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Fuoco fatuo: Il lato effimero dell'amore
Fuoco fatuo: Il lato effimero dell'amore
Fuoco fatuo: Il lato effimero dell'amore
E-book87 pagine1 ora

Fuoco fatuo: Il lato effimero dell'amore

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Info su questo ebook

Anni Sessanta. Alessandro e Denise si incontrano una sera in una sala da ballo della loro città, Pistoia, ed è subito innamoramento e passione. Giovanissimi, appena liceali, devono fare i conti con il diverso ceto sociale, le opposte aspirazioni. Mentre lui si trasferisce a Forte dei Marmi per un incarico di portiere di notte in un prestigioso albergo, Denise, ribelle e anticonformista, rompe gli schemi che la buona società le impone e scompare per inseguire il suo irrefrenabile desiderio di successo senza più dare alcuna notizia di sé al giovane amante.

Alessandro non si rassegna e continua a inseguire il suo sogno d’amore: tra maîtresse, ricchi imprenditori, registi e attricette, coca e marsigliesi, rock and roll.

Con la sua scrittura precisa e intensa, che nasconde dietro l’apparente semplicità una straordinaria potenza emotiva, Ferretti ci regala lo spaccato di un’epoca e di una generazione.

Dà vita a un racconto che è veloce ed essenziale come una canzone di Elvis Presley e insieme è animato da una profonda ricerca di senso, dal continuo scavo sotto la superficie dell’esistenza per raggiungerne il messaggio più autentico.

Vasco Ferretti, laureato in scienze umane e filosofia, ha insegnato nei licei e nelle università di Firenze e di Urbino dal 1970 al 1975. È giornalista iscritto all’Albo professionale dal 1976.

Ha pubblicato alcune opere come storico del nazismo e della occupazione tedesca in Italia durante la Seconda guerra mondiale e opere di poesia, di scienze dell’educazione, di critica letteraria e di cultura locale. Fuoco fatuo è il suo primo romanzo.
LinguaItaliano
Data di uscita1 gen 2015
ISBN9788863966053
Fuoco fatuo: Il lato effimero dell'amore

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    Anteprima del libro

    Fuoco fatuo - Vasco Ferretti

    qui.

    I

    La Versilia dei ruggenti anni Sessanta

    Il ventinove giugno del millenovecentosessantanove è stato un momento importante della mia vita. Davanti all’offerta di un impiego come concierge de nuit dovevo decidere se stare al gioco del servire con riverenza l’ospite oppure tornarmene a casa. Restare lì o andar via, una cosa valeva l’altra. A quell’ora tarda della notte risolsi il problema scegliendo di proseguire fino ai viali a mare e di rimandare la scelta avanzatami da zia Edwige all’indomani.

    In fin dei conti dopo aver superato gli esami di maturità al liceo da appena una settimana, non avevo fatto un giorno di vacanza. Finalmente libero a Forte dei Marmi, con il mare quieto e caldo di fine giugno, le spiagge di sabbia pettinata, gli interminabili filari di luci sul lungomare dove le auto sfrecciavano via silenziose, era inevitabile che, volendo come sempre correre dietro ai mei sogni, andassi a cercare un’ora di felicità.

    Era quello il momento magico in cui nella mitica Capannina la musica del piano bar, iniziata alle ventuno con la cena-spettacolo, cedeva il passo a una o più orchestre dal vivo. Man mano che queste si alternavano sul palco, decine di coppie scendevano in pista per lasciarsi andare a balli scatenati. Salendo al bar per un drink, ho sentito che l’orchestra eseguiva la canzone ancora di moda in quei tempi, Rock around the clock, e ho visto che il cantante cercava di interpretarla alla maniera del mitico Elvis Presley.

    In sala si ballava al suono dei dannati rhythm’n’blues e dei twist. Aspettai che fosse la volta degli slow per abbordare una brunetta e fare, come si usa in questi casi, un poco face-to-face e un poco corpo a corpo. Più tardi, con la musica che cambiava, abbiamo danzato al ritmo latino-americano: i mambo, i cha-cha-cha e i calipso alla Henry Belafonte magistralmente suonati da una orchestra composta di dodici musicisti.

