Forse mi vedrai vestita di rosso
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Info su questo ebook
Il rosso non è un colore qualunque, è il colore della passione ma anche della rabbia, dell’emotività, del rancore.... Negli anni del dopoguerra nascono i semi di questo nuovo racconto di Emilia Valentino, che affronta la scottante tematica delle relazioni familiari tra intrighi, gelosie, buonismo e perbenismo tipiche del tessuto sociale di quei tempi. Una suocera, una nuora, due sorelle , anzi due gemelle spinte dalla vita in un ingorgo sentimentale e utilitaristico che non risparmia nessuno. Le figure femminili spiccano in questa vicenda come scambi sul binario di un treno, e i vagoni sono le figure maschili, più o meno consciamente manovrati nel profondo... Non ci sono vincitori né vinti in questa storia a " tinte rosse" ma solo attori che si trovano sul palcoscenico talvolta amaro della vita per recitare fino all' ultimo atto la loro parte.
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Anteprima del libro
Forse mi vedrai vestita di rosso - Emilia Valentino
storia
PREFAZIONE
Un giorno mi vedrai vestita di rosso: ma perché proprio di rosso?
Il rosso non è un colore qualunque, è il colore della passione ma anche della rabbia, dell’emotività, del rancore.... Negli anni del dopoguerra nascono i semi di questo nuovo racconto di Emilia Valentino, che affronta la scottante tematica delle relazioni familiari tra intrighi, gelosie, buonismo e perbenismo tipiche del tessuto sociale di quei tempi. Una suocera, una nuora, due sorelle , anzi due gemelle spinte dalla vita in un ingorgo sentimentale e utilitaristico che non risparmia nessuno. Le figure femminili spiccano in questa vicenda come scambi sul binario di un treno, e i vagoni sono le figure maschili, più o meno consciamente manovrati nel profondo... Non ci sono vincitori né vinti in questa storia a tinte rosse
ma solo attori che si trovano sul palcoscenico talvolta amaro della vita per recitare fino all' ultimo atto la loro parte.
Ileana Parascandolo
CAPITOLO UNO
Non era vero, non poteva essere vero. Gli abitanti di San Rocco accolsero la notizia con estremo scetticismo e se la comunicavano fra loro increduli, quasi raccontassero una barzelletta.
San Rocco era un piccolo borgo circondato da campi verdeggianti situato in un villaggio, sulla collina di Capodimonte. L’aria era salubre, anche a causa dei pochi mezzi di comunicazione che ne percorrevano le strade. Dagli abitanti del centro della città era considerato addirittura luogo di villeggiatura e molti vi trascorrevano le vacanze estive.
In realtà la definizione di villaggio le veniva da quei pochi tassisti che, le rare volte che dovevano effettuare una corsa dal centro della città a questo luogo, pretendevano il pagamento anche della corsa di ritorno, perché il sito era ritenuto: fuori zona
.
I palazzi erano solo quattro, di due o, massimo tre piani, intervallati da alcuni bassi, quei monolocali che offrivano un tetto alle famiglie più povere che, anche se numerose riuscivano a vivere in quelle anguste aree usufruendo della strada come un altro spazio utilizzabile per le proprie necessità.
All’inizio della via una villa sontuosa dall’aspetto aristocratico faceva bella mostra di sé di fronte al deposito dei tram e ad un altro cancello che immetteva in un giardino privato.
Nessun negozio, né ufficio si trovava lì. Anche la chiesa distava qualche chilometro dall’abitato ed era circondata da campi e terreni coltivati a orto, frutteto o vigneto .
Il centro più vicino era denominato Porta Piccola a causa di una delle porte d’ingresso del Bosco di Capodimonte che era considerata piccola rispetto ad un’altra, poco distante, denominata Grande, anche se, in realtà, era della stessa grandezza.
Una strada alberata, delimitata dal muro di cinta del Bosco, con un doppio filare di platani univa i due luoghi e continuava fino al quadrivio di Arzano.
Era una strada larga che si immaginava dritta fino alla fine, ma non era un’ immagine esatta.
Oltre la metà della via, una curva, non segnalata da alcun cartello stradale, era causa frequente di incidenti, a volte anche mortali perché gli autisti ignari, credendo di trovarsi di fronte ad un rettilineo, la percorrevano a velocità molto sostenuta. Per questo motivo dagli abitanti del luogo, era denominata: la curva della morte.
Il nome della strada era Via Miano, ma per tutti gli abitanti era semplicemente: Il Viale
perché, oltre i filari di platani, anche qui c’erano soltanto enormi distese di campi verdeggianti.
I pochi abitanti del villaggio
dovevano percorrerlo ogni volta che avevano bisogno di fare acquisti, andare in farmacia o all’Ufficio postale che fungeva anche da banca in quanto oltre a erogare pensioni e, in alcuni casi, stipendi, custodiva i risparmi sotto varie forme: quali libretti postali, nominativi, al portatore e buoni fruttiferi.
