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Profumo di tiglio
Profumo di tiglio
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E-book287 pagine4 ore

Profumo di tiglio

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Info su questo ebook

“Il tiglio era stato attento uditore delle nostre storie e il suo profumo aveva fatto da cornice alle vicissitudini di un epilogo mai scontato, sussurrandoci l’aura di una certezza: quella che al di sopra di ogni dolore e di ogni tragedia, comunque si fossero conclusi i nostri parziali percorsi di vita, la gioia di rimanere uniti avrebbe continuato ad arricchire i nostri cuori…
Le poche foglie superstiti caddero sulle nostre risate: erano foglie di fine autunno, prive di profumo, ma in noi c’era la forza per immaginarlo, evocarlo. Chiudemmo gli occhi, aspettando che diventasse realtà. E puntualmente arrivò, avvolgendoci con la sua magia. Era lì con noi, perché nel sogno sta il segreto della felicità…
finché si è capaci di sognare la felicità può esistere. E, arrivando, sorprenderci ancora una volta. Come ci sorprende la vita. Ché è vita”.
LinguaItaliano
Data di uscita4 mag 2015
ISBN9786050376623
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    Anteprima del libro

    Profumo di tiglio - Luciana Navone Nosari

    Profumo di tiglio

    La forza delle emozioni

    Luciana Navone Nosari

    Copyright © 2015 Luciana Navone Nosari

    Tutti i diritti riservati.

    Impaginazione e Grafica:

    MdM Edizioni - Torino

    A Nocciolina

    E a tutti coloro che mi amano

    Ringraziamenti

    Grazie, dal più profondo del cuore, a mio marito Beppe, pilastro dei Magnifici Cinque a cui va la mia riconoscenza, per dividere la vita con me ispirandomi e sorprendendomi ogni giorno; e per avermi accompagnata nel dar voce al mio «sogno»: la magica gioia di fermare i pensieri che sapranno stupirmi ancora quando, riscoperti, torneranno nel mio cuore.

    Un grazie del tutto particolare a mia figlia Sara, per i suoi preziosissimi consigli.

    Grazie a tutti gli Amici che hanno ricreato l’incontro con l’albero magico, e che ho soltanto trasformato nelle storie, ma non nei cuori.

    E grazie alla Vita, fonte inesauribile di sogni risvegliati, ritrovati, riamati: stella di un incanto che riesce a sorprendere fino all’ultimo giorno e strumento d’una musica composta con le note di struggenti emozioni.

    IL TIGLIO

    Ci sono attimi in cui una canzone, la scritta su un portone, una fragranza danno vita alle immagini di un ricordo, e con le note ricomparse nella mente fiumi di commozione ci avvincono totalmente.

    Fu così che, in un pomeriggio qualunque della mia vita, dalla finestra si sprigionò un profumo di tiglio talmente intenso da frastornare; mi rapì subito, per trasportarmi fra i rami senza contorni e senza confini della mia infanzia: quella che da un’altalena lanciata ai limiti dell’imprudenza mi faceva restare senza respiro. E percepire per un attimo l’eternità.

    Mi fu subito chiaro che avrei ripercorso i profili del passato, di coloro che avevano attraversato la mia vita: li avrei cullati col canto del tiglio su cui era appesa l’altalena, fata dell’eternità quando la paura cessava di dar alito al mio cuore… che ebbe in dono palpiti remoti da quel profumo, pianista di un concerto chiamato passato. Mi rividi fra l’erba appena tagliata, i fiori di ligustro, le pesche di velluto rosa, le prugne acerbe a raspare tra i denti da latte, come succede quando riaffiora un pensiero fugace, sfumato nelle immagini ma chiaro nel rullio del cuore, o quando i ricordi vengono rapiti, sordi alla fatica della memoria che rincorre il barlume d’un evento celato al paravento del tempo; cerco allora di afferrare la dolcezza delle immagini, per fermarne l’incanto all’ombra della ricordanza.

    Quel pomeriggio dimenticai gli impegni. Assaporai il profumo riemerso all’improvviso, bacchetta magica che ridava vita alla fiaba dell’infanzia. E annullai ogni affanno dalla mente, liberandola al cestino dei ricordi.

