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Lettera a mia madre
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E-book321 pagine4 ore

Lettera a mia madre

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Info su questo ebook

il presente scritto scaturisce dal dolore della memoria. Si tratta dei pessimi rapporti con la madre che nel corso degli anni non si sono mai risanati. Anzi. Questi rapporti hanno fortemente influito sulla decisione dell'autrice di lasciare l’Italia nel 1978 e per sempre. Lo scritto è articolato alla seconda del singolare, sotto forma di lettera, per l’appunto alla madre, suddivisa in decine/annate (anni, 60, 70 ecc. ecc.) pur con frequenti incursioni da un anno all’altro. Necessariamente vi sono accenni alla vita italiana di quegli anni. Tutto è autentico. Purtroppo...
LinguaItaliano
Data di uscita22 mag 2012
ISBN9788866184539
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    Anteprima del libro

    Lettera a mia madre - Anonima Genovese

    Epilogo

    A Tim

    A coloro che si ricordano di me

    Lettera a mia madre

    Premessa

    Questo scritto è autentico.

    Purtroppo.

    Anche se lo neghi.

    Nulla è inventato, anzi, vi sono molte cose che ometterò per evitare ripetizioni per me stressanti e dolorose, concernenti le offese che hai saputo infliggere alla tua famiglia e soprattutto a me, tua figlia, e come tale, di tua proprietà, secondo le tue nevrotiche convinzioni.

    Anche i nomi citati (a volte con iniziali soltanto ) sono veri e tu sai anche questo: anche se fai finta di non ricordarli e non riconoscerli, scommettiamo?

    Anche se neghi ostinatamente.

    Nella tua totale indifferenza al dolore che tu stessa hai provocato.

    L’ambiente lo conosci perché ci sei ancora: quello di una cittadina in provincia di Genova, borghese, elegantuccia e anche un po’ snob.

    La cornice ideale della tua superbia fino alle stelle (come diceva il povero Aldo, tuo cognato, scomparso anche lui, nel febbraio 2009).

    Tutto è vero, anche se la tua memoria (guarda caso) non ti restituisce mai quello che restituisce a me, ossia quello che hai fatto e detto per cercare di rovinare la vita altrui: quella di tuo marito, delle tue sorelle, e soprattutto la mia.

    Comodo avere una memoria labile che rinforza la tua caparbia negazione della realtà.

    Comodo esclamare: Ma io non mi ricordo per non avere sensi di colpa!

    Troppo facile dire no, non è vero, che tu hai detto una mezza parola (citazione) e sono gli altri che si offendono.

    Gli altri: figlia, sorelle, i mariti delle sorelle, marito tuo, genitori di Daniele, tutti ci offendiamo mentre tu povera martire, tutto quello che hai fatto e detto era per il nostro bene.

    Disinteressata com’eri e come sei!

    Queste pagine sono dettate:

    - innanzitutto dal tuo ottuso, nevrotico rifiuto di dire, almeno una volta: mi dispiace… non sapevo, erano le usanze, pensavo di avere ragione, ignoravo che… ecc. ecc.

    - dall’assenza del benché minimo rimorso davanti alla sofferenza di tua figlia, ormai unica superstite della famiglia che hai perseguitato.

    - dall’assenza di domanda di perdono, ossia di riparazione verso le vittime, verso me, tua figlia. Una vittima ha sempre bisogno di riparazione: i Tribunali esistono anche per questo, non solo per punire il colpevole. Nel nostro caso mi sarebbe bastato da parte tua un dialogo incentrato sullo scambio e sul rammarico: il tuo.

    Io ti avrei anche perdonato, l’ho detto a Mauro, rispettivamente tuo nipote e mio cugino, se tu fossi stata capace di farti perdonare.

    Perché il perdono non è gratuito.

    Ma tu non sei neppure in grado di riconoscere le tue azioni.

    La tua ostinazione nel respingere il benché minimo rimorso è patologica.

    Come l’assenza di dubbio che anche tu, forse ti sia sbagliata e proprio con tua figlia. (tu la gran maestra dei miei stivali)

    Questo rifiuto d’autocritica, quest’assenza di empatia di fronte alla sofferenza altrui causata da te, esprime la misura della tua nevrosi: sei tanto concentrata su te stessa che non ammetti neanche di potere avere sbagliato.

    Tutti i dittatori erano così.

