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Povera spia
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E-book143 pagine2 ore

Povera spia

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Info su questo ebook

“Povera spia” è un romanzo esistenziale, il ritratto di un uomo disarmato di fronte alla vita non per stupidità ma perché ne coglie tutto il vuoto, il nulla.
È questa – nulla – la parola chiave di un libro la cui semplicità è solo apparente, perché riflette invece, portandola all’estremo, una situazione assai più frequente di quanto non si pensi. E il titolo, “Povera spia”, valica la barriera del noir per acquistare il suo vero significato: quello di un uomo che la vita può solo spiarla, spettatore di un gioco malinconico che, se è costretto a parteciparvi, diventa disperato.
LinguaItaliano
Data di uscita27 feb 2015
ISBN9786050360707
Povera spia

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    Anteprima del libro

    Povera spia - Franco Mimmi

     Franco Mimmi

    POVERA SPIA

    Infralle cose grandi che infra noi si trovano,

    l'essere del nulla è grandissima.

    Leonardo da Vinci, Codice Atlantico

    Sono ancora vivo

    Sempre lo sorprendeva. Riaprire gli occhi e ritrovare non solo la luce ma anche i ricordi, ritrovare un’esistenza della quale non si sentiva all’altezza sicché gli sembrava neppure un regalo ma un prestito che una notte qualsiasi, qualsiasi notte, poteva essergli esatto. Lo trovava persino giusto, persino naturale, e perciò andare a letto, sentire il sonno che si avvicinava e si impadroniva di lui, forse per sempre, non gli ispirava alcun timore ma solo curiosità, però il risveglio sì, sorpresa e timore per quella nuova giornata con cui confrontarsi e, nonostante un buon sonno tranquillo di otto ore, stanchezza.

    È, semplicemente, l’idea di alzarmi. Di andare. Là fuori. Di fare. Che cosa? Cose. Fare cose che cosa? Che cosa fare? Che fare

    Stirò le gambe, le braccia. Lascia entrare i rumori della casa, acqua nel lavabo della cucina, acqua dallo sciacquone del bagno, stoviglie che si toccano, porte che si aprono e chiudono, tacchi che percuotono le mattonelle della cucina, cigolio del parquet del corridoio, voci. Tre voci che si alternano e si sovrappongono, le due acute dei bambini ancora senza quasi differenza tra la femmina e il maschio, la voce di mezzosoprano di Francesca, tre voci allegre.

    I bambini, capisco: sono bambini. Ma lei? Perché, allegra? Per i bambini? Perché ha i bambini? Ma la cosa più strana

    Finalmente aprì gli occhi, in tempo per vedere Renato fare irruzione e gettarsi sul letto, su di lui, ridendo: Sveglia, sveglia, sveglia, dormiglione, dormiglione, dormiglione! Lo abbraccia, lo bacia, poi corre ad aprire le persiane e torna. Le divisioni con la virgola, dice, non ho capito, spiegamele. La mamma..., azzarda lui. No, no, tu, tu!

    Si solleva, si mette seduto sul letto. Renato gli aggiusta il cuscino dietro la schiena, poi gli appoggia il libro aperto sulle ginocchia. Niente libro, dice lui, dammi un foglio, e mette giù un paio di numeri con la virgola, il dividendo sospeso sul vuoto e il divisore appoggiato sulla sua scaffalatura, incomincia il calcolo e cerca di spiegare ma non riesce a farlo in maniera semplice, Renato lo guarda e scuote la testa, lui ricomincia e sente che non ci riuscirà, la divisione prosegue ma resta misteriosa per il bambino e a un tratto lo diventa anche per lui, non sa più andare avanti. Si ferma e guarda Renato. Hai capito? chiede. Il bimbo fa una smorfia: Mica tanto. Forse, dice lui, oggi si usa un metodo diverso da quando andavo a scuola io, fammi vedere il libro. Tende la mano ma Renato è già sceso dal letto. Non importa, grida correndo via, adesso è tardi, me la spiega Federica per strada. Entra nella camera anche Federica, lo bacia. Ciao papà, sbrigati Renato. Corrono via, una porta sbatte, sono scomparsi.