    Era bella la vita notturna nella mitica Capannina. Costruita un tempo dai Franceschi come un posto attrezzato da un banco da bar, un grammofono a manovella, una dozzina di tavoli per chi volesse giocare al poker, quel posto presto era diventato un ambiente per gente danarosa, ma anche di nobile stirpe come gli Sforza, gli Agnelli e i Della Gherardesca e per intellettuali come Levi, Ungaretti e Montale.

    Adesso come ritrovo di alta classe non era più il solo. C’erano anche dei night club più alla moda dei dintorni. Oliviero stava più a nord, ai Ronchi. La Bussola delle Focette a sud-sud-est in direzione di Viareggio, la splendida città del Liberty e della Belle Epoque, con i suoi celebri café chantant, il Margherita, il Principe di Piemonte e così via discorrendo

    Di vip ce n’erano a iosa soprattutto qui al Forte, ovviamente. E c’erano anche un mucchio di cocotte d’alto bordo e di omosessuali in vacanza che generalmente se ne andavano a sculettare sui vialetti a mare. Si facevano riconoscere al colto e all’inclito, come si diceva un tempo, perché se ne andavano in giro vestiti di bianco dalla testa ai piedi sempre in caccia di quei belli e dannati che dall’ingresso dei bagni guardavano uscire muscolosi e seminudi dalle cabine e, dopo una corsa sulla sabbia incandescente, andarsi a tuffare in mare.

    Questa fu la prima impressione che ne ricavai, ma se con la memoria andassi a ricordare quello che scoprii nei mesi successivi avrei ben altro da dire. Già dopo il primo mese di servizio al grand hotel, dove il campionario dei soggetti era tra i più variegati, conoscevo molte più cose di Forte dei Marmi come luogo dell’ozio marino. Era un buen retiro per i nati ricchi e per chi si era arricchito con il boom economico di quegli anni. Un posto dove si affacciavano anche tanti sfigati signor-nessuno ai quali però gli ambienti più esclusivi erano naturalmente preclusi.

    Era piuttosto un luogo dove c’era abbondanza di maschi palestrati a braccetto di matrone cariche di gioielli e di certi fighetti figli di papà, ma anche per scorfane di ricca famiglia in cerca di un marito o di un amante segreto e per anziani decaduti che comunque portavano le iniziali del loro nome ricamate sulla camicia e sul fazzoletto nel taschino della giacca.

    E poi bionde svampite con i loro commendatori in smoking, madame dal corpo afflosciato, ma dall’occhio di triglia che ammicca incessantemente qualunque bel giovane passi loro davanti e perfino ereditiere come la baronessa Saint-Loup, lesbica incorreggibile sempre avvinghiata alla sua magrissima segretaria che una sera io stesso, chiamato su in camera per servizio, l’ho vista sniffare in un attimo una striscia di cocaina con una nonchalance da lasciarti secco.

    Dal mio privilegiato posto di osservazione notturno potevo sempre osservare, con malcelata curiosità, come apparivano i clienti al rientro in albergo da pranzi pantagruelici, da balli indiavolati, da spettacoli osè, dalle sbronze esagerate, dai festini o dalle orgette con qualche cocotte sui loro yacht. Tutti questi casi di rientro a tarda ora erano di gran lunga più numerosi rispetto a quelli delle coppie normali di uomini e donne, coniugati o conviventi che fossero, che solitamente tornavano entro la mezzanotte.

    Poiché la noia sollecita la fantasia e rende quindi creativi, io captavo di continuo scene, sequenze, inquadrature e fotogrammi da mandare a memoria per scriverci un giorno la storia della mia vita trascorsa in mezzo a questo irripetibile campionario di varia umanità. Certi uomini maturi e corpulenti, doppiopetto, calvizie e vistosi orologi al polso generalmente avevano facce presuntuose, gagliarde o schifate. Donne con rughe nascoste dal cerone o stirate dal chirurgo plastico, altre dame con collari e gioielli che gocciolavano dalle orecchie e dai polsi, donne che avevano facce con sopracciglia depilate e occhi cerchiati di blu, unghie di mani e piedi pennellate di rosso e via dicendo.

    Queste memorie, che adesso mi scorrono nella mente come un film girato all’incontrario, pian piano mi consentono di rievocare quegli anni di cinico ottimismo per il boom che nelle città arricchiva tanti borghesi burini mentre nelle campagne sempre più spopolate si impoverivano, invece, migliaia di contadini come i miei genitori che non vedevo dalla scorsa primavera.

    II

    Gli astratti

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