    Era stato facile vivere quegli anni... C’era una baracca per gli attrezzi da giardino, ricoperta di un materiale catramato che d’estate faceva morire di caldo, eppure chiudendo la porta di quella «casa» al mondo esterno ci sentivamo liberi, indipendenti, padroni delle nostre vite da favola. Alle bambole di cartapesta davamo voce, movimento e storie: interpreti e protagoniste dei nostri sogni.

    La mia cameretta si apriva su un terrazzino coperto, attorniato da una ringhiera sfiorata dai rami dell’albero magico: il suo fascino mi appariva come un premio immeritato.

    Ora non esistono più né la casa né il balcone; al loro posto c’è un parcheggio, nessuna pianta, tanto meno quella…

    Era ormai sera quando, nel progredire dei pensieri, riapparvero i compagni persi nella strada della vita: decisi allora di contattarli, per non permetterle di scorrere oltre senza sapere cosa fosse successo ai loro cuori…

    Se i primi lustri delle nostre esistenze erano trascorsi, felice limbo esistenziale, in un paese che dista meno di un’ora dalla città, lo avevamo poi lasciato tutti alla ricerca di un lavoro o per proseguire gli studi.

    Supportata dalla guida del telefono e da conoscenti comuni, venni a sapere che alcuni si erano trasferiti, come me, a Torino, altri nella prima cintura; non ebbi quindi difficoltà a rintracciarli e a invitarli a raggiungermi.

    L’albero che mi aveva sorpresa e deliziata donandomi il profumo del passato troneggiava su alcune panchine di foggia antica. Stava al centro di una piccola corte sotto casa, custode secolare di chissà quante storie, trascurato da cittadini disattenti al conforto della sua ombra.

    Risposero al mio invito Marzia e Sergio, che avevo lasciato innamorati da sempre senza mai confessarselo, Cora, Orfeo, Bruno, Micol, Francesca e Gualtiero. Mi raggiunsero un sabato pomeriggio di fine maggio parco di sole, con lievi ombre ad ondeggiare incerte tra i fiori del tiglio, le nostre vite anche loro già un poco in ombra: quella di un’età che ha tante cose da ricordare e raccontare…

    Mentre avanzavano, i loro passi parlavano sottovoce, attenti a non disturbare la magia di quel quadro pensato nell’immaginario e osservato furtivamente nella realtà acquerellata.

    E tutto ebbe inizio lì, da un semplice incontro tra vecchi amici mai dimenticati, solo riposti in un angolo del cuore a riposare un sonno vigile, pronto a destarsi al richiamo dei ricordi comuni.

    Tutto era come al principio, ancor prima di cominciare…

    Dopo i primi momenti di sguardi emozionati, le voci e i racconti si sovrapposero gli uni agli altri e non si riusciva ad ascoltare tutto quanto veniva detto. Cercai Marzia, che aveva condiviso con me più di ogni altro giochi, sogni e speranze, e abbracciandola le chiesi: - Che cosa stai facendo in questo momento? - Sapevo che da anni aveva divorziato dal marito, ma non conoscevo nulla della sua vita da single.

    - Da quando ho lasciato Fausto, e di questo credo siate tutti al corrente, mi occupo dell’infanzia abbandonata, sia in Italia sia all’estero - rispose «la rossa» del gruppo, facendo intendere di non avere altro da aggiungere. Mi venne da pensare che quel tono sbrigativo nascondesse in realtà un certo malessere.

    - Anch’io sono solo - intervenne Bruno. - Il mio è stato un matrimonio lampo: pochi mesi di convivenza sono stati sufficienti a farmi capire che non sono tagliato per la vita a due.

    - Se c’è qualcuno fra noi che è riuscito a far durare un matrimonio alzi la mano - disse ironicamente Gualtiero.

    - Devi sempre mettere tutto sul ridere - lo rimproverai scherzosamente - io ho superato le nozze d’argento!

    - Anch’io - esclamò, mi parve mestamente, Micol.

    - Mi aggiungo al gruppo - dichiarò Cora.

    - Sicuramente mi salvo io - scherzò Francesca, che era una suora.

    - Invece il mio tentativo - s’inserì Sergio, di cui conoscevo ben poco, dopo averlo lasciato a sognare di Marzia - è finito male -. Il tono con cui pronunciò queste parole lasciò trasparire un palese sforzo per apparire allegro.