    I nazisti che non si sono mai pentiti delle loro nefandezze, non hanno provato mai il minimo rimorso né dubbio.

    Anzi, gridavano che le vittime erano loro, vittime di sporca propaganda.

    Voglio sbatterti in faccia in ordine pressoché cronologico tutto quello che mi ha dapprima solo colpito (anni 50/60), e poi fatto veramente soffrire quando ero bambina (anni 60), ragazza, (anni 70) giovane donna (anni 70/80), giovane madre (anni 80/90), e anche dopo.

    Senza dimenticare, dopo quasi 10 anni di silenzio, le tue recentissime manifestazioni (marzo 2009), dettate dal tuo amore materno di stampo tutto tuo.

    Un sedicente amore materno che io non ho mai capito, che non ho mai voluto, che mi ha fatto fare figure vergognose davanti alle persone a cui tenevo di più e che mi avrebbe rovinato tutta la vita se fossi rimasta non dico a Genova ma in Italia.

    Ci ho messo anni a capire che tu, tuo marito, tutta la nostra famiglia di maestri (io dico: maestrucoli) era un caso clinico.

    Materia da esperimenti.

    Ogni volta che ho fatto un passo verso di voi, ne ho riportato solo cocenti delusioni e continue mortificazioni, in privato, in pubblico e di fronte alle persone che mi erano care e il cui giudizio mi interessava.

    Ritroverai questi edificanti episodi nelle sezioni seguenti: la mia è una memoria d’elefante.

    Troverai qualche breve espressione francese che mi viene spontanea perché sono stata bilingue molto presto come sai; comprenderai senza traduzione.

    Pertanto ti rammento che anche grazie ai Francesi ho potuto ricuperare la fiducia in me stessa che tu hai costantemente sabotato e cercato di distruggere con le tue continue ingerenze e umiliazioni private e pubbliche.

    Questa lettera si articola in sezioni /annate: anni ‘60, anni ‘70 e via di seguito, pur con frequenti incursioni da un anno all’altro, poiché un essere umano non si taglia a fette come un salame. Questo sai farlo solo tu, io no.

    Sono gli anni in cui hai letteralmente imperversato sotto il vessillo del tuo amore filiale, fraterno, materno e coniugale! Sotto il vessillo della tua abnegazione.

    Che in realtà, era solo un indecente desiderio di dominazione, nevrotica onnipotenza, distruzione delle iniziative altrui, di cui la Storia ci ha fornito molti, e tristissimi esempi.

    Leggi e ricupera se non il rimorso di cui sei incapace (proprio come i nazisti) almeno il sentimento della vergogna.

    Ma forse chiedo troppo, incapace come sei di uscire, seppure un attimo, da te stessa.

    ANNI 50/60

    I miei ricordi risalgono ai miei 5 anni (eh si!), confusi, certo, ma pur sempre dominati da una costante: che mi sembravi strana, talvolta incomprensibile e assurda.

    Che mi davi fastidio.

    Che eri sgraziata.

    Che eri inopportuna.

    Che eri autoritaria.

    Che avevi una voce da cornacchia con un accento genovese da tagliare con il coltello, e una zazzeretta bionda mal tagliata, per niente sensuale, che non mi piaceva, anzi, che ai miei occhi rendeva ancora più insopportabile quella che sei.

    Che eri gretta ed eccessiva nelle tue pretese, specialmente con la famiglia che dicevi di amare.

    Non sentivo nessun legame filiale con te ma in fondo neanche con le persone che comandavi a bacchetta e che non osavano ribellarsi come avrebbero dovuto, una volta per tutte.

    Accettavo con distacco il flusso degli eventi intorno a me ma: non avevo certo i decantati sentimenti filiali che hanno costituito il cardine di una certa educazione familiare tutta latina e molto italiana almeno fino agli anni ‘70.

    Ho sempre avuto sentimenti di permanente irritazione verso di te, mio padre, i nonni.

    Perché tutti mi sembravate grossolani, ridicoli, boriosi e tu più di tutti.

    Grossolani sotto la vostra presunta rispettabilità.

    Grossolani sotto la vostra superbia.

    Sentivo che non ero al mio posto.

    Perché mai?

    Cerco di spiegartelo.

    Già a vedervi vivere tutti insieme, sette persone capeggiate da te donna sposata avente ancora bisogno (e diritto) di essere circondata da genitori e sorelle.

