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Ernesto: Genesi di un eroe
Ernesto: Genesi di un eroe
Ernesto: Genesi di un eroe
E-book357 pagine5 ore

Ernesto: Genesi di un eroe

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Info su questo ebook

Johnny, un giovane giornalista, si ritrova a intervistare Ernesto, eroe dallo straordinario carisma che ha riunito l'Italia sotto un'unica bandiera dopo la costituzione di una Repubblica del Nord, tirannica, razzista e oppressiva. Il Comandante racconterà la storia della sua vita nei minimi dettagli, in una sorta di confessione lucida; eppure, qualcosa nelle sue parole non convincerà il giornalista che si ritroverà a indagare sul suo mito. Ogni scoperta lo metterà sempre più in pericolo fino a quando non sarà costretto ad affrontare la verità. Ernesto - Genesi di un eroe è un romanzo distopico, ambientato in un futuro non molto lontano, che ci spinge a riflettere sulle conseguenze catastrofiche dovute alla corruzione sistematica delle leggi democratiche e sulle intime contraddizioni delle grandi personalità, divise, come ogni essere umano, tra il bene e il male, tra le passioni istintive - amore, rabbia, vendetta - e il sacrificio individuale per il benessere della comunità.
LinguaItaliano
Data di uscita8 lug 2019
ISBN9788893432573
Ernesto: Genesi di un eroe

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    Anteprima del libro

    Ernesto - Francesco Nucera

    Italia)

    Capitolo 1

    Intro

    Jacopo, sdraiato sul tetto di una vecchia fabbrica, fissava un puntino argentato che rifletteva la luce del sole. Passando si lasciava alle spalle una striscia bianca, che spaccava a metà il cielo terso. L’aria era immobile e la città sembrava deserta.

    Negli ultimi giorni erano partiti tutti, avevano abbandonato le case e gli uffici. Decine di camion erano passati lì sotto, facendo tremare i vecchi vetri delle finestre semiaperte. La mamma non gli aveva detto cosa stesse succedendo, non lo faceva mai. Si era limitata a ripetere la solita frase: «Vedrai che tra poco torna papà».

    Ma lui, anche se aveva solo dieci anni, non le aveva creduto. Lei ripeteva quella frase da almeno quattro anni, da quando degli uomini cattivi, con le camicie verdi, erano entrati in casa, l’avevano chiamato negro e si erano portati via il padre.

    Jacopo sollevò la mano e la osservò, il nero della pelle spiccava nel contrasto azzurro.

    «Mamma, perché non hanno portato via anche me?» le aveva chiesto due settimane prima.

    «Perché sei mio figlio, tu sei italiano».

    «E allora perché non posso andare a scuola con gli altri bambini? Loro non lavorano».

    La madre aveva abbassato lo sguardo e si era incupita. «Tu sei speciale, in te scorre il sangue di due mondi diversi». Era stata in silenzio quasi un minuto, poi aveva ripreso a parlare: «Quando tuo padre tornerà, sarà tutto come prima e tu andrai a giocare con gli altri bambini».

    «Papà sta bene, quando torna?».

    La donna l’aveva stretto al petto dandogli un bacio sulla fronte e aveva tirato su col naso.

    «Vedrai che torna presto e poi deve conoscere Ernesto».

    Jacopo voleva bene al suo fratellino, aveva più di un anno e camminava da poco. Con lui si comportava come un adulto, gli cambiava il pannolino e lo accudiva. Proprio come avrebbe voluto suo padre che, due anni prima, durante l’unica visita notturna, gli aveva detto di badare alla mamma perché ormai era l’uomo di casa.

    Dei rumori lontani interruppero i pensieri del bambino, sembravano i rombi dei camion che erano partiti quella mattina, ma provenivano dalla parte opposta. Le finestre dei palazzi vicini si aprirono, le voci di centinaia di persone risuonavano nello spazio circostante. La gente scendeva in strada. Senza pensare a cosa stesse accadendo, anche lui fece lo stesso; si alzò e corse a perdifiato. Negli ultimi anni aveva sentito solo silenzi e urla, ma questa volta era diverso, c’era allegria.