    - Ho avuto ragione io a non provarci - esclamò con baldanza Orfeo, che era il classico «scapolo d’oro». Trascorreva la sua vita fra l’ufficio dello studio e quello gemello allestito nella casa patronale, dove aveva continuato a vivere anche dopo la laurea. Sino ai tempi del liceo era vissuto a Villar Perosa, dove si trovano le radici della nostra amicizia, in una casa molto spaziosa che ospitava un nugolo di figli e nipoti, poi tutta la famiglia si era trasferita in un casale a pochi chilometri da Torino. Era sempre stato canzonato per quello strano nome, impostogli da genitori amanti dei testi greci. Chi lo udiva per la prima volta, a stento riusciva a nascondere curiosità o ilarità e l’abitudine a questa reazione l’aveva indotto a non prendere mai troppo sul serio i propri interlocutori, perlomeno all’inizio delle frequentazioni.

    Mentre osservavo l’arancio vivo del tramonto, che avvolgeva i fiori del tiglio sfumandone d’oro le foglie argentee, mi parve di avere la certezza che lo scrigno dell’amicizia, aperto da un’atavica chiave, avrebbe saputo schiuderci i cuori.

    - Come stanno i tuoi fratelli, sorelle e nipoti, Orfeo? - domandai, senza prestare orecchio alla risposta perché distratta da un movimento a una finestra, ma non fui la sola a infrangere il filo conduttore col passato.

    - L’ho vista, Maddalena, l’ho vista anch’io - esclamò Gualtiero, un aitante commissario di Polizia. Evidentemente aveva colto la curiosità che avevano destato, in me, delle tendine scostate al quarto piano del palazzo.

    - Che cosa state confabulando? - chiese Cora.

    - Avete sentito parlare dell’omicidio Federici? - domandai.

    - Come no! - intervenne Orfeo - conoscevo bene quel magistrato!

    - Che cosa c’entra con voi due? - si meravigliò Marzia.

    - Il delitto è avvenuto nel cortile adiacente, che ha un ingresso in comune con questo edificio – precisai. La notizia suscitò uno stupore corale, un chiacchiericcio fitto fitto.

    - Di quale delitto si tratta? - si meravigliò l’amica suora - e perché tu e Gualtiero continuate a guardare verso un piano alto?

    - Un paio di volte ho visto delle tende scostarsi, forse guardavano lì - ipotizzò Marzia.

    - Mi è parso di intravedere una donna - precisò Sergio.

    - Credevo che l’omicidio vi interessasse più della figura alla finestra, o volete parlare di quella? - ridacchiai.

    - Di tutti e due – replicò, decisa, Francesca.

    - Conosciamo tutti questa vicenda, credo - esclamò Bruno - ma non sapevo, all’epoca, che abitassi qui e quindi non vi ho collegate. Però tu e Gualtiero dovete spiegarci le vostre occhiate d’intesa. Non ditemi che vi siete in quell’occasione…

    - In realtà, è così -. La mia risposta scatenò un fiume di domande. Li meravigliava che addirittura due dei loro amici fossero coinvolti in quel tragico avvenimento.

    - Calmatevi… - esclamò il commissario, che sembrava in imbarazzo. Era un bell’uomo alto dalla voce baritonale, che parlava gesticolando e accompagnando le parole con espressioni vivaci, scegliendo sapientemente le giuste pause a sottolineare le frasi più significative; pareva cercasse, in quei momenti, di indovinare le reazioni altrui.

    - Raccontate tutto da capo - s’infervorò Francesca, la cui veste non l’aveva evidentemente privata dell’umana curiosità per gli eventi straordinari della cronaca. - Anche se gli altri conoscono già i fatti, li riascolteranno - concluse con fiero candore.

    - Commissario Gualtiero Magli, potrebbe raccontare quanto è accaduto? - domandai tra il serio e il faceto.

    - Preferisco lo faccia tu - asserì con tono autoritario. Fu così che iniziai a illustrare il nostro recente incontro, esponendo gli eventi che ci avevano fatti ritrovare.