    Innanzitutto ti chiedo: ma ti sembra questa l’indipendenza di una donna normale ed equilibrata? Moglie e madre?

    Era questa la tua maturità di donna sposata?

    Incapace di staccarsi psicologicamente da tutta la tribù pur avendo un lavoro, una casa, un marito e una figlia?

    Tanto per cominciare, anche da sposata hai voluto tutta la famiglia accanto, nello stesso appartamento altamente promiscuo, nascondendo questa nevrosi di stampo infantile sotto l’etichetta d’amore per la famiglia.

    Ma va!

    E poi: vivendo con tutta questa gente non ti vergognavi di imporre a mio padre la tua scelta?

    Di imporgli tutte queste persone che non permettevano la vostra intimità neanche a livello delle conversazioni private di cui una coppia ha bisogno?

    Non ti vergognavi poi di andare in camera da letto sapendo che gli altri erano vicinissimi e che le associazioni d’idee esistono anche per gli animali?

    Il sacramento del matrimonio che tu apprezzavi tanto al punto da massacrare figlia e sorelle come vedremo in seguito, ti dava forse il diritto di diventare impudica?

    Si, impudica.

    Senza nemmeno accorgertene.

    L’impudicizia delle bestie.

    Ecco una delle parole che non possedevo nella mia giovanissima età per indicare il mio imbarazzo: impudica.

    E indecente.

    Con la scuola elementare, ossia con il mio primo accesso in società, mi sono accorta ben presto che nessuno, nessuna famiglia viveva così; nelle famiglie delle mie compagne nessuna coppia si circondava di due sorelle più giovani e di genitori ( i miei nonni) sui 65 anni in un solo ed unico appartamento composto di camere sullo stesso piano, vicinissime e dai muri sottili.

    Si può fare per due, tre giorni o durante le vacanze tutti insieme ma non in maniera permanente e deliberata.

    Come l’ho fatto io stessa, certo, lo so cosa pensi e ti rispondo subito perché non dimentico e non nego niente. Quando sono venuta a trovarti molti anni dopo, in coppia in estate o a Natale, l’ho fatto per 3 o 4 giorni massimo, oltretutto sentendomi a disagio.

    Non ho dormito sotto i tuoi occhi come sistema di vita, praticamente in gruppo, per anni e anni.

    Tu hai vissuto stabilmente, indecentemente una vita coniugale corale, quotidianamente filmata dal resto della famiglia, ripetendo ogni giorno e sera con troppa gente intorno, certi riti apparentemente innocenti, il che non è normale.

    E ancora meno normale sotto gli occhi della bambina che ero; a cui gabellavi la tua nevrosi sotto il discorso ufficiale e perbene che metteva la famiglia al centro dell’universo!

    E in questo centro troneggiavi tu, inglobando statuti diversi con una certa unità di tempo, luogo e azione.

    Volevi conservare il tuo statuto di ragazza tirandoti dietro madre, padre, sorelle.

    Pretendevi tuttavia lo statuto di donna sposata imponendo a tuo marito una famiglia d’origine di cui avevi (ancora )bisogno per assumere la tua nuova condizione.

    Innanzitutto una coppia ha bisogno d’intimità e di spazio.

    Se lo spazio non è possibile (ne so qualcosa io che ho vissuto 25 anni negli appartamenti Parigini!) che almeno non vi siano testimoni che commentano.

    Specialmente se la coppia è provvista di figli, come nel tuo caso.

    E dal canto loro, le tue sorelle nubili non erano certo tenute ad avere sotto gli occhi situazioni che pur apparentemente innocenti, in fondo erano ambigue.

    Tutta questa innocenza dei nostri rapporti era solo promiscuità.

    Per venire a tuo marito, ovvero mio padre, ti sembra normale che, pur rispettoso, insisto, pur rispettoso (come può essere un fratello dicevi tu) a volte sorprendesse le tue sorelle in bagno o in altre situazioni private perché avevano dimenticato di chiudere la porta a chiave, soprattutto Genia sventata com’era?

    Un fratello ha bisogno di questi spettacoli per conformarsi a quel maledetto (e italiano) senso della famiglia?

    Quante volte è successo!

    Io vi sentivo ridere e mi sentivo a disagio.

    Non capivo perché rideste delle situazioni che non mi piacevano.