    Le suole delle scarpe scivolarono più volte sui gradini impolverati. Per non finire a terra, a ogni pianerottolo si dovette aggrappare ai pomelli sporgenti e tirare con le braccia per darsi un nuovo slancio. In un batter d’occhio si ritrovò sul marciapiede.

    Stanco, si fermò, appoggiò le mani sulle ginocchia piegate e cercò di calmarsi, i frequenti respiri profondi non gli permettevano di mettere a fuoco il fuoristrada che avanzava. Era alla testa di altri mezzi, c’erano auto e furgoni, ma anche una marea di gente a piedi. Avevano le armi in mano, ma non le stavano usando per far paura, le tenevano sollevate sopra la testa e gridavano.

    Quando il suo respiro fu calmo, Jacopo vide un uomo in piedi a fianco al conducente del fuoristrada. Portava un cappello, uno di quelli che usavano i militari, e una divisa sporca. Aveva capelli e barba lunghi che gli coprivano quasi tutto il viso, ma non gli occhi. Le iridi marroni spiccavano in un oceano bianco come la neve, fiammeggianti e intensi come mai ne aveva visti prima. Fu solo un lampo, la macchina lo superò e Jacopo si trovò circondato da centinaia di persone festanti.

    Non si accontentò di quella visione, voleva sapere chi fosse l’uomo e perché tutti lo stessero seguendo. Si voltò e iniziò a correre. Qualcuno lo afferrò per i fianchi e lo sollevò da terra. Il bambino provò a protestare, eppure non si sentì in pericolo, gli individui a fianco a lui sorridevano, gioiosi. Molti erano speciali come lui, avevano la pelle colorata, gli occhi allungati, i capelli crespi, erano tutti dei diversi. L’uomo che lo teneva lo appoggiò sulle spalle e continuò a camminare. «Goditi lo spettacolo, siamo uomini liberi» si limitò a dire.

    Jacopo non capì cosa intendesse, ma l’entusiasmo pervase anche lui che si guardò attorno con la bocca spalancata. Intravide la madre e la salutò con la mano, anche lei era felice.

    Sulle spalle di quello sconosciuto attraversò le vie della città in festa cercando di capire cosa stesse succedendo.

    Tutti acclamavano la stessa persona, forse quella che guidava il gruppo.

    «Siamo con te Comandante».

    «Sempre avanti, fino alla vittoria».

    «Viva l’Italia unita».

    «Evviva il Comandante Ernesto Valsecchi».

    Jacopo sorrise sentendo il nome del suo fratellino urlato dalla fiumana e per un attimo sperò di sentire anche il suo. Nessuno lo fece, ma non importava, quella gente era allegra come mai lo era stata prima.

    La folla si fermò in un’ampia piazza, dalla parte opposta si poteva scorgere una lunga cancellata che proteggeva un antico palazzo dorato. Le persone davanti ammutolirono, mentre le ultime in fondo riempivano ogni centimetro dello spiazzo. Di tanto in tanto qualcuno urlava ancora quel nome: «Ernesto!» seguito da altri che rispondevano allo stesso modo, finché il soldato del fuoristrada non si arrampicò su una statua raffigurante un cavaliere. A quel punto il silenzio fu totale.

    L’uomo si sedette ai piedi del cavallo, lasciando penzolare nel vuoto le gambe. Si guardò intorno e sorrise. «Fratelli!» urlò. La folla sussultò, emettendo un sospiro all’unisono. «Oggi, ventisei luglio, Torino è libera!».

    Il boato invase la piazza, la gente commossa si abbracciò. Dall’alto il Comandante osservò compiaciuto, attendendo di poter riprendere la parola.