    - Il mese scorso, di prima mattina, mi stavo gustando il caffè quando un urlo straziante mi fece cadere la tazzina per terra. Il grido proveniva dal cortile, quindi mi precipitai sul balcone senza neppure infilarmi la vestaglia. Vidi sotto di me una donna, proprietaria di un magazzino di scarpe al piano terreno, urlare disperatamente e ininterrottamente, coprendosi il viso con le mani. Correva avanti e indietro, chiedendo aiuto. Finalmente apparve anche la custode, richiamata da quelle grida e visibilmente allarmata, e nonostante mi sentissi gelare le ossa continuai a seguire la scena. «Signora, che cosa succede?» domandò. «C’è un morto, un morto là dentro.» «Un morto!» esclamai, e dovetti ripeterlo alle vicine di casa, che uscivano man mano sui balconi… ma in vestaglia. Ero sbalordita, come tutti i presenti. Quando il cortile cominciò a riempirsi di gente, gli sguardi ai balconi affollati di persone, mi decisi a rientrare per rendermi presentabile. Arrivò quasi subito la polizia, che ordinò a tutti di ritornare nei propri appartamenti. Si venne a sapere che la proprietaria del magazzino aveva trovato il cadavere di un uomo, tra decine di scatole sparse sul pavimento. Prima da qualche indiscrezione carpita dalla custode alla polizia, e in seguito dai giornali, seppi che il cadavere apparteneva a un magistrato molto noto a Torino. I quotidiani lo descrissero come un uomo irreprensibile, sposato e senza figli. La sera dell’omicidio aveva avvisato la moglie che non sarebbe rientrato a casa, dovendo dedicare tutta la notte allo studio di una complicata e delicata indagine. La sua assenza non aveva pertanto creato allarme in famiglia, anche perché non era insolito che si trattenesse a lungo in ufficio. Si scandagliarono la sua vita privata e quella professionale, ma dalle prime indagini non affiorò nulla di rilevante. Solo dopo qualche giorno «La Stampa» informò i lettori della scoperta di un pied à terre affittato a nome del magistrato nella zona del Lingotto. Da indiscrezioni che all’epoca non trovarono conferma, perlomeno così si disse… - cercai un commento da Gualtiero, ma questi rimase impassibile, lo sguardo al cielo - pare che nel mini alloggio vi fosse una telecamera nascosta in uno specchio. Ovviamente per gli abitanti del palazzo fu uno choc tremendo; non si parlava d’altro, ma il mistero aleggiava su tutta la vicenda.

    Trascorsa una settimana dal delitto, un pomeriggio sentii suonare il campanello della porta e vi lascio immaginare la sorpresa quando mi trovai di fronte, insieme ad altri due poliziotti, la figura inconfondibile di Gualtiero! Dopo i convenevoli del caso, mi disse che doveva interrogarmi, come stava facendo con gli altri inquilini. Riferii di aver udito l’urlo straziante e di aver visto, subito dopo, la proprietaria del magazzino in preda a un terrore incontrollabile.

    A quel punto mi sentii in dovere di parlare dell’inquilina del quarto piano. - Qui entra in causa la persona che ci ha incuriositi scostando le tendine della finestra, Costanza Betti. A mio avviso è una figura molto misteriosa.

    - Sei sempre la solita, alla ricerca di segreti da scoprire… - decretò Bruno.

    - Invece ha ragione! - esclamò Gualtiero. - Attorno a questo personaggio aleggia un non so che di tenebroso.

    - È arrivata qui alcuni anni fa e nessuno sapeva nulla di lei… Ci siamo sempre limitate al «buongiorno, buonasera». Comunque, è una donna bella…

    - Direi interessante - m’interruppe Gualtiero.

    - Sono d’accordo. Interessante, ma principalmente, profondamente e incontestabilmente misteriosa.

    - In base a che cosa, la trovi misteriosa? - domandò Cora.

    - Se la vedessi lo capiresti subito… Immaginatevi una donna di media statura, con i capelli nerissimi, dritti, a sfiorare appena le spalle, che a intervalli regolari sistema dietro le orecchie, prima a destra e poi a sinistra. Ha degli occhi azzurri, glaciali e magnetici, una bocca che socchiude appena quando parla e il suo sorriso… a dire il vero credo di non averla mai vista sorridere, quindi non posso descriverlo. Appare snella, ma non è certo magra. Ha un corpo sinuoso, sostenuto da gambe molto belle, un modo di camminare lento, con lunghe falcate che fanno temere di vederla cadere al passo successivo; sembra infatti sempre in bilico, su tacchi incredibilmente alti a ogni ora del giorno, persino quando scende in cortile per vuotare il pattume nei bidoni. Non so se sia per quell’andatura, o per l’espressione che pare domandarti: «che cosa vuoi, perché mi guardi così...?» ma credo faccia impazzire gli uomini. Ho notato come la osservano, mentre incede sul marciapiede, sempre vestita di nero, con uno sguardo inquisitore…

    - Che cosa c’entra con l’omicidio? - chiese Marzia.

