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101 cose da fare a Napoli almeno una volta nella vita
101 cose da fare a Napoli almeno una volta nella vita
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E-book356 pagine3 ore

101 cose da fare a Napoli almeno una volta nella vita

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Info su questo ebook

Napoli come non l'avete mai vista!

Ecco alcune delle 101 esperienze:

• Passare bendati tra i due cavalli di piazza del Plebiscito

• Mangiare taralli caldi e bere birra fredda sugli scogli di Mergellina

• Perdersi nel reticolo dei Quartieri Spagnoli

• Innamorarsi sotto la fenestrella di Marechiaro

• Lasciare un caffè sospeso

• Commuoversi alla ruota degli esposti

• Arrossire di imbarazzo nella Camera Segreta

• Origliare la storiella delle statue di Palazzo Reale

• Curare le bambole all’ospedale

• Beccarsi un colpo di fulmine a San Lorenzo

Agnese Palumbo

è nata a Napoli. Giornalista, si occupa di cultura e costume collaborando con diverse testate. Appassionata di storia, ha concentrato la sua attenzione sulle questioni femminili. Si occupa anche di tematiche legate alla storia di Napoli. Con la Newton Compton ha pubblicato 101 cose da fare a Napoli almeno una volta nella vita, 101 storie su Napoli che non ti hanno mai raccontato, 101 donne che hanno fatto grande Napoli e Misteri, segreti e storie insolite di Napoli.
LinguaItaliano
Data di uscita8 mag 2014
ISBN9788854166721
101 cose da fare a Napoli almeno una volta nella vita

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    101 cose da fare a Napoli almeno una volta nella vita - Agnese Palumbo

       1.

    PASSARE BENDATI TRA I DUE CAVALLI DI PIAZZA DEL PLEBISCITO

    Come si concilia il marmoreo gelo funebre di San Francesco di Paola con la voce della gente, il sole caldissimo che si riflette sui bianchi alteri e inonda i passanti? Come, tanta autoritaria bellezza con gli scugnizzi che giocano a pallone? Ma che stupendo ghiaccio, che brivido tragico trasmette questo imponente ex voto costruito per il regno riconquistato! Il più controverso dei sovrani, Ferdinando, non poteva sapere che era già scritto: il santo avrebbe avuto da quelle parti la sua chiesa. Ma nemmeno al Francesco preveggente era dato di immaginare che la sua basilica sarebbe stata il muro sbattuto in faccia al portone di Palazzo Serra di Cassano, al lutto per il figlio martire del ’99. Napoli, terra di santi, martiri ed eroi. Che i poeti e i navigatori nemmeno se li fa mancare. Un viaggio che si rispetti ha inizio esprimendo un desiderio. Il più complicato qui si realizza passando bendati tra i due cavalli di piazza del Plebiscito. Inutile lasciarsi rassicurare dalle dimensioni della piazza, dagli oltre cinquanta metri che intercorrono tra le due statue. L’impresa è ardua, c’è poco da fare. Passando tra i due cavalli, arrivando giusto in mezzo a Carlo e Ferdinando, si sentono i vasoli storti sotto i piedi. Il piccolo segreto per riuscire nell’intento è non seguirli. Eccolo qui il depistaggio, uno dei tanti che usa questa città per non realizzare i sogni. Centosettantatre metri, mentre la piazza respira e sembra che a falcate enormi il tempo l’attraversi assieme a noi: Normanni, Svevi, Angioini, Asburgo di Spagna, Borboni, rivoluzionari giacobini e napoleonici disastri, Savoia. E altri disastri. Quanto ci vuole ad attraversarla? Sembra un’eternità.