    «Abbiamo lottato, pianto e sofferto. Molti sono morti, ma nessuno lo è stato invano». Tornò il silenzio. «Domani, quando rientrerete nelle vostre case, ricordate i volti di chi non c’è più. Prendete un bicchiere e riempitelo, alzatelo al cielo e brindate con loro. Perché è grazie a loro che l’Italia potrà tornare a essere una».

    Un leggero brusio si alzò, costringendo il Comandante ad alzare la voce. «Ma ricordate che il vostro sforzo non è che all’inizio. Riuniremo Mare Nostrum e la Repubblica del Nord sotto il vecchio Tricolore. Saremo noi la nuova politica, noi a vegliare affinché la guerra civile non torni, noi la memoria scomoda. Perché oggi nasce la nuova Italia, la nostra Italia, quella che riconosce un solo colore, il rosso del sangue versato».

    La piazza esplose, migliaia di persone si abbracciarono saltando. Per un attimo Jacopo ebbe l’impressione che il Comandante Ernesto lo stesse guardando, ma le teste degli astanti gli pararono la vista. Qualcuno lo afferrò da dietro, rigirandolo in aria come fosse senza peso. La piroetta gli fece chiudere gli occhi.

    Con il naso schiacciato contro il petto di un uomo, Jacopo sentì un odore familiare, che ormai credeva perduto per sempre. Aprì le palpebre e guardò verso l’alto. Le lacrime gli invasero gli occhi, suo padre era tornato.

    Tre mesi dopo

    Il vento tiepido mosse le fronde di una quercia secolare. I rami oscillarono scrollandosi di dosso le prime foglie ingiallite. Il sole si stava alzando sul cielo di una metropoli che da qualche mese cercava di rinascere. Era parecchio che non si sentivano gli allarmi antiaereo, ma nessuno li aveva dimenticati.

    Johnny poggiò i mocassini sull’erba umida. Le lunghe falcate dimostravano una sicurezza ben lontana dalla realtà, dentro sentiva un tremore irrefrenabile e l’ansia di conoscere uno degli uomini più in vista del Nuovo Corso.

    Aveva letto molto sul Comandante durante gli studi parigini e gli piaceva descrivere il tempo trascorso in Francia come un periodo di dedizione alla storia di un eroe, nonostante fosse stato considerato un rifugiato politico da alcuni e disertore da altri. Soffriva ancora per quella sua non scelta: il padre l’aveva imbarcato su un volo di sola andata, facendogli promettere che sarebbe rientrato solo a giochi fatti. In quegli anni si era sentito uno schifo, le notizie che valicavano le Alpi non erano confortanti, ma alla fine aveva trovato il modo per rendersi utile scrivendo sul suo blog; ora aveva davanti un vero eroe e le sue sicurezze vacillavano.

    Il Comandante, molto più piccolo di come se l’era immaginato, era sdraiato ai piedi della quercia. Aveva gli occhi chiusi e un’espressione rilassata in volto. I racconti che avevano raggiunto Johnny parlavano di un colosso, capace di trascinare interi reggimenti armati di scarti bellici verso la gloria e di trasmettere un immenso coraggio a chi conosceva la paura. Eppure quell’uomo non sembrava nulla di che, aveva la barba lunga, i capelli trasandati e due grosse borse nere che gli coprivano mezzo volto, sembrava un relitto.

    Il famoso guerrigliero non gli prestava attenzione, stava per essere colto di sorpresa. I metri che li separavano diminuivano progressivamente e l’emozione diventava sempre più incontenibile.

    Il Comandante Valsecchi è lieto di invitare Johnny Bianchi nella sua residenza provvisoria per discutere di una possibile collaborazione.

    Johnny ricordò le poche righe che aveva letto due settimane prima e che da quel momento non gli avevano permesso di pensare ad altro. Continuava a ripetersi in testa le domande studiate per l’incontro, eppure non si sentiva ancora pronto.