    - Non so, forse nulla. Gualtiero potrebbe dirci di più, ma non credo lo voglia fare… - Lo guardai: rimase impassibile. - Si è parlato di una signora, abitante in questo palazzo, che conosceva il magistrato, e di un suo interrogatorio, senza però svelarne l’identità. Ho creduto… mi è sembrato… di poter risalire, dalla descrizione fatta, alla signora Betti, ma sono pure illazioni. E in ogni caso l’assassino non è stato trovato…

    Ci voltammo tutti verso il commissario. - Fino ad ora non c’è stato alcun arresto - si limitò a dire.

    Le pennellate dorate sulle foglie del tiglio e l’arancio dei fiori erano ormai scomparsi. Avevano dapprima lasciato il posto a un rosso rubino, poi a purpurei aloni, che dalla fioca luce di un lampione gettavano lunghe ombre a celare forme precise.

    - Cari amici, che cosa ne direste di trasferirci a casa mia per una spaghettata? - proposi.

    LA SIGNORA IN NERO

    Due giorni dopo la «signora in nero», come nel cortile del tiglio avevamo soprannominato Costanza Betti, suonò alla mia porta, segnando l’inizio di un’avventura che avrebbe lasciato tracce indelebili sulle vite di tutti noi.

    - Scusi se la disturbo - esordì, insolitamente impacciata - ma dovrei parlarle. Quando può trovare un momento da dedicarmi? - Fu tale la sorpresa, ed era tale la curiosità, che immediatamente cancellai dalla mente ogni impegno: dovevo, volevo assolutamente sapere che cosa avesse intenzione di dirmi quella donna.

    - Anche adesso - risposi. Dovetti stupirla con la mia disponibilità, perché un leggero guizzo di meraviglia le attraversò lo sguardo di ghiaccio. Prese posto su una poltrona, le gambe unite da sembrare incollate, il busto proteso in avanti, le mani appoggiate l’una sull’altra sopra un ginocchio, lo sguardo piantato nelle mie pupille con aria di sfida. Privo di timore.

    Quell’atteggiamento suscitò in me un moto di stizza. Che cosa voleva da me quella donna tutta rigida e composta, come le veniva in mente di sfidarmi con un’espressione tanto altera? Mi imposi di essere cortese e di offrirle un caffè, che come da copione rifiutò. Non parlò per alcuni minuti, rispondendo con monosillabi alle mie domande che dovettero apparirle banali, sciocche, prive di nesso con quella visita, dal momento che sollevò a più riprese un sopracciglio.

    Finalmente iniziò a parlare. I suoi erano sussurri e dava l’impressione di faticare a far uscire le parole dalla bocca appena socchiusa; il tono di voce era talmente basso che dovetti concentrarmi per non perdere nulla di quanto stava dicendo.

    – Signora… volevo dirle che l’altro giorno, per puro caso glielo assicuro, affacciandomi a una finestra che dà sul cortile, dove c’è quel grande albero di tiglio, ho notato un gruppo di persone insieme a lei. E fra queste c’era il commissario Magli -. Sospese di parlare per qualche istante, aspettando un mio cenno d’assenso che le giunse, puntuale. - Ricorderà come siamo stati tutti bersagliati, nella casa, dagli interrogatori legati all’omicidio del mese scorso…

    - Certo che lo ricordo: è stata la logica conseguenza di quel fatto così terribile!

    Ancora una pausa. - Mi è parso che il commissario guardasse verso la mia finestra e poi si rivolgesse a lei…

    - Può darsi, non ricordo, ma se così è stato si è trattato di una casualità. Certamente nessuno di noi due intendeva spiarla …

    - Non mi fraintenda, la prego. Non penso che lei e il commissario possiate… - Questa volta si interruppe perché qualcosa, nella gola, le impedì di parlare. Forse un singhiozzo? O un momento di commozione? - Le chiedo scusa, so che non avrei dovuto disturbarla per un motivo così sciocco, ma quel delitto è stato terribile, proprio sotto casa nostra, non riesco a non pensarci. La notte ho degli incubi…

    - È normale signora, ci ha sconvolti tutti, e poi… non si sa neppure chi sia stato…

    - Il commissario non sa… ma lei lo conosce? Scusi la curiosità…

    - Siamo compagni d’infanzia.

