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Siciliani si nasce
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E-book219 pagine3 ore

Siciliani si nasce

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Info su questo ebook

A Palermo c’è tutto e il contrario di tutto, scrive l’Autore. E su Palermo si è scritto tutto e il suo contrario. Schiraldi per “spiegare” (a noi e a se stesso) la sua città ha preferito incominciare a parlarci dei suoi amici e così, con naturalezza, ci da la chiave per comprendere non solo Palermo, ma una società, una civiltà, con suoi splendori, i suoi orrori, incubi e sogni.
Che cosa fa un giovane a Palermo? Spera di andarsene. Forse non partirà mai, ma se parte, fin dal primo giorno pensa di tornare e sa già, magari, che questo ritorno non avverrà mai. Soprattutto, se resta, non perdonerà chi è riuscito a partire (o tradire?), sia se avrà successo, sia se fallirà. Palermo è una città con cui è impossibile spezzare il cordone ombelicale, Schiraldi lo sa bene e non lo tenta nemmeno. Il rapporto rimane quello di una madre e di suo figlio: due entità distinte ma irrimediabilmente unite.
E l’unico modo di criticare una madre, dice fra le righe, è di dimostrarle il proprio amore. E criticare una madre significa anche criticare se stessi: forse non c’è città meno italiana di Palermo, e forse in fondo non c’è città che riassuma meglio tutte le contraddizioni del nostro Paese.
Capire Palermo significa anche capire l’Italia.
LinguaItaliano
Data di uscita18 mag 2011
ISBN9788863690965
Siciliani si nasce

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    Anteprima del libro

    Siciliani si nasce - Vittorio Schiraldi

    romanzo.

    Perché Palermo

    Io ero ragazzo e i nobili erano ancora persone importanti, la vetrina di una Sicilia che amava farsi raccontare attraverso le loro storie. I palazzi della Gancia o della Fieravecchia, in via del Merlo o a via del Pappagallo, dove passavano a stento le carrozze, le villette liberty sul viale della Libertà, erano le loro case, il chiuso di un mondo che cominciava a scomparire sotto gli occhi di tutti ma senza darne l’avviso.

    La gente percorreva la città per andare a vederli quando si accendevano i riflettori sulle prime del «Massimo» e i lampi dei fotografi, gelavano nel buio le immagini di un passato che rappresentava se stesso. I principi Lanza di Trabia, il duca di Archirafi., il principe Starrabba di Giardinelli, i principi Turrisi Grifeo di Partanna Paternò Castello di Carcaci, il conte e la contessa di Sarzana, i principi di Mazzarino, di Mirto, di San Vincenzo, di Tortorici: erano quelli i personaggi.

    Salivano con donne bellissime su per la scalinata del teatro, con movenze antiche e sapienti, offrendosi agli sguardi della folla che se li indicava bisbigliandone i nomi, mai direttamente pronunciati e sempre tacitamente riveriti, come si è sempre fatto coi padroni. Gli altri, i nobili li osservavano puntando i binocoli sui quattro palchi della «barcaccia», riservati per tradizione ai soci del circolo Bellini, dove il Lampedusa aveva appena iniziato a scrivere II Gattopardo, o in primavera sulle tribune della Targa Florio, a Cerda, dove correvano i baroni, "gentlemen driver" che facevano del circuito la loro kermesse mondana.

    Io ero ragazzo e quei personaggi li vedevo l’indomani in fotografia, nella bacheca del «Giornale di Sicilia» a piazza Politeama, dove ci si dava appuntamento per fare i programmi della sera. Per strada si incontravano raramente ma di molti si narravano le stravaganze, occasione residua per sopravvivere e sentirsi ancora protagonisti. Il barone Cupane si inviava dei telegrammi a domicilio per farsi svegliare dal postino, il barone La Lomia, con la barba di mangiafuoco e il vestito nero preso a prestito a un quadro di Toulose Loutrec, dedicava la sua vita a una fama di eccentrico che riempiva i salotti di stupore. Un giorno arrivò a fìngersi morto, facendosi trovare sopra un catafalco nel suo palazzo, per scoprire chi gli voleva bene e sarebbe venuto a rimpiangerlo.