    Si fermò a pochi passi dall’uomo, che non voleva saperne di svegliarsi. Imbarazzato, iniziò a pensare a quale potesse essere l’approccio migliore. Aveva già consumato buona parte delle energie mentali per ostentare la falcata sicura e non aveva idea di come si svegliasse un eroe di guerra. Si piegò in avanti con la mano tesa verso la spalla del Comandante ma, prima che potesse toccarlo, un dolore al polso lo fece piegare sulle ginocchia. Quel corpo inerte si era risvegliato e, con un movimento impercettibile, l’aveva costretto a terra.

    Alzò lo sguardo e incrociò gli occhi di fuoco di Ernesto Valsecchi che, fino a pochi istanti prima, sembrava addormentato. In quel momento capì da dove avevano origine tutte quelle leggende, si sentì piccolo al cospetto del Comandante. Johnny, sfruttando l’esitazione dell’uomo che sorrise bonariamente, indietreggiò carponi.

    «Mi scusi, non volevo…» balbettò. Mortificato, per averlo spaventato, si rialzò. «… Ho un appuntamento». Porse a Ernesto il foglio che teneva stretto in mano.

    L’uomo lo guardò e sorrise, anche gli occhi cambiarono espressione. «Scusami tu, avrei potuto salutarti appena hai appoggiato i mocassini sull’erba, ma avevo bisogno di ridere».

    Johnny, le braccia lungo i fianchi, serrò i pugni e sbuffò dal naso. L’orgoglio lo fece infiammare, lui era un serio professionista, una delle poche penne libere del conflitto, non un pagliaccio. Poggiò a terra la ventiquattrore con dentro tutto il necessario per un’intervista e, sotto gli occhi divertiti di Ernesto, prese la sedia pieghevole vicino all’albero, l’aprì e si sedette.

    «Dalle mie parti si aspetta un invito per accomodarsi, senza sottovalutare che ora sei in una posizione predominante». Il sorriso del Comandante scomparve.

    «Mi scusi». Johnny si alzò di scatto. Stava andando tutto nel peggiore dei modi. Quell’uomo aveva una presenza troppo ingombrante, e lui non riusciva a ragionare in maniera lucida. «Perdoni la mia maleducazione» disse, abbassando lo sguardo. «Posso sedermi?».

    «Certo che puoi, figliolo». Ernesto non indicò la sedia, ma il prato al suo fianco.

    Johnny vacillò cercando di capire se quella fosse una prova. Era appena stato ripreso per l’insolenza e non voleva ricascarci. Sedersi vicino a lui poteva rappresentare un’altra mancanza di rispetto. Gocce di sudore iniziarono a colargli sulla schiena. Non sapeva se il Comandante avesse studiato tutto a tavolino per testarne la solidità emotiva o se semplicemente lo stesse prendendo in giro, ma la questione non cambiava: era terrorizzato. Deglutì e si sedette sull’erba.

    «Quindi ho l’onore di conoscere il famoso Johnny Bianchi, quello che mi ha reso un mito?». Ernesto gli tese la mano.

    Smarrito, il ragazzo lo fissò per qualche istante. Ho l’onore, famoso. Quelle parole, pronunciate da quell’uomo, per quanto potessero sembrare sarcastiche, avevano un sapore inebriante. In cuor suo sapeva che erano vere: Johnny Bianchi aveva fatto conoscere il Comandante a tutti. Era successo grazie a una foto che suo padre gli aveva mandato dal fronte, una delle tante. Eppure, appena l’aveva vista, Johnny aveva capito che aveva qualcosa di speciale. Ernesto Valsecchi era sul dorso di un mulo, con il basco ben ordinato sui capelli scompigliati, una sigaretta storta, che gli pendeva tra le labbra, e gli occhi socchiusi per il fumo della cicca. Già di per sé quell’immagine era fuori dal tempo, ma il tocco magico era dato dalla luce: la figura sovraesposta donava alla stampa un’aria antica.

    Johnny afferrò la mano di Ernesto e la strinse con tutta l’energia che aveva in corpo. «Io ho avuto solo la fortuna di avere un padre che la seguiva» disse impettito.

    «Infatti è solo quello il motivo per cui sei qui. Tuo padre non faceva che parlare di te. Lui combatteva per il tuo futuro».