    Da bendati si fanno un po’ di giri su se stessi, quel tanto da perdere completamente la nozione dello spazio. Si avanza a passi lenti, ché non si sa mai dove si va a finire. Ascoltare la città da piazza Plebiscito è un privilegio che merita un po’ di faccia tosta: è un’arena inondata di sole, stracolma di persone a passeggio, con uno splendido scorcio di mare rumoroso e odoroso su un lato e l’anima dell’antica piazza San Ferdinando sull’altro. Passeggiare bendati, liberando completamente i sensi, non è beneficio da poco. Pensare che fino a dieci anni fa questo miracolo di umori e memorie, persone e pietre, era un gigantesco parcheggio, fenomenologia sbalorditiva della capacità dei napoletani a improvvisare Tetris per piazzare l’automobile. Oggi splendida, è più facile immaginarla Largo di Palazzo, cuore delle feste popolari organizzate dai viceré: macchine da festa e alberi della Cuccagna che la vedono trasformarsi in un’enorme tavola imbandita, dove al posto di bottiglie e piatti da portata ci sono fontane da cui zampilla vino rosso e bianco, pali con caciocavalli appesi e ogni bendidio penzolante. Opening 24 hours no stop: è il primo esempio di museo all’aperto. I napoletani sull’esperimento continuano a essere scettici, storcono il naso, ma sarebbero disposti a tutto pur di non rivedere lo scempio da garage. E allora sì a capuzzellas seppellite per terra, Tarantantara in PVC rosso, Progression in a square, Montagne di sale con cui poi fare amuleti: Naples che nel tempo ha imparato a districarsi in questo gigantesco labirinto di lastre d’acciaio.

    Piazza_Plebiscito

    PIAZZA DEL PLEBISCITO

       2.

    MANGIARE TARALLI CALDI E BERE BIRRA FREDDA SUGLI SCOGLI DI MERGELLINA

    Mal di terra. Impossibile non farselo venire dopo aver trascorso la mattinata sugli scogli. Solitamente sono studenti che hanno saltato la scuola o innamorati di Prévert che in tanta confusione non si curano di nessuno. Spuntano con il primo accenno di sole, il primo caldo che ci fa mettere in maniche di camicia coi jeans arrotolati. Si riversano sul lungomare liberandosi dal caos della città. Magari approfittano del fresco degli alberi della Villa Comunale. In giro, un po’ dovunque, chioschi e banchi di taralli. Un appuntamento irrinunciabile comprare tutto l’occorrente e finire a mangiarlo sugli scogli. Un obbligo, che sia giorno o sia notte. Taralli caldi e birra gelata. Fino a qualche anno fa si usava inzupparli nell’acqua del mare, eredità di certi pescatori che ne arricchivano il sapore con la salsedine, impregnandoli con calma al dondolare della barca. Una pausa per guardare la riva, a riconoscere il profilo storto della città. Si saliva fino ai forni del Pendino di Santa Barbara per comprarne. La lunga scalinata che, dal Sedile di Porto, sale verso il monastero di Santa Chiara. Si supera il pezzo di spiaggetta e a piccoli passi insicuri ci si addentra per il banco di massi accidentato; una lingua bianca di scogli che si immette nel mare, tra le onde di questo avanzo di golfo. Un incanto. Se si è fortunati si trova subito il pezzo di scoglio ideale, quello su cui è possibile spalmarsi a mangiare e prendere il sole. Si lasciano divorare facilmente questi sensualissimi taralli ’nzogna e pepe, piccanti al punto che te fann’abballà ’a vocca. E più la bocca brucia più si finisce per mangiarne altri, quasi che altro bollore compensi il bollore stesso. Di tanto in tanto, un frammento di mandorla sotto i denti, è dolce come un’imprevista concessione. Qualcuno preferisce Mergellina di notte. Con un po’ di pazienza si dimentica il traffico notturno che inonda la strada. La birra si potrebbe sostituirla con un rosso, un vino corposo e freddo. L’umidità che scende sulla testa, i pantaloni che si bagnano perché l’aria è colma d’acqua, a inalare la salsedine a salare anche tutto il resto. La costa vesuviana è bella illuminata e finisce nella penisola sorrentina. Il mare, nero, è il collegamento parallelo alla terra, si può cercarlo seguendo le luci e immaginando i nomi di tutti i paesi nelle fermate che fa la Vesuviana: San Giovanni, Portici, Barra, Castellammare… Mare di operai. Dall’autostrada, tra Torre del Greco e Torre Annunziata, si vede la casa bianca di Ranieri, dove visse Leopardi. Nessun punto di riferimento, tutto intorno è inchiostro nero che inghiotte la luce. Solo una nave, forse grossa, in mezzo al mare. Le luci sembrano quelle della festa e dopo un po’ si ha l’impressione che la musica arrivi anche sulla riva, mentre l’ennesima onda pigra s’infrange schioccando contro lo scoglio.