    Passavano gli anni e i giovani non guardavano più la bacheca, forse intuendo che non custodiva più l’effigie del potere ma non sapendo nemmeno dove trovarlo. Dei nobili non parlava nessuno, né dei nuovi padroni che facevano il sacco di Palermo negli anni del boom edilizio, gente che non cercava un palco a teatro o una foto in bacheca, già paga di non trovarla in cronaca nera. Tutto si era già modificato ma sotto contorni impalpabili o dietro segni che si era restii a percepire.

    Il vento della politica cominciò a soffiare violento, nacquero altri servi e altri signori, i palazzi antichi furono spogliati di beni per arricchire nuove dimore, poi sparirono o si ischeletrirono come rami ormai secchi. In viale della Libertà, boulevard fra i più belli del mondo, ad una ad una si spegnevano le facciate delle villette liberty disegnate dall’architetto Basile, Palermo cancellava la memoria del suo passato. Presto il passeggio a piazza Politeama non fu più passerella. In quei cento metri di strada già si consumavano sogni e parole che si facevano rabbia e disperazione. Via Ruggero Settimo, «salotto di Palermo», divenne sala d’attesa di tante speranze frustrate, un tunnel senza speranza che aveva sbocco solo oltre lo Stretto.

    Più la città si ingrandiva e minore era lo spazio per viverci. Bisognava emigrare e in quegli anni Sessanta riprese la grande emorragia che non verrà mai sanata. Operai, disoccupati, giovani in cerca di una sola occasione andavano verso la Svizzera, il Belgio e la Germania lasciando le famiglie e portandosi via un carrettino siciliano e un sacco di limoni, i colori e il profumo della loro terra. E dietro di loro, a Roma per un concorso, a Milano dove si poteva lavorare, a Torino dove si studiava, sparirono altre energie, intelligenze mai sperimentate. Chi esce riesce. Era il proverbio, il viatico per chi se ne andava, l’augurio per non vederlo tornare, l’alibi di uno stato di necessità. Ogni giorno mancava qualcuno all’appuntamento alla bacheca o all’ora dell’aperitivo al bar del viale. Palermo scriveva uno Spoon River senza rimpianti le cui ultime pagine non sono ancora ultimate.

    Me ne andai anch’io una mattina, dopo cinque anni di lavoro nero nell’ufficio di corrispondenza di un quotidiano romano, dopo tanto girovagare da un giornale all’altro e promesse bugiarde, aspettando un contratto che non sarebbe arrivato.

    All’improvviso era giunto un altro caporedattore e disse subito che eravamo in troppi a sperare. A fare cronaca c’erano due ragazzi, a lui ne bastava uno solo. «Non lasciate a me la decisione, mettetevi d’accordo tra voi, chi resta, domattina dovrà presentarsi in ufficio.» Furono queste le parole e non ci furono congedi. In due scendemmo con l’animo a pezzi, lasciando il grattacielo che sentivamo un po’ nostro, l’unico a Palermo, nel quale ci eravamo illusi di appartenere a una diversa realtà che sembrava finalmente avesse trovato spazio. Piazza Ungheria era spoglia, spirava un vento stranamente gelido se ci dava freddo quella sera, e tutti e due ci guardavamo senza riuscire a odiarci. Dopo pochi metri tirai fuori una moneta e di colpo ci trovammo a giocarci a testa e croce i residui delle nostre speranze perdute. Lanciai la moneta, persi, partii.