    Quelle parole arrivarono come una doccia fredda. «Ma io…» provò a protestare.

    «Lo so, tu sei un giornalista con le palle. Lo siete tutti!».

    «Veramente lo sono stato anche durante il conflitto. Mentre l’Europa fingeva che non stesse succedendo nulla, io ho mostrato i fatti!». Un moto d’orgoglio lo pervase.

    «Parole scritte da una poltrona comoda».

    Aveva ragione e questa cosa colpì nel vivo Johnny. La rabbia scemò e lasciò il posto alla stessa frustrazione di quegli anni passati al confino.

    Incurante del colpo appena rifilato al suo intervistatore, Ernesto prese una busta di tabacco e si rollò una sigaretta, l’appoggiò fra le labbra e l’accese. Lo sfrigolio del tabacco risuonò come un incendio nel silenzio del giardino.

    Dopo una lunga boccata, seguita da un bianco nuvolone maleodorante, la fatidica domanda arrivò: «Perché sei qui?» chiese.

    Johnny smise di respirare, non poteva rispondere con un semplice: Per intervistarla. Era troppo ovvio e non sarebbe stata nemmeno la verità, lui era lì per scoprire com’era morto suo padre, ma aveva paura di esporsi. «Voglio sapere chi c’è dietro il mito!».

    «Quindi sei come tutti quei giornalisti che sono passati prima di te, vuoi i retroscena macabri del conflitto?».

    Johnny sentì la gola stringersi, non era come loro. «Ha frainteso» farfugliò, «io voglio sapere chi era Ernesto Valsecchi. Prima del mito ci sarà stato un ragazzo con delle debolezze, con dei sogni? Io voglio conoscere l’uomo…» disse tutto d’un fiato, convinto di poter rimediare alla prima risposta.

    «E questa è la seconda cosa che mi chiedono». Il Comandante si carezzò la barba, pensieroso. «Perché non dovrei trattarti come gli altri?».

    Johnny impallidì. Sguardo basso, spalle in avanti, era pronto a dichiararsi battuto. Sapeva che prima di lui c’erano stati altri giornalisti, liquidati nel giro di poche ore.

    «Se non puoi offrirmi nulla di nuovo, te ne puoi andare!». Il Comandante non lo guardava nemmeno in faccia.

    «Ma io…».

    «Tu cosa, sei diverso?».

    Johnny scosse la testa, non lo era.

    «Allora lasciami in pace».

    «Ha ragione, non ho nulla di diverso dagli altri». Si alzò. «Ma stia pur tranquillo che non ne troverà uno migliore». Affranto, si chinò in avanti con la mano tesa. «La ringrazio comunque per l’opportunità. È stato un onore». Si voltò, pronto a lasciare quel posto.

    «Questo da te non me lo sarei aspettato» disse Ernesto, espirando il fumo della sigaretta.

    Johnny si bloccò. «Cosa non si sarebbe aspettato, Comandante?». Chiamarlo così lo inorgoglì. Chissà quante volte anche suo padre l’aveva fatto?

    «La carta del melodramma è veramente becera». Entrambi abbozzarono un sorriso. «Ma credo che tuo padre ne sarebbe soddisfatto. Lo diceva sempre: Il fine giustifica il mezzo».

    «Signore, non è come crede…» provò a giustificarsi.

    «Credo solo che una cosa giusta tu l’abbia detta, non sei il più stupido che è passato di qui e almeno nei tuoi occhi posso rivedere una persona a me cara. Quasi un secondo padre».

    Johnny, convinto d’aver fatto breccia, gonfiò il petto.

    «Torna qui!» ordinò Ernesto.

    Un sorriso beffardo comparve sul volto del ragazzo. Non era poi così difficile raggirare il Comandante.

    «Non vorrai mica abbandonare tutta questa roba?». Ernesto stava indicando la ventiquattrore.