       3.

    PERDERSI NEL RETICOLO DEI QUARTIERI SPAGNOLI

    Benvenuti nel regno del mito. Si scende per i gradoni di Santa Lucia e una targa all’ingresso renderebbe giustizia al fascino, almeno quanto valse per la porta celeberrima cantata da Dante. Oltre cento gradini, da scendere passo

    passo, per trovarsi nel cuore dei Quartieri e dare inizio al viaggio. Nessun Teseo e nessuna Arianna, se ci si deve perdere, che sia davvero. Dal corso Vittorio Emanuele il primo gradino. La scala dello scartiloffio, il cambio di monete del soldato turista che tornava a casa con il pacco, mentre il fetente di turno si lanciava giù per queste scale, a perdersi senza soluzione nell’imbocco degli Inferi di casa sua. La scala scende e la vista si riempie di palazzi del Seicento protetti nei cortiletti privati, le volte arabesche, nella memoria dello spagnolo che lo volle. Signor Toledo, 1536, e questa rete di viuzze che dovrebbe formare una scacchiera è la migliore protezione per i suoi soldati, acquartierati e protetti nelle case adesso bassi da una stanza a un piano solo. Se c’è la rivoluzione svoltiamo e siamo liberi, se c’è un’invasione torniamo da sopra, da sotto, dai lati e li incastriamo tutti qui, nel cuore. Perché chi entra si perde, c’è poco da fare. Ancora il mito che si nutre di se stesso, si divora per sopravvivere; dei gira gira, fuggi fuggi, saliscendi, dei vicoli troppo pericolosi per arrischiarsi, dell’ossimoro vivente che a ogni svolta d’angolo si conferma, della malaparata dell’illuminismo, perduto tra i gradini troppo stretti per un piede e i ciottoli che s’incastrano perfetti. A ogni angolo una targa, una santa e una croce. Un lumino acceso per una preghiera. La buonanima di tutti quelli accorsi da queste parti per salvare i peccatori, redimere le prostitute, guadagnarsi il paradiso. Segno di croce davanti alle lapidi dei centocinque bombardamenti americani che risparmiarono i Quartieri, e delle sante che ne protessero il destino. Anime del Purgatorio, questa tra le sante effigi è la più mirabile. Se il giorno è cattivo la croce si fa con la mano storta. Forse che Dio tragga da questo groviglio di viuzze più orazioni e bestemmie che in nessun altra parte del mondo? Ecco il Convento della Trinità, dove Vittoria de Silva, nobildonna spagnola, per delusione preferì il velo al conte Caracciolo. Un crollo fece perdere alla chiesa la cupola e al complesso la chiesa, trasformata così in farmacia. Di Fanzago sono gli splendidi telamoni che proteggono la scalinata. Quasi di fronte la chiesetta di Santa Maria dei Sette Dolori, che un’immagine miracolosa di metà Cinquecento ne ispirò la costruzione con l’imbocco del cimitero murato alle spalle e l’ingresso imponente davanti. Lo smarrimento del viaggiatore è la forza di questo groviglio. E i pochi sbocchi diventano la speranza della liberazione; come scendendo per la salita di Magnocavallo, davanti a via San Pasquale Scura, nel cupo del vicolo che battezza Spaccanapoli e riporta alla città. Una città che sembra perfino normale guardata nostalgicamente da qui. Un quartiere che nasce dalle sue viscere, che destino avrebbe mai potuto avere? Il tufo recuperato da sotto viene utilizzato sopra in una costruzione a torre che lascia il vuoto ai piedi. Perché non si può costruire fuori dalle mura della città. Se il mondo è alla rovescia, il senso del limite qui diventa labile. A ogni svolta il sole sparisce e ritorna, contraddizione anche per lui su quello che illumina e quello che dimentica, e la passeggiata si riempie, almeno nella mente, di canzoni e citazioni, di cartoline e malinconie. Tra questi vicoli non si cita Eduardo e non si recita Di Giacomo. A ogni passo spunta Viviani e se canzone può esserci è Ferdinando Russo. In fondo ai Quartieri c’è lo storico Teatro Nuovo con il suo bagarinaggio al contrario: il botteghino poteva vendere un terzo dei biglietti a prezzo pieno e tutto il resto, in blocco, veniva acquistato per gli indigenti amanti di teatro che a rate si pagavano l’ingresso allo spettacolo. Ancora oggi pellegrinaggio di studenti e sfaccendati, lavoratori e operai, di chi si guarda bene dal teatro dei più e cerca qualcosa che sia veramente per pochi.