    E inversamente spesso constatavo che non mi piaceva proprio quello che invece faceva ridere voi.

    Altrettante cose che hanno sgradevolmente colpito la mia sensibilità di bambina.

    Per onestà insisto sul termine innocenza della nostra vita: affinché non ti sfiori il dubbio che io voglia accusarti di cose che non sono, quello che ho da dire mi basta e avanza.

    La vostra era in realtà un’innocenza impura, spesso materializzata da oggetti anch’essi innocenti: abiti appesi dietro le porte, accessori spesso dimenticati sul territorio altrui, le supposte degli uni e la fascia elastica degli altri, le dentiere del nonno, i mutandoni della nonna, il rasoio di tuo marito che tuo padre (mio nonno) usava di nascosto (!) lasciandoci i suoi peli grigi e mio padre si arrabbiava… o l‘’hai dimenticato?

    Ha bisogno di queste cose un fratello ormai adulto e maggiorenne nonché vaccinato?

    Ha bisogno di queste intrusioni una coppia sposata?

    Ho bisogno di vedere le schifose dentiere io, bambina?

    Non mi piacevano tutte queste abitudini quotidiane, intime, saldamente fuse le une con le altre, per non parlare delle frasi e conversazioni anche telefoniche che avrebbero dovuto essere private e che non potevano mai esserlo perché con te il benché minimo senso di privacy diventava un’offesa al tuo nevrotico potere che volevi esercitare su tutti.

    Impossibile avere un giardino segreto, uno spazio psicologico ad uso del singolo!

    Tutto doveva essere sciorinato in casa, sotto gli occhi di tutti e soprattutto i tuoi perché tu eri il Comandante di tutta questa tribù.

    Per non parlare delle tue sorelle che per quanto carucce andavano a frugare nel cassetto della tua biancheria quando tu non eri in casa, dopodiché ti lanciavano frecciatine allusive, per farti capire che avevano capito…. o che avevano trovato qualche scritto, qualche preservativo forse e altre cose che riguardano solo la nostra intimità.

    Che riguardano solo la nostra povera umanità.

    Con te, con voi, tutto era in piazza.

    Tutto era pubblico.

    E questa è una cosa che mi ha sempre indignato.

    Che mi ha sempre riempito di rabbia e di tristezza.

    E più tardi: di vergogna.

    Un giorno ho sorpreso te in conversazione sibillina con le tue sorelle che dovevano avere trovato nei tuoi effetti personali non so quale povero trofeo e tu hai detto, arrabbiata: Uffa, da adesso chiudo tutto.

    Sarebbe stato più semplice visto che tutti lavoravano e i nonni avevano una piccola pensione, vivere separati, che diamine.

    Almeno, che tu vivessi solo con tuo marito e me, lasciando insieme sorelle e genitori in un altro appartamento.

    Me le ricordo bene queste cose, questa mancanza assoluta di privacy, fisica e mentale.

    Questo continuo passaggio da un territorio all’altro, da uno spazio fisico ad uno spazio mentale, come se la famiglia giustificasse questo soffocamento quotidiano.

    Questa eutanasia dell’individualità.

    Tutto era comune, tutto era osservato e commentato, soprattutto da te.

    Nonché trattato con parole insultanti.

    Ti sembra normale che spesso, seppure involontariamente intendiamoci, questo marito (per te) e padre (per me) assistesse allo spettacolo di una femminilità moltiplicata per 4 che non lo riguardava minimamente e, soprattutto, non doveva riguardarlo?

    Femminilità fatta di reggiseni o civettuole mutandine con il pizzo che le tue sorelle appendevano al di sopra della vasca da bagno, oppure calze e reggicalze (fino al 1966 non esisteva il praticissimo collant) stesi sul poggiolo, altri indumenti talvolta dimenticati o sparpagliati in donnesco disordine, borsette aperte o peggio.

    Come quando dimenticavate bellamente sul bordo del lavandino gli assorbenti igienici utilizzati e mio padre non sapeva come e a chi dirlo prima di usare il bagno anche lui, non osando neanche buttarli via!

    Io che sono sempre stata più spregiudicata (parola tua!) nelle mie scelte, mai e poi mai mi sono messa in tali situazioni, neanche con le mie amiche più intime.

    Neanche quando ero in ospedale!