    Il petto di Johnny si sgonfiò, le spalle caddero in avanti. Si sentì uno sciocco, non l’aveva bloccato per farlo rimanere. Tornò sui suoi passi, incapace di guardarlo in faccia per la vergogna. «Allora tolgo il disturbo!».

    Ernesto lo osservò con un sorriso plastico dipinto sulle labbra. «Sai che gesticoli come Michele?».

    «Non vedo mio padre da un’eternità…».

    «Allora te lo dico io. Alcune notti mi assillava fino a quando non gli davo ragione. Continuava a muovere le mani come se gli servissero per guidare le parole». Ernesto alzò lo sguardo al cielo. «Alla fine aveva sempre ragione lui!».

    «Era un uomo ostinato» disse Johnny, sorridendo.

    «Siediti e ascolta!». Il Comandante indicò nuovamente l’erba.

    Johnny si sedette a gambe incrociate.

    «Non voglio vicino un giornalista, ma un amico con cui condividere una storia». Ernesto buttò la cicca fumante in una ciotola che strabordava. «Gli anni passati sono stati difficili, ma questi ultimi mesi lo sono stati di più». Rialzò lo sguardo verso il cielo, cercando nell’orizzonte qualcosa di invisibile. «Ho perso tanti amici e ora sono qui, solo!».

    Johnny si stupì, stava provando tenerezza. D’un tratto Ernesto era diventato un ragazzo come lui. Vinto da quell’emozione, gli poggiò una mano sulla spalla.

    «Non esagerare».

    La voce asciutta del Comandante lo riportò alla realtà. Fulmineo, ritrasse l’arto, che sparì dietro la schiena.

    «Credo che tu sappia tutto della guerra, vero?».

    Johnny si limitò ad annuire.

    «Ma come hai detto, non sai nulla di me, di chi ero prima».

    Aveva cercato informazioni su Ernesto Valsecchi, ma sembrava non esistere nel Vecchio Corso. Nell’ultimo periodo aveva chiesto anche ad alcuni colleghi, ma brancolavano tutti nel buio. Quell’uomo era nato durante il conflitto, accrescendo non di poco il mito.

    «Faremo così: tu non mi farai nessuna domanda e io ti renderò famoso».

    I due si guardarono per alcuni secondi, immobili. La brezza mosse i capelli spettinati di Ernesto, costringendolo più volte a chiudere le palpebre. Johnny sfruttò quei brevi istanti per farsi forza, quello sguardo lo stava mettendo in crisi. «Voglio sapere di mio padre» trovò il coraggio di dire.

    «Te ne parlerò quando sarai pronto a sentire».

    Giunsero le mani per suggellare un accordo.

    «Secondo te, perché un uomo come me dovrebbe nascondere il proprio passato?». Le labbra del Comandante si allargarono, conferendogli un’espressione enigmatica. Johnny prese la borraccia per spegnere l’incendio che gli ardeva in gola, deglutì rumorosamente e tornò a sfidare gli occhi d’acero che tanto lo intimorivano. «Ne ho sentite tante, di ogni tipo, ma io ho sempre creduto che la guerra avesse cancellato il suo passato. Ci sono stati molti attacchi telematici e più del settanta per cento degli archivi è andato perso».

    Il ghigno di Ernesto divenne un sorriso gioviale. «Se così fosse, avresti conosciuto qualcuno disposto a vendere la mia storia per due lire».

    In effetti quella era stata una delle vie percorse, le agenzie di stampa avevano dilapidato capitali pagando anonimi amici del Comandante, per poi ritrovarsi sempre con storie assurde tra le mani.

    «Io non venderei mai la storia di un eroe».

    Ernesto scoppiò in una risata fragorosa, si piegò in avanti tenendosi lo stomaco e lo guardò divertito. «E allora cosa te ne farai della mia?».

    Johnny si scaldò nuovamente, era stato un ipocrita a dire quella frase e il Comandante aveva colto la palla al balzo per farglielo notare.

    «Sai quanto può essere pericolosa la verità?» chiese Ernesto, tornando serio.

