Sole rosso - racconti
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Sole rosso - racconti - Federica Bernardini
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Vivo dentro la camera degli ospiti
La mia immagine nello specchio
Sono tornata nell’ombra di terra del mio desolato paese, dentro un terrazzo di turchese morbido, dove sono nata e dove ho deciso che morirò rincorrendo orme battute dal vento, gocce di tramontana nel mio nido vuoto, nella mia veste solita, costruita con aghi di pino.
Riccioli di nubi incoronano uno spicchio di luna, appena visibile nella luce del tramonto, sopra i monti già perduti nella notte. Strade vuote e nel cuore l’eco di mille voci.
Bagliori dell’anima sopra vetri che rubavano calore al fuoco per riscaldare le mani mie di bimba. Mio padre costruiva per me il suo presepe, di nascosto, privo di prospettiva, povero San Giuseppe, senza l’amore della sua Madonna.
Lacrime dietro porte che non conoscevano sussulti d’amore, e le voci, quelle voci, che ferivano l’aria.
I miei occhi sbarrati nelle notti d’inverno, quando il vento sibila dalle finestre come un lamento fra gli alberi. Tu arrivavi e la stanza fioriva di luce.
Il mio Natale si realizzava nel tepore fioco di povere candele, in una chiesa disegnata di neve, nella pastorale, sempre la stessa, suonata da un contadino lungo la strada indurita dal gelo e dentro le mani, aggrappate alle tue.
Nascondevo mia madre dietro carezze rassicuranti che inventava la bambina di un tempo, negli occhi sbarrati, pieni di paura, quando il sibilo gelido e lamentoso del vento penetrava dalle finestre che scricchiolavano al minimo movimento.
Avevo un gatto. Si chiamava Trambusto, lui sì che mi amava…
«Trambusto non muoverti…»
«Quel gatto maledetto non può stare con la bambina malata!»
«Trambusto non muoverti!»
E tu scivolavi nel letto, non ero più sola. Eri un gatto… Meglio un gatto che sola.
Attendevo il mattino con la speranza di scoprire un sorriso negli occhi neri e lucenti come notti d’estate, ma il tempo invidioso le aveva rubato la gioia.
La cercavo nelle notti insonni, compagne di insoliti turbamenti, con la voglia di tenerezza che ti prendeva nell’attimo fugace del commiato, mentre scorreva ancora sulla pelle il sospiro dei desideri, quando mi concedevo alla carezza della sabbia perché era giunto il tempo dell’amore. Dietro una porta chiusa ascoltavo i suoi passi che scomparivano dagli ideali della mia giovinezza.
Cercavo mia madre per le strade del paese dove le vecchie, vecchie ancor prima di nascere, dissacravano con un piacere morboso ogni gesto più puro, nella casa di allora, insensibile all’usura del tempo, tra le fenditure dei muri dove scomparivano impulsi irrequieti di giovinezza, dietro persiane scolorite, negli sguardi indiscreti della gente.
Anche oggi mi illudo di trovare mia madre e le tendo una mano, nella maturità dei pensieri che inventano ancora una sua carezza.
Questo mondo, volutamente dimenticato per liberare la mia giovinezza mi avvolge oggi in un tenero abbraccio. Vorrei trovare dentro me un posto dove nascondere un’ultima speranza di felicità, vorrei capire dove ho sbagliato quando incontro gli occhi assenti di mia figlia, fragile come un respiro, quando il freddo penetra nel mio corpo, nelle notti silenziose, da condividere con il mio dolore.
Vorrei addormentarmi e non svegliarmi più per non vedere la mia immagine riflessa in uno specchio.
Anche tu sei partito
Anche tu sei partito per l’ultimo viaggio che non conosce favori.
Una parte di me ti sarà accanto in quella valle di luce che ti ha indicato il destino, con un biglietto di sola andata.
Piove oggi, gocce sottili cadono apatiche a sfiorare le strade e mi scavano dentro.
Tu eri musica che scaturiva dalle dita sempre pronte a far vibrare una tastiera.
Gli amici disertavano quella topaia scura e le note, a volte lente come preghiere, disegnavano fonti di colore, dove il sole transitava di sbieco.
Ridevi spesso, quasi convulsamente, poi di scatto fuggiva il tuo pensiero.
In un tramonto che preannunciava gelo si diffuse nell’aria un brano sulla crocifissione.
Sopra la polvere di un povero tappeto consumato si elevava il dolore comprimendo l’aria.
Lunghi discorsi, consigli mai ascoltati e non capivi che lei ti stava già lasciando.
I nostri cappuccini, consumati al mattino, prima del lavoro.
Lo stesso bar, sempre le stesse facce, il giornale diviso in due, litigando contenti sulla politica, io da una parte, e tu dall’altra.
Il nostro rito per incontrarci e inaugurare il giorno; quando era il momento di pagare, mi fregavi sempre. Io mi arrabbiavo, tu rispondevi: «Tocca a me, perché io capisco di più…». Ma era già pronta quella veloce carezza.
Ora sei lì, dove non so, non voglio neanche immaginarlo, ma sono certa che lungo quella strada c’è una folla che ascolta i tuoi CD.
Ti abbraccio forte. Che cosa stai facendo adesso nella tua nuova vita? È come questa, piena di sogni e di dolore?
Federica
Gracias a la vida (Para que nunca más)
Costruire uno spettacolo sul golpe dell’undici settembre ’73 a Santiago è una bella impresa.
Qualcuno si chiederà perché l’undici settembre ’73 e non l’undici settembre 2001. Entrambe situazioni drammatiche che hanno lasciato nel cuore di ognuno di noi un ricordo indelebile, in quanti però ricordiamo ancora con coerenza e al di fuori della politica ciò che avvenne in Cile?
È difficile creare uno spettacolo su un argomento così particolare, ma grazie all’aiuto del mio gruppo teatrale e all’immenso amore che nutro per questa terra credo di esserci riuscita.
Leggendo, ascoltando musica, testimonianze sonore originali, ho costruito un testo d’impatto.
Grande emozione la sera della prima.
Alle venti ci è stata confermata la presenza in sala di Sergio Vuskovic, sindaco di Valparaíso all’epoca di Allende. Una delle testimonianze da me scelte sulle torture inflitte ai prigionieri all’Estadio Chile è la sua.
Non sono riuscita a mantenere la calma. I ragazzi erano in palla.
Elvira, dolce e silenziosa, girava per i camerini chiacchierando in continuazione, la voce di Fabrizio era calata di tono, Claudio, il colosso, sembrava un bambino alla recita della scuola. Steven e Carla volteggiavano sul palco con i loro passi di danza. Due creature alle quali sono molto affezionata. Lei vent’anni, dominicana, lui trenta, rom. Una vita alle spalle da dimenticare.
Lo spettacolo è iniziato dall’isola grande di Chiloé, patria di Francisco Coloane, regione la cui vita è regolata dai flussi e riflussi oceanici determinati dalla luna. Laggiù piove in mille forme diverse, con cieli che minacciano uragani che cadono sui cimiteri dove i morti riposano tra le conchiglie.