    Neanche quando talvolta ho dovuto dividere la mia camera o un appartamento con terzi.

    E direi: neanche con me stessa quando sono sola.

    Perché non si fa.

    Perché non è bello.

    Perché non è fine

    Né elegante.

    Perché non riguarda nessuno.

    Ancora adesso, a casa, non riesco neppure a tradurre se prima non ho fatto ordine intorno a me dopo essermi vestita decentemente e magari anche truccata: per me dico.

    Anche se non esco.

    Non parliamo di quando vivevo con mio figlio!

    Dicevo che tuo marito assisteva a questi spettacoli e viceversa le altre persone assistevano alla tua vita coniugale con lui, sotto l’egida della medesima innocenza, rispettabilità, coscienza di avere una bella famiglia di 7 persone che si volevano tanto bene e che disponevano di un solo bagno!

    In realtà era questa la famiglia che tu volevi solo comandare.

    E io vi osservavo tutti spostando una fantomatica cinepresa sulla vostra assurda prosa quotidiana che non esisteva altrove.

    E se esisteva era in case enormi, tipo quelle che vedevo in Piemonte o in Toscana, con piani ben separati. Non in appartamenti cittadini dai muri sottili.

    Qualunque fosse il mio angolo d’osservazione mi dicevo che questa famiglia, in realtà non poteva essere la mia.

    A volte immaginavo di essere un’orfana per non assomigliare a voi.

    E soprattutto, per non assomigliare a te, che incarnavi ai miei occhi l’esempio mostruoso da non seguire.

    Tu, invece, nella tua assurdità, fatta al contempo di repressione e indecenza, non hai esitato a comporre (e dirigere) una tribù in cui l’ambiguità era pane quotidiano.

    Repressa e repressiva, repressa e morbosamente vogliosa comandavi tutti usando un linguaggio triviale specie quando parlavi delle donne.

    Proprio come certi uomini che usano un linguaggio capace di togliere alla donna ogni dignità civile e sessuale.

    Io ho respirato quest’aria senza che tu te ne rendessi conto, convinta com’eri (e come sei) di essere stata una donna seria, una ragazza seria che si è sposata vergine (peggio per te!), una madre ben intenzionata. (si vede il risultato) e una sorella affettuosa (me le ricordo le dispute becere e cretine con le tue sorelle!).

    E invece, checché tu ne dica, eri inconsciamente, impudica, volgare.

    In realtà penso ad un’altra parola: ma ogni cosa a suo tempo.

    E anche ora leggendo queste righe affermerai che quello che dico è un partito preso, che insinuo (!) perché non ho altri capi d’accusa…

    Non insinuo: affermo.

    Non insinuo: fotografo.

    Sto tirando fuori una specie di assurdo album familiare che conosci benissimo nella misura in cui l’hai voluto e costruito solo tu, pagina per pagina, cioè cattiveria per cattiveria.

    E d’altra parte, ne ho tante cose di cui accusarti che avrei fatto volentieri a meno anche di quelle che hanno segnato in questo modo la mia prima infanzia.

    Ma proprio perché ti ho promesso un ordine cronologico, comincio dall’inizio, con la precisione di una merlettaia.

    No, non era bella la nostra famiglia borghese con tante persone che si amano, viventi tutte insieme e con solidi legami familiari come raccontavi tu in giro!

    Tanto solidi che hai sposato mio padre nel 1948 con i Carabinieri in Chiesa e sai benissimo perché.

    Tanto sani che non hai mai voluto sapere se una certa bambina nata nel ’47 o ‘48 fosse sua figlia.

    Ti sei accontentata di dire "peggio per lei, per quella donna se era andata a letto con un uomo senza essere sposata.

    Affari suoi se è rimasta incinta".

    Non si va in tenda con un Ufficiale!

    Tanto seria che non hai mai messo mio padre di fronte alle sue vere o presunte responsabilità nei confronti di quella povera donna e della bambina.

    Magari la ragazza seria eri tu vero?

    Come le donne della tua generazione che si concedevano (!) solo dopo regolare matrimonio?

    Ed è così che ti sei sposata in abito bianco, l’indecente colore di quella purezza morale che non hai mai avuto!

    Tu eri seria perché per stare con un uomo avevi bisogno di firmare un contratto e ottenere certezze.

    Era questa la tua serietà?

    Brava!