    Neanche questo. Una divisione con i decimali. Alzarmi? Ovvio che mi spaventa. Poi ci sono le moltiplicazioni, le radici quadrate, le potenze, e io già perduto nella divisione, forse anche nella somma, nella sottrazione di sicuro, e la regola del tre, fondamentale, che cosa dice la regola del tre? E la prova del nove? E le proprietà? Quante sono? Io mi ricordo solo la transitiva: se un numero è uguale a un altro numero, e il secondo è uguale al primo... Ma no, così non funziona, ci deve essere un terzo numero da qualche parte se deve transitare. E tutto questo senza neppure essermi alzato. Ma la cosa più strana

    Si alzò, stirandosi. Si gratta un po’ il vello del petto e i capelli a ricciolini fitti e intricati, quasi la testa di un africano, con tocchi grigi che incominciano ad apparire qua e là. Entra in cucina e si accosta a Francesca che sta lavando le tazze della colazione, le si appoggia alla schiena lasciando pendere le braccia davanti a lei, le appoggia il capo all’incavo dolce tra la testa e la spalla e fa come se volesse rimettersi a dormire lì, coricato su di lei. Francesca ride, assesta con il sedere qualche colpo all’indietro per liberarsi ma lui finge di prenderla come una provocazione erotica, risponde ai colpi mentre lei ride ancora più forte ma poi si libera con un deciso passo laterale, sicché lui rovina sul lavabo ridendo a sua volta.

    Hai visto con che facilità si è liberata? Io di dietro con tutta la mia statura e il mio peso, quasi un metro e ottanta e quasi ottanta chili, quasi venti centimetri più di lei, quasi trenta chili più di lei, e la tengo lì stretta fra me e il lavabo e lei fa un passo di lato e si libera, peso e centimetri inutili, come se non ci fossero, come se non ci fossi. Tutto un simbolo. Per fortuna, d’altra parte, perché stando così le cose

    Francesca gli versò il caffè. Ne prende anche lei un’altra tazzina, gli parla dei bambini, dell’orario per andare a parlare, domani, con i professori di Federica e con il maestro di Renato in vista della fine dell’anno scolastico. Gli chiede se tornerà a casa per pranzo ma lui scuote la testa: Oggi no, è martedì, sai che il martedì mangio sempre fuori. Già, dice Francesca, tutti i martedì, mi piacerebbe proprio conoscere questo tuo misterioso amico che tutti i martedì ti invita nei locali più cari della città, magari scoprirei che è un’amica. Lui ride. Sì, dice, di un metro e novanta e un centinaio di chili, capelli a spazzola e il ridicolo accento di un italoamericano di terza generazione che in realtà non ha mai saputo l’italiano ma solo il dialetto.

    E io, allora? Forse che parlo inglese, io? Con o senza accento. Eppure a scuola un poco l’ho studiato, e mio padre mi mandò un paio di volte in Inghilterra, l’estate, lui e mia madre rinunciando alle vacanze, anche se lei diceva che era un sacrificio inutile, che tanto io non ne avrei approfittato, non avrei imparato. Aveva ragione lei, naturalmente, come sempre, ma quell’omino alla fine riusciva sempre a prevalere, forse per via della divisa, o come diceva lui in nome della coscienza - non lo faccio per lui, lo faccio per la mia coscienza – così loro a casa tutta l’estate – mia madre odiava il dopolavoro degli ufficiali, al mare, il pullman tutte le mattine, meglio a casa, persiane chiuse, penombra, silenzio, non ho mai sentito tanto silenzio – mio fratello a morire di noia in casa dei nonni, in campagna, contadini, i genitori del babbo, e io in Inghilterra a studiare l’inglese. L’ho imparato? Macché. Come diceva mia madre, non mi applicavo abbastanza. Eppure a me sembrava di sì. Quella famiglia che mi ospitava: si mangiava in un modo infame, io nascondevo nel tubo di cartone al centro dei rotoli di carta igienica i panini schifosi che mi davano per mangiarli a scuola, pane di ciclex e formaggio di segatura, li chiamavo sandwich perfida albione, poi lo scoprirono e ci rimasero molto male però mi volevano bene: you are a good boy, Riccardo, mi dicevano, in realtà dicevano Ricaaadou, e io dicevo: I am a good boy, e praticamente non ricordo altro. Ah, sì: la forma interrogativa: am I a good boy? Ma che diavolo ne so. Eppure