       4.

    GIUDICARE LA GARA DI PIETÀ ALLA CERTOSA

    La cultura può davvero tutto tra queste stanze. La sensazione arriva come una piccola fitta silenziosa. L’arte fa male a chi ne resta escluso. Sin dall’ingresso lo stile barocco della chiesa di San Martino appare trionfante: sculture, intarsi lignei e affreschi, firme tra le più prestigiose del Seicento napoletano: Solimena, Vaccaro, Caracciolo, Giordano… Qua e là, di tanto in tanto, un’anima medievale che reclama la dovuta attenzione. Che delizia riconoscere i tratti marmorei del Sammartino, la grazia e la delicatezza delle sue sculture introducono nella cappella una leggerezza rococò. Come non innamorarsi del bambino singhiozzante ai piedi della sua Carità, una sensualissima madre, di morbido marmo bianco, dei santi del Fanzago che emergono dagli archi sopra le porte.

    Tanta pace divina, sembra però non aver potuto niente contro gli attacchi di gelosia e l’antagonismo competitivo che da anni laceravano due protagonisti della pittura napoletana. La chiesa custodisce al suo interno una singolar tenzone tra pennelli. A impugnare l’arma mortale furono Jusepe de Ribera e Massimo Stanzione, maestri che per sfida si lanciarono nella realizzazione di due opere con lo stesso tema.

    Appena pronte le rispettive Pietà furono messe a confronto. La rivalità tra i due è celebre, una competizione artistica e personale che non manca di pessimi colpi bassi.

    Bernardo De Dominici, biografo dello Stanzione, racconta di questa gara e aggiunge che il De Ribera, nonostante avesse realizzato in quest’occasione una delle sue più belle opere, non abbia retto alla vista di quella dell’avversario, lasciandosi prendere da un umanissimo attacco di bile. Livido di rabbia consigliò ai monaci di spennellare la tela con un preparato protettivo che aveva appena composto. L’intruglio aggredì il dipinto, sciogliendo via le raffinatissime finiture. A nulla servirono le suppliche dei certosini, il pittore non volle riprendere i pennelli e riparare i danni perché restasse evidente la scorrettezza dello spagnolo. La Pietà è proprio davanti a tutti, sulla controfacciata dell’ingresso. Il suo Cristo, dalle labbra dischiuse, comunica tutta l’angoscia dell’ora suprema, la sofferenza inenarrabile del martirio. Un uomo a cui lo Stanzione non dimentica di rendere la maestà del Dio, miscelando e distribuendo con intensità lirica luce e colori.

    Più dentro, l’altro contendente è sistemato nella Cappella del Tesoro. Più arrabbiata questa tela, umana da farci fare un passo indietro. Lentamente, dal fondo, i personaggi vengono avanti, si spostano dall’oscurità per mettersi sotto la luce e lasciarsi guardare. Il Cristo bianchissimo la raccoglie in un unico fascio attratto dal suo corpo. Con essa il nostro sguardo. E mentre si continua ipnotizzati a fissarlo, ecco che a lato si scorge la Maddalena che gli bacia i piedi. Provata e affranta.

    A noi non resta che uscire fuori, storditi da tanta arte, cercando un po’ di ristoro nel chiostro esterno. Rigoglioso di alberi e ombra, custodisce un piccolo cimitero, un quadrato di marmo opera seicentesca del Fanzago. Un piccolo straordinario gioiello, delimitato da una balaustra di gusto barocco, sormontata da teschi poggianti su semplici capitelli capovolti. Un’ammonizione che ci rammenta che la vita è caduca. Soprattutto la gloria, pare sottolineare una di queste cap’e mort’, coronata d’alloro. Ma sembra che il monito non abbia minimamente intimidito i due pittori.