    Questa (era ed è) la tua morale su cui ritornerò spesso ma non volentieri.

    Non senza averti rinfrescato la memoria su altre cose della nostra rispettabilissima, numerosa e impudica famiglia.

    Io ti dico ora che questa congerie di gente e abitudini falsamente innocenti era invece quella di una famiglia un po’ cialtrona, diretta da te, donna repressa, fissata; bacchettona, ipocrita e inconsciamente indecente.

    Indecente: è questa la parola che costituirà il fulcro e il ritornello della presente e ti avverto già, non ho nessuna voglia di risparmiarti come tu non hai risparmiato noi con i tuoi ripugnanti borborigmi psicologici.

    Perché non lo meriti.

    Che ti piaccia o no ripeterò questa parola che riflette abbastanza bene tutti i tuoi malsani comportamenti.

    Che tu te ne renda conto o no.

    Che tu lo ammetta o no.

    L’impudicizia che mi hai fatto respirare non era certo tangibile e identificabile come quella di un bordello, lo sappiamo bene!

    Borghesi e superbi com’eravamo!

    E di retaggio fascista come sanno tutti.

    L’impudicizia aleggiava nell’aria di casa nostra in maniera oscura e inespressa ma esistente.

    Tu dicevi, che vivevamo tutti insieme perché tu amavi genitori e sorelle!

    Logico quindi che anche appena sposata fossero tutti presenti intorno a te ancora per amore familiare.

    In realtà per farsi comandare.

    O per tenere la candela.

    Altrettanto logico che fossero ancora presenti quando sono nata io e anche dopo, per molti, troppi anni.

    Ma ti sembra normale, domando e dico io, che le tue sorelle assistessero mentalmente alla tua (povera) vita sessuale una volta che avevi chiuso la porta della tua camera sotto i loro occhi di ragazze?

    Almeno si fosse trattato di una casa multipiano da dividere alquanto rigorosamente o di due villini contigui come ce ne sono tanti anche a P. per esempio in quel Viale Modugno che ci piaceva tanto.

    Insomma, parlo di una dimora in cui ritagliare un po’ di spazio, fisico e psicologico, per ognuno di noi.

    Negli appartamenti che abbiamo abitato a P. tu esercitavi il tuo statuto di donna sposata senza mai pensare che questa situazione era singolare.

    Assurda.

    Niente affatto educativa. (parlo di me)

    A nostro livello nessuno viveva così.

    Nessuno.

    Ma chi, dimmi chi nella nostra cerchia costruiva la propria vita coniugale sotto lo sguardo corale di sorelle e genitori sotto lo stesso tetto, chi?

    Dammi un nome che gli faccio una foto!

    A parità di tempi, dico bene, negli stessi anni, tutte le altre coppie di nostra conoscenza e con figli della mia età, vivevano al massimo con uno o due genitori, in case molto grandi, diversamente disposte, e mai con la presenza supplementare di sorelle giovani e bellocce dalla lingua lunga, e di fervida immaginazione generata proprio da quell’ottusa morale sessuale più o meno cattolica che tu difendevi e che, paradossalmente, ti rendeva impudica e volgare.

    Ma non lo sai che proprio quando si è numerosi (era il nostro caso) basta una sola parola, un ammiccamento, un risolino, una larvata allusione per scatenare un effetto di gruppo?

    Ossia un’atmosfera torbida che necessariamente incuriosisce qualsiasi bambino immerso in una tale dimensione.

    Ma non lo sai che questo tipo di curiosità può diventare veleno se moltiplicata?

    Spesso (perché scema non ero) vi chiedevo spiegazioni su certi vostri atteggiamenti per me tanto irritanti quanto incomprensibili. Vi chiedevo il perché di certe frasi smozzicate e altrettanti sospiri accompagnati da occhi rivolti al cielo, vaghi gesti della mano, labbra serrate, schiena rigida, e naturalmente ricevevo risposte borghesi ossia consone a quella nostra, sciorinata (indecente) rispettabilità, quali:

    Stai zitta!

    Non abbiamo detto niente!

    Hai capito male!

    Non sono discorsi per te.

    Vai a fare i compiti

    Vai a giocare

    E se insistevo troppo:

    Finiscila perché ti dò uno schiaffo!

    E non vi siete mai accorti (e tu meno di tutti) che la vostra rispettabilità si nutriva di sesso, sì

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