    - Non le ha detto nulla di nuovo?

    - Nulla. E d’altronde non potrebbe neppure…

    - Sì, è naturale -. Si alzò. Lentamente, parve esitando, o forse era il suo modo di fare. Rimase un momento a guardarmi dritto negli occhi ancora una volta, poi mi porse la mano e si lasciò accompagnare alla porta. Fui pervasa da una sensazione di pena; mi apparve all’improvviso molto più fragile di quanto volesse far credere. Ebbi addirittura l’impressione che un qualcosa di terribile la tormentasse, al punto da impedirle di condurre una vita accettabile.

    - Signora - esclamai sfiorandole una spalla, ritenendo troppo «intimo» e amichevole prendere la mano a un tipo talmente enigmatico - se posso fare qualcosa per lei… se desiderasse parlarmi, venirmi a trovare o anche solo a prendere un caffè, lo faccia senza alcuna remora. Mi farà piacere…

    - La ringrazio. Lei è molto gentile. Se fosse… sì grazie, forse lo potrei fare… - La osservai, da dietro… che curiosa figura! Appariva sempre tanto sicura di sé, impettita, altera, ma adesso mi sembrava persino un po’ curva: curva sotto un peso più grande di lei. Mi domandai quale fosse il vero motivo di quella visita e non seppi rispondere al dubbio legato a quella pausa di gola. Era stata commozione, paura… o aveva soltanto inteso prendere fiato? Pensai di parlare di quella visita con Gualtiero, alla prima occasione.

    Pochi giorni dopo, scorrendo le pagine della cronaca cittadina, un grido mi uscì spontaneo: - Brutto mascalzone, non ti sei lasciato sfuggire niente! - E compresi il motivo dell’apprensione di Costanza. L’articolo, a caratteri cubitali, stupiva il lettore con il titolo: UNA DONNA DEL PALAZZO CONOSCEVA BENE IL MAGISTRATO. Lessi avidamente ogni parola. La fretta mi faceva saltare ogni tanto una riga, non capivo il senso della frase, dovevo tornare indietro e perdevo tempo… Pareva provato che Costanza Betti conoscesse il magistrato e l’avesse frequentato. Il cronista riusciva a insinuare il sospetto di una relazione misteriosa, addirittura losca, dietro a quella conoscenza.

    Ci ritrovammo nel cortile del tiglio. Non cercai pretesti: non servivano. Il mistero aveva preso tutti. Gualtiero si presentò più tardi, apparentemente tranquillo, ma subito ci chiese di non domandargli nulla sul delitto.

    - Bravo! - lo apostrofai. - Noi ci riuniamo per avere delle anticipazioni e tu prometti una bocca cucita… - Era ovvio che non potesse raccontare niente più di quanto apparso nell’articolo e ci limitammo a commentare la nuova scoperta, lasciando alla fantasia il compito di formulare le ipotesi più svariate. Gli riferii il mio incontro con Costanza e si dichiarò stupito da quello che definì un «cedimento emotivo» inconsueto per quella donna, apparentemente tanto fredda e misurata nelle azioni.

    Non affrontammo altro argomento all’infuori di quello; i dettagli del passato potevano attendere, quindi ci lasciammo andare a formulare congetture, dando libero sfogo all’immaginazione. Non sapevo spiegarmi l’interesse, che poteva apparire morboso, verso quel fatto, ma in realtà ne eravamo attratti come se una forza incontenibile ci spingesse ad analizzarne il mistero.

    Il giorno successivo Costanza si ripresentò alla mia porta. Sembrava più disponibile nell’atteggiamento, meno frenata nei gesti e accennò persino un sorriso, lasciando appena intravedere dei denti bianchi, regolari, schiusi sotto labbra carnose e ben delineate. - Posso parlarle un momento? Immagino abbia letto l’articolo che parla di me - esordì, senza neppure tentare qualche preambolo.

    - L’ho fatto - risposi.

    - Ieri ho avuto modo di vedere che vi siete di nuovo trovati con il commissario Magli -. Non fui stupita da quell’affermazione.

    - Infatti… La verità è molto semplice: poco tempo fa ho rintracciato un gruppo di amici d’infanzia persi di vista per trent’anni, di cui fa parte il commissario; la sua presenza è dovuta soltanto alla vecchia conoscenza e non ha alcun nesso con il delitto.

    - Capisco - si limitò

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