    Francesca prese le tazzine per lavarle. Riccardo va in bagno, si toglie il pigiama e incomincia a correre sul posto, tenendosi lo scroto con la mano destra perché non sobbalzi. Incomincia a contare, un numero ogni due passi, con il proposito di arrivare fino a duecento che sono quindi quattrocento passi, in atletica sarebbe un giro di pista abbondante, ma sa bene che correndo così lo sforzo è assai inferiore. Mentre fa l’esercizio si guarda allo specchio, per valutarsi, e ammette che, almeno all’apparenza, ancora la quarantina non gli ha fatto gran danno: ha le spalle quadrate, i pettorali pieni e lisci, stomaco muscoloso e ventre abbastanza piatto, un filo di grasso sui fianchi ma nulla che un poco di esercizio in più non possa sciogliere, i grossi muscoli delle cosce si gonfiano a ogni saltello, arriva ai duecento prefissi senza che il fiato gli venga meno, senza neppure incominciare a sudare. Fa una serie di esercizi per i muscoli del collo e poi si stende, dalle spalle al sedere, sul tappetino del bagno, incrocia le mani dietro la nuca, solleva il busto e lo piega in avanti fin quasi a toccare le ginocchia con la fronte, si ridistende e ripete, dieci volte in tutto, poi si volta e incomincia una serie di flessioni ma arrivato a otto non riesce a risollevarsi, si adagia al suolo per riprendere fiato. Quando si rialza e si guarda allo specchio trova la conferma: quasi una figura d’atleta.

    Sì, la figura. Ma poi? In quanto facevo i cento metri? Anni di allenamento e non sono mai sceso sotto i dodici secondi. E in alto? Mai saltato più di un metro e sessantacinque, era come se avessi il culo di piombo, mi teneva ancorato a terra. Al calcio una schiappa, a pallacanestro era come se giocassero in quattro e io a guardarli, non mi passavano mai la palla tanto era come perderla. Un giorno l’allenatore mi guardò dalla testa ai piedi e poi mi disse: Sai che cosa sei, tu? Un brocco atletico. Gli altri ridevano. Quel coglione. Però aveva ragione, io

    Incominciò, come sempre, col radersi. Poi alza la tavoletta e si siede sulla tazza per evacuare, con la sana regolarità del suo intestino. Da fuori lei gli grida che scende, va al negozio, ciao, hai bisogno di qualcosa? No, grida lui, anche se in realtà vorrebbe chiederle un poco di denaro perché gli resta solo qualche moneta, neppure sufficiente per il secondo caffè della mattina, al bar, neppure sufficiente per il biglietto dell’autobus. La porta si chiude, rumorosamente perché senza sbattere la serratura non funziona, e anche Francesca è fuori. Ha una piccola merceria, che è dove Riccardo l’ha conosciuta dieci anni fa: era uscito di casa senza fazzoletto, è entrato per comprarne uno ed è uscito sposato. Forza i muscoli del ventre e la scarica avviene facilmente, aspetta la seconda.

    Stava leggendo un libro. Sempre, legge un libro. Mi guardò e mi disse: È uscito senza fazzoletto. Così tutto quello che dovetti fare fu sorridere. Lei prese una scatola piatta da uno scaffale, l’aprì un momento e la richiuse scuotendo la testa, ne prese un’altra e l’aprì e disse: Questi sì, questi vanno bene per lei. Prese un fazzoletto, gli tolse l’etichetta del prezzo e poi lo piegò come io non sono mai riuscito a fare e me lo infilò nel taschino della giacca, uno sbuffo bianco, faceva un bell’effetto, mi sentii più completo, così le feci un altro sorriso e le dissi: Grazie, quant’è? ma lei prese dalla scatola un altro fazzoletto e gli tolse l’etichetta e me lo porse: Dovrà mettersene uno anche nella tasca dei pantaloni, no? E io lo presi e sorrisi ma intanto pensavo: Sono fazzoletti fini, con l’orlo fatto a mano, saranno cari, per fortuna oggi ho un po’ di soldi ma resterò con quasi niente in tasca, e intanto lei mi diceva: Mica voglio venderglieli per forza, facciamo così, se indovino quanto è alto me li paga tutti e due, e sennò uno lo ha vinto alla lotteria. Venne fuori da dietro il banco e si chinò per guardarmi le scarpe, lo spessore dei tacchi. Disse: Con una approssimazione di mezzo centimetro in più o in meno, d’accordo? Sì, dissi io con la testa, e lei disse: Un metro e ottanta. Io scossi la testa con un sorriso come se mi dispiacesse per lei, ma mi sentii molto ipocrita perché provavo un gran sollievo, per via dei soldi. Mi dispiace, dissi, ha perso di poco ma ha perso, sono un metro e settantanove, se vuole può controllare. Allora tornò dietro il banco e ne uscì con un metro e io mi tolsi le scarpe, era un paio di mocassini neri che mi piacevano molto e che mi aveva regalato Giorgio quando aveva preso il suo primo stipendio, vieni fratellone, mi disse, anche se lui era cresciuto un paio di centimetri più di me, festeggiamo la ricchezza, e me li tolsi e lei mi spinse contro lo spigolo della vetrina e si alzò sulla punta dei piedi per fare con la matita un segno sopra la mia testa, e mentre mi

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