    Ora i palazzi della Gancia sono puntellati da travi pesanti che ne sostengono una decrepitezza ormai inutile, i baroni fanno i concessionari di auto e moto giapponesi, la villa dell’Olivuzza che ospitò lo zar Nicola II è un patetico rudere, i saloni di Palazzo Butera, il cui fascino aveva incantato l’imperatore di Germania, sono in affitto a una scuola per operatori turistici. Via della Libertà, dove sovente in tempi lontani si vedeva Guglielmo II a passeggio con l’imperatrice, non ha più villette, né prati né magnolie o limoni e profumo di zagara e il verde è stato seppellito sotto i palazzi in vetrocemento, pietre funerarie di una speculazione ottusa e maldestra. I palazzi sono cresciuti uno addosso all’altro, verdi, azzurri, violetti e pistacchio, con tutti i colori di una carnevalata arrogante e pacchiana. A piazza Politeama da un pezzo non c’è pia la bacheca e la pubblicità copre tutta la facciata di un edificio sventrato dove nascerà un altro mostro. Sulle strade c’è un’orgia di insegne chiassose e ridicole, certo la più alta concentrazione di qualsiasi città di frontiera. Pizzerie che si chiamano Madison, negozi di abbigliamento battezzati Pop corn, boutiques esclusive che si chiamano People, e poi ancora Bunny, Pick up, Take off, Young lady, Pretty woman, Foot man, Excellence, The best, Carry away e cento altre scritte, rubate a Regent Street o all’incerto ricordo delle lezioni alla Berlitz.

    In questo colossale bazar dove si festeggia lo sbarco degli americani con quarant’anni di ritardo, il macellaio e il pescivendolo cercano di mettersi in regola e inventano la Boutique della carne e la Boutique del pesce. Il barbiere del centro è diventato Beauty parlor for man mentre nel vicolo Bara c’è ancora la bottega del Diplomatico del capello e al rione Capo la bettola del Professore del brodo perché la fantasia è rimasta ricchezza dei poveri. I ristoranti di lusso si chiamano Charleston e Gourmand’s e sembrano promettere tutto tranne che l’autentica cucina siciliana, i locali dei giovani si chiamano Speak easy e Grant’s. Le cassette di frutta vengono offerte ai semafori o esposte sui marciapiedi di via Marchese di Villabianca. I bidoni della spazzatura incatenati agli alberi invitano a un prudente self-service ma intanto la toponomastica è chiara e leggibile sui marciapiedi, su insegne illuminate e a bandiera, come a New York o a Chelsea.

    Almeno una volta a settimana manca la luce, per mesi all’anno l’acqua è razionata ma la gente è rassegnata come di fronte a piaghe bibliche. Pioverà, non pioverà? I giornali insegnano il linguaggio del cielo, come a una tribù indiana. C’è scritto, tra i segnali di pioggia in arrivo: se il gallo canta di giorno un numero dispari di volte, quando volano le gru, la luna è barcaiola, se il gatto si lecca la faccia con lo zampino bagnato di saliva. Così, invece di badare alle colpe degli uomini, si tiene d’occhio il pollaio.

    Nei rioni poveri alla Kalsa si aggirano suore missionarie. Hanno lasciato i quartieri più derelitti di Nuova Delhi per offrire le stesse parole e gesti tra torme di bambini denutriti, sporcizia e i tuguri e le rovine sopravvissute alla guerra, mentre alla Zagarella è nato un complesso che fa invidia alla Costa Smeralda con alberghi di lusso, piscine olimpioniche, saune, massaggi, cinema, negozi e saloni dove si consumano feste e promesse.

    Al rione Zen (curiosa scelta del nome, ironico stimolo alla ricerca di un’astrazione contemplativa in un ghetto di diseredati) c’è una nuova foresta di palazzi dove sono stati deportati i disgraziati che intralciavano il cammino di una ruspa affarista, ma mancano i servizi essenziali e quando le fognature si intasano i liquami si riversano in strada. C’è odore di soldi e di miseria. L’alito delle panelle fritte e delle arancine si mescola al profumo della cannella, effluvi di zagara giungono misteriosi da un cortile barocco dove hanno fatto un parcheggio. Tutto appare al tempo stesso irreale e possibile.

    Una volta gli operai addetti alle gru, ai cantieri navali, hanno dato da discutere ai sindacati perché volevano «l’indennità di solitudine». Pare che si sentissero perduti nello spazio,contro questo cielo che spalanca sulla città stupefatti occhi azzurri.