Quando si diffuse la notizia che nel Viale
sarebbero stati costruiti, dalla Società INA Casa e dalla Cassa del Mezzogiorno, dei caseggiati di abitazioni popolari, la notizia fu accolta con un notevole scetticismo.
- Come era possibile? – si chiedevano un po’ tutti.
Il Viale sarebbe stato profanato al punto da dover ospitare degli appartamenti?
Non poteva essere vero. La notizia era infondata, si disse.
Forse qualche buontempone in vena di scherzi aveva messo in giro questa fandonia.
Con il passare dei giorni, invece, tutti potettero verificare che la notizia era vera.
I platani non furono abbattuti, ma buona parte dei campi circostanti, fu recintata e poi, a poco, a poco si videro le scavatrici che cominciarono a far posto alle fondamenta di quei fabbricati che venivano indicati, semplicemente, come: Le palazzine.
Andare a seguire l’evoluzione dei lavori di costruzione delle palazzine, divenne un passatempo per gli abitanti di Porta Piccola e San Rocco, era quasi un rito nei pomeriggi dei giorni festivi poter osservare da lontano le sagome dei palazzi nascenti.
Poi, si cominciarono a vedere le strade. I nomi ancora non c’erano, però si distinguevano le prime vie, l’arteria centrale dove si indovinavano anche i negozi che sarebbero stati aperti.
Fu proprio accanto a quella che sarebbe diventata una tabaccheria che, una domenica pomeriggio, s’incontrarono: Palma e Norina.
Ormai era primavera inoltrata, un tiepido sole inondava spesso la strada dove parecchi curiosi si intrattenevano osservando da un lato, le costruzioni nascenti e dall’altro i glicini in fiore che coprivano il muro di cinta di Villa Meuricoffre. Oggi Villa Capriccio.
Una villa costruita nel settecento e ristrutturata nella prima metà dell’ottocento da Oscar Meuricoffre discendente dell’antica famiglia Morikhofer che, da mercanti di seta divennero banchieri e, come l’attività lavorativa, e lo stato di residenza, cambiarono anche il cognome.
La villa, originariamente, si componeva di due piani: il primo era per la servitù e quindi conteneva anche tutti i servizi, e il secondo era per l’abitazione dei nobili proprietari. Le stanze erano ampie e un grande salone ospitava dame e cavalieri per le feste che i padroni di casa, soventemente, organizzavano. Con la morte del capostipite lo splendore ebbe fine.
Per molti anni, la villa, rimase abbandonata e il degrado regnò ovunque, finché il nuovo proprietario, oltre a farla ristrutturare, vi fece aggiungere un altro piano e le fece riacquistare l’antico splendore, pur conservando l’iniziale impianto settecentesco.
Tutto intorno al caseggiato c’erano campi coltivati a orto, a giardino e a vigneti. Dalla strada, però, si intravedevano appena questi alberi perché erano nascosti da un alto muro di cinta.
La strada non era asfaltata, ed era percorsa, quasi esclusivamente da carretti trainati da cavalli che trasportavano principalmente ortaggi e altri prodotti delle vicine campagne. Asfaltata lo divenne, per necessità, quando iniziarono i lavori di costruzione delle palazzine
.
CAPITOLO DUE
Si guardarono incredule per qualche attimo, le due signore. E… poi, furono subito una nelle braccia dell’altra.
- Ma sei proprio tu? – Non ci posso credere - disse Palma.
- Come mai ti trovi qui? Abiti sempre a Via Chiaia? E le tue figlie? E Franko? Leandro, tuo marito è sempre a Pescara?
Si scambiarono una ridda di domande e dalle risposte che si incrociavano ognuna apprese i trascorsi dell’altra.
Leandro era morto qualche anno prima e le figlie, che erano fittuarie di case di proprietà della Prefettura di Napoli, in via Riviera di Chiaia, essendo venuto a mancare l’avente diritto, avevano dovuto abbandonare quelle abitazioni ed erano diventate assegnatarie, di un appartamento per ciascuna nelle palazzine
edificate con i fondi della Cassa del Mezzogiorno.
Palma abitava nella zona da quando si era sposata e aveva due figlie, una sposata, madre di una bambina, che abitava poco distante dalla casa paterna e l’altra in procinto di farlo.
Palma e Norina si erano conosciute da ragazze in una di quelle feste che si svolgevano nelle famiglie nobili, con cadenza settimanale e che venivano denominate: periodiche.
Nei sontuosi saloni si ballava, si cantava, e i fine dicitori recitavano poesie, brani letterari, e anche macchiette. Scopo principale e, non sempre celato di queste riunioni, però era, per le ragazze che vi prendevano parte, cercare un marito. Ogni festa necessitava di un pianista o di una pianista che trascorreva la sua serata inchiodata al sediolino del pianoforte, suonando, senza sosta, per divertire gli ospiti.
Ovviamente le occasioni di socializzazione di queste persone erano molto limitate in confronto degli altri convenuti.
Norina era di qualche anno