       5.

    PERDERE LA TESTA A PIAZZA MERCATO

    Questo spazio ha qualcosa di viscerale, un groviglio di nervi e umori, di fisici tormenti. Sarà per una divina regola del contrappasso che qualcuno, in ogni epoca, ha finito per rimetterci la testa. Una piazza sazia di intricate vicende: qui si sono svolte le più ingiuste, strazianti e famose decapitazioni, qui gli avvenimenti più controversi e le storie degli eroi più appassionanti. La chiesa della Madonna del Carmine è custode di questa memoria. Nell’entrarci si viene colti da un forte groppo allo stomaco. Stucchi dorati e barocchi, un tripudio eccessivo, per quanto bellissimo e coinvolgente. Popolare più di ogni altra chiesa di Napoli, trasuda di vita più ancora che di memoria. C’è gente tra i banchi che prega a qualunque ora. Una chiesa trecentesca nata ieri. A pochi passi dall’entrata la statua di un ragazzino. Non tutti ne conoscono la storia, ma a questo giovanotto ci sono affezionati, ed è facile trovare qualcuno a pregare pure per lui. Qualche vecchia, passando davanti alla statua la pulisce con il fazzoletto. È l’ultimo degli Hohenstaufen, il giovane Corradino di Svevia che nel 1267 tentò di riconquistare il regno, malamente sottratto dagli Angioini con la connivenza papale. Siamo davanti a lui, sette secoli dopo, e sentiamo montare nella pancia la sua stessa voglia di riscatto. Il pensiero dello zio, Manfredi, che ha perduto la vita per questo sogno, è anche più forte del rimorso verso la madre. Sente di dover partire. E parte. Con lui Federico d’Austria, il suo migliore amico. Ha sedici anni Corradino, bollato dai papi come il serpente da uccidere, lascia di sé il ricordo forse più struggente. La storia lo ricorda biondo, pallido e riccioluto, quel 29 ottobre del 1268, quando calmo si toglie il mantello e lo offre al carnefice. La folla in piazza piange muta, il piccolo principe si sfila un guanto e lo lancia tra la folla. Dal Barbarossa a Corradino la casa di Svevia era finita. Ma non muore la speranza di un riscatto. La grande letteratura si è sfamata tra le tormentate vicende del nipote di Federico II. Tradito da Giovanni Frangipane fu consegnato al nemico e rinchiuso nel Castel dell’Ovo. Il processo sommario, celebrato a suo carico, ne decretò la condanna a morte. Alla madre, arrivata tardi, non restò che chiedere una degna sepoltura. Il ragazzino che scriveva poesie sperando un giorno di arrivare nella sua calda città, è oggi custodito e protetto in questa chiesa. Sconfitto non dalla guerra, né dalla storia, ma dall’avidità di un traditore. Idealmente, il riscatto si avrà con Giovanni da Procida che, raccolto il guanto, lo consegnerà a Pietro d’Aragona. Il transetto conserva nella volta a crociera la sola traccia visibile della costruzione trecentesca. Salendo, dietro l’altare, si trovano le commoventi reliquie della devozione popolare. Un pesce in una teca, per la mamma Bruna dei pescatori. Oggi dalla piazza il porto quasi non si vede più, ma nel 600 la basilica vi era quasi a ridosso. Si smerciavano i prodotti tirati su durante la notte, si pesavano le merci e si pagavano le tasse. Lungo le pareti si sviscerano le storie controverse dei suoi protagonisti. Qui è sepolto Tommaso Aniello d’Amalfi detto Masaniello, il pescivendolo del popolo che nel 1647 ottenne la costituzione popolare.

    Poco più accanto Aniello Falcone, a capo della Compagnia della Morte, pittore paragonato a Velázquez per la potenza espressiva delle sue opere. Il maestro che faceva strage di spagnoli e aveva la bottega

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