    C’è almeno un morto ammazzato al giorno, sindacalista, magistrato, giornalista, generale, non fa più differenza. Sic transit gloria mundi, ma qui lo fa più rapidamente che altrove. I cronisti scrivono che la mafia ha fatto «un salto di qualità» e continuano a confondere vittime e carnefici, il cardinale pronuncia un’omelia in cattedrale, da Roma giunge il cordoglio ufficiale, e qualche buontempone, che si illude di poter contare sui «pentiti», non sa che li dovrebbe cercare altrove.

    Oltre a quelle cinque, sei famiglie che possiedono tutto sotto sigle diverse, imprese di costruzioni, compagnie di assicurazioni, esattorie, fabbriche, distributori di benzina, cementifici e stazioni televisive, anche i commercianti hanno imparato a giocare a monopoli e dappertutto ci sono catene di negozi che rastrellano soldi in ogni quartiere. C’è un giro di droga di duemila miliardi all’anno, naturalmente in transito, ma come il caviale a Mosca, anche qui il prodotto non viene consumato in loco, quindi la città non ha vizi. E il cabaret è rimasto l’unico specchio deformante ove i palermitani riflettono le loro maschere tragiche.

    In questa Palermo dove c’è tutto e il contrario di tutto ogni tanto tornavo a riaffacciarmi. Percorrevo i luoghi cercando i segni dei ricordi, non le radici ma la terra smossa dove le avevo viste troncarsi. A volte mi chiedevo cosa sarebbe stato se non fossi partito e consumavo le scarpe cercando un incontro, la faccia di un amico, nei posti che raccontano ciò che si era costretti ad essere, tutto ciò che si poteva diventare. Insomma quanto aiuta a capire perché le cose non cambiano, com’era l’aria che toccava respirare, che significa essere cresciuti da queste parti, in questa città che vive di riluttanti servizi e di più spontanei servigi, un tempo fatta di dolci recessi e ora di esibizioni sfrontate, dove la discrezione assume un nome diverso che sa di reticenza e omertà.

    Da un pezzo volevo scrivere questo libro, non solo perché può aiutare a capire ciò che talvolta viene malamente affidato a un saggio, cosa c’è dietro una condanna alla diaspora e mille storie di giovani colti nel poi detta cronaca quasi non avessero avuto un prima cui in tanti potrebbero essere chiamati a rispondere, ma anche per una sorta di personale impellenza, un modo per vuotare i cassetti e dar corpo alle ombre, andando a ritroso negli anni, sistemando la galleria dei soli «antenati» che mi sono rimasti. Parlando degli anni quando i ragazzi, allevati agli espedienti della guerra, avevano la disperata volontà di ribellarsi, di fuggire persino, di non rassegnarsi a farsi complici inerti perché la «malattia» non li aveva ancora aggrediti col suo ottuso sopore, né viveva l’illusione di sentirsi appagati. E cominciando a scrivere, rifiutando lo scenario di oggi che mi ripugna e toglie nostalgia al presente, mi sono accorto che qui è più facile che altrove parlare di ricordi. Da sempre il palermitano per raccontare se stesso preferisce i tempi al passato remoto e non va mai oltre il presente. Nel dialetto siciliano, come è noto, non esiste la coniugazione al futuro. Così le illusioni non vengono mai pronunciate, nascono e muoiono dentro.

    1

    Persino nelle case sulla costa, in Sicilia, le donne siedono sull’uscio con le spalle al mare, segno che dal mare non sono avvezze ad aspettarsi alcunché di buono. Nel continente, invece, i siciliani siedono con la faccia all’isola, quasi volessero stamparsi bene nella mente, più che il cammino percorso, l’improbabile sentiero del ritorno.

