uva matura e anzi rinsecchita che pende inutilmente dalle viti.
Tutto il paese è raccolto in piazza attorno al milite, per riempirgli il bicchiere e ascoltare a bocca aperta il racconto di tanto orrore che il vino e lo sguardo dardeggiante dell’occhio superstite cercano di spacciare per gloria, tutto il paese ma sono quattro gatti, perché tra morti nel