    «Sì!». Questa volta il ragazzo rispose senza esitazioni. Non poteva perdere quell’occasione. Da quando gli avevano detto della morte del padre, si era fatto mille domande e ora aveva davanti l’unica persona con tutte le risposte.

    «Allora ti racconterò la mia storia. Magari rimarrai deluso, non ci saranno immagini di guerra, nessun attacco ai reparti della Repubblica. Per quello puoi guardare i video che sono ovunque. Io ti racconterò della vita di un ragazzo come molti altri. Ma ti assicuro che potresti rimpiangere la tua scelta». Si carezzò la barba in un modo particolare che sembrava un tic. «Te lo chiederò per l’ultima volta: se io ti dirò la verità passerai parecchi guai, sei pronto ad affrontarli?».

    «Sì, sono pronto!». Timoroso, alzò lo sguardo. Ernesto lo fissava con uno strano ghigno compiaciuto, come quello del gatto che ha appena catturato il topo.

    «Benissimo, ti racconterò la mia storia e sarai tu a decidere cosa fartene».

    Johnny fu colto da un improvviso entusiasmo. Si buttò su Ernesto e l’abbracciò calorosamente. Il militare rimase impassibile davanti a quel gesto ma, appena la presa si allentò, con movimenti delicati l’allontanò e lo fissò. Il ragazzo aveva gli occhi gonfi, era sul punto di piangere. In quel momento non gli interessava la carriera, non pensava alla fama. Nella sua mente c’erano solo le parole del padre, che in tutte le lettere gli parlava del Comandante, del suo amico. Ora ne avrebbe preso il posto e non ci sarebbero stati soldi che gli avrebbero potuto regalare qualcosa di simile. Ernesto sorrise e diede una pacca sulla spalla di Johnny. «Sono certo che non mi pentirò per aver scelto te. A differenza degli altri non cerchi la gloria e hai paura delle verità scomode. Ora siediti e ascolta».

    Capitolo 2

    C’era una volta

    Il mondo stava mutando in maniera lenta ma inesorabile. Quando la città fu ripulita dagli extracomunitari non ci rimasi poi male: era tutto più tranquillo e pulito, persino il traffico era diminuito.

    Le leggi mi piovevano accanto lasciandomi indifferente. Con il senno di poi, posso dire che non ero d’accordo, ma allora non mi interessava la politica. Io e i miei genitori stavamo bene, la crisi era sempre stata un argomento di cui parlare in terza persona. Impegnato come qualsiasi ragazzo, non facevo caso all’alone di preoccupazione che era sceso su mia madre.

    Ero egoista come ogni figlio, impegnato a vivere la vita come se fossi stato solo al mondo. Le discussioni al bar mi annoiavano; in maniera particolare non tolleravo quei saccenti del corso di filosofia, sempre pronti a citare gente morta da secoli. Dividevo le mie giornate tra lo studio – poco a dire il vero – e il divertimento, concedendomi qualche pausa per il calcio. Ma un giorno suonò un campanello d’allarme nella mia testa, per la prima volta sentii parlare di nativi. Lo ricordo come fosse ieri. Eravamo al nostro bar, i pochi amici eletti e io parlavamo del più e del meno, quando Cristiano, un amico di vecchia data, diede di gomito al fratello. Erano gemelli, ma completamente diversi. Il primo aveva i capelli neri e cortissimi, occhi scuri e collo taurino, mentre Igor aveva i capelli rossi che gli coprivano quasi completamente il volto e gli occhi verdi.

    «Eppure non è giusto che loro rimangano qui» disse Cristiano, guardandomi di traverso.

    Non capii di cosa parlasse. Mi limitai ad annuire.

    «Non puoi dire così. Loro sono diversi dai negri» ribatté il gemello.

    «Diversi solo nel colore, ma per il resto?».