    Quando me ne andai via da Palermo credevo di es-sermi lasciato dietro le spalle la Sicilia, ma in realtà mi portavo appresso la stessa fede tormentata e amara di uno spretato, il presagio di un indecifrabile debito che non sarei mai riuscito a sanare. Con altri palermitani, emigrati come me, ci tenevamo semplicemente d’occhio, incontrandoci raramente ma evitando di perderci di vista pur senza un preciso disegno, con l’inconfessata solidarietà di marinai in franchigia approdati e dispersi in un porto straniero. I legami di un tempo, le amicizie spesso dimenticate, si riproponevano quindi nelle circostanze più inaspettate, talvolta con una telefonata, un trillo violento al mattino.

    «Chi parla?» interrogavo assonnato, rispondendo a un farfugliare indistinto coperto da sbattere di sportelli e voci da marciapiede ferroviario.

    «Ma come, non mi riconosci? Sono Salvatore!»

    «Salvatore chi?»

    Tentavo di snebbiare il cervello e cominciavo a percorrere con la memoria, avendo riconosciuto l’accento, tutti i Salvatore che avevano popolato la mia vita, dall’asilo in poi, col timore di rivelarmi incapace, di mostrare di non essere rimasto «un amico», esemplare umano che in Sicilia viene presentato come la pubblicità di un diamante. Per sempre.

    Dall’altro lato percepivo un brontolio deluso, i primi giudizi di un esame severo, un’eco stizzita che mi lasciava in colpa, in quel borbottare a mezza voce.

    «Hai capito? Dice: Salvatore chi? Evidentemente da quando se n’è venuto a Roma ormai non siamo più niente.»

    Poi, dopo una pausa, direttamente nel microfono.

    «Ma davvero dici che non ti ricordi? Ma che mi debbo offendere? Sono Salvatore» e seguiva un cognome ignoto, collegato alla parentela col cugino di un remoto compagno d’infanzia.

    Prima ancora di riuscire a mettere a fuoco un volto ormai senza contorni vigliaccamente mi affrettavo a simulare il calore d’obbligo. Diversamente la conclusione sarebbe stata che io fingevo di non ricordarmi perché avevo messo superbia.

    «Ah, sei tu? Scusami se non ti ho riconosciuto subito. Ma come stai e che ci fai a Roma?»

    Allora Salvatore assumeva un distaccato tono di circostanza, affiorava l’orgoglio di razza mentre replicava con sufficienza.

    «Sai, sono di passaggio con un amico perché dobbiamo andare a Genova per la partita del Palermo. Io posso anche proseguire» come a dire che di me non aveva affatto bisogno «ma se vale la pena mi posso anche fermare una giornata. Dimmi una cosa: ce ne sono firn-mine a Roma? Insomma, tu che sei nell’ambiente, mi capisci?… Tieni conto però che noi siamo in due, mi raccomando…»

    Non ho mai trovato la forza di mandarli brutalmente al diavolo, per umorismo o per tristezza, perché sarebbe stato come schiaffeggiare un bambino, perché ciascuno di noi si sentiva un po’ console nel continente, con la responsabilità di dover essere complice e vittima persino di fronte a quelle richieste ordinarie. Mi limitavo a invitarli a colazione, dopo essermi sottratto alla richiesta di andarli a rilevare in stazione, e per non farmi ruffiano mi toccava inventare una scusa, che non risultasse mortificante per loro, a costo di menomare definitivamente la mia immagine di siciliano integrato. Dopo, ce ne lagnavamo tra noi, senza però lesinare indulgenza, che sarebbe parso rinnegare la propria gente, quanti non erano riusciti a trasformarsi.

    Sapevo ciò che sarebbe successo se mi fossi tirato dietro a una festa un paio di quegli assatanati. Entrando avrebbero perduto ogni baldanza, standosene in disparte per consultarmi ora su questa ora su quella ragazza, con un sondaggio prudente:

    «Ma dimmi una cosa: secondo te quella futte? Non le potresti parlare di me?»

    Era già accaduto a più di un amico con le stesse parole. Per molti da Roma non si poteva pretendere altro, come da Torino un posto alla Fiat. Né c’era da stupirsene dopo un’infanzia comune vissuta in una sofferta astinenza o nell’esercizio di autentici raggiri sessuali. Era privilegio di principi infatti, negli anni prima e subito dopo la guerra,

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