    «Per il resto sono come noi. Non diciamo stronzate». Stefania, la mia ragazza, interruppe i due che si guardarono e sorrisero. La cosa non fece che innervosirla. «Vuoi veramente parlare di quelle cazzate sulla razza ariana o preferisci spiegarmi qualcosa sull’acqua della Dora Baltea?». Era paonazza in volto. Non l’avevo mai vista così. «Fatemi il favore di tacere. Siete solo due figli di papà!».

    Al tavolo calò il silenzio e solo Cristiano non sembrò impressionato. «Stai attenta a quello che dici. È un attimo che ti rispediscano a Napoli».

    Stefania si alzò di scatto, le mani le tremavano, aveva gli occhi rossi. «Mi fai schifo!» sbottò. Il rumore del palmo di lei che impattava sul volto di Cristiano fece voltare tutto il locale. Se ne andò imprecando.

    Era successo tutto così in fretta. Troppo perché potessi capirci qualcosa. Imbarazzato, raccolsi le chiavi dell’auto dal tavolino, feci un cenno col capo e le corsi dietro.

    Quando la raggiunsi eravamo in strada, pochi metri fuori dal bar. «Stè, aspettami». Le poggiai la mano sulla spalla.

    «Quei due lo fanno apposta!» disse voltandosi. Stava piangendo. «Se non fosse per loro padre, gli farei vedere io cos’è giusto».

    «Secondo me l’hanno capito» sdrammatizzai. Non avevo ancora compreso quale fosse il motivo della discussione, ma sapevo che lei aveva detto la sua in maniera energica.

    «Spero che gli bruci per parecchio tempo. Sono due…» chiuse i pugni e serrò la mascella. L’abbracciai.

    «Ti rendi conto delle cazzate che dicono?».

    «Sì» mentii.

    «Loro sono d’accordo con quelle cazzo di leggi sulla territorialità».

    «Sono solo due stupidi».

    «Certo, ma sono dalla parte di chi sta vincendo. Se passa il decreto legge io dovrò tornarmene a Napoli con i miei genitori» singhiozzava.

    «Vedrai che andrà tutto bene». Finalmente avevo capito di cosa stavano parlando e mi sentii uno stupido. Com’era possibile che fossi così lontano dalla realtà? Nel mio egoismo avevo chiuso le orecchie fino a quel momento, incurante che il pericolo fosse alle porte.

    «Speriamo» disse Stefania, e non ne parlammo più.

    Qualche giorno dopo, rientrando a casa, trovai una strana lettera nella casella della posta. Era completamente verde, su un lato c’era un fiore racchiuso in un cerchio; ricordo che era spesso e pesava parecchio.

    «Ciao mamma, per me un tè all’arancia» dissi, ancora prima di entrare in cucina. Andai al tavolo, poggiai la lettera e mi sedetti.

    «Che ci fai già a casa?» mi chiese lei sorridendo. Abbassò lo sguardo sulla busta verde e si incupì. «Cos’è quella?».

    «Non lo so, era nella posta».

    Fece un passo verso di me, la mano tesa e lo sguardo fisso sulla lettera. La prese in mano e si sedette.

    «C’è qualcosa che non va?» le chiesi.

    Scosse la testa. «No, figurati». L’aprì e iniziò a leggerla.

    Preoccupato, mi alzai e le andai dietro le spalle. Mi sporsi in avanti ma vidi solo dei fogli pieni di domande con dei campi da compilare. «Cosa vogliono?».

    «È un censimento».

    Poco male, pensai. I censimenti non erano poi qualcosa di così pericoloso. «Vuoi che te lo compili mentre prepari il tè?» le chiesi.

    Si scosse e ricominciò a sorridere. «Certo amore». Sbatté i fogli sul tavolo e si alzò. Sembrava strana, ma in quel periodo erano in molti ad agire così. Il giorno dopo la discussione al bar, Stefania, Igor e Cristiano si erano comportati come se nulla fosse successo.

    «Nome e cognome. A questa so rispondere anch’io. Luogo di nascita». Un rumore di vetro infranto mi fece sussultare. Le era scivolato un bicchiere dalle mani e si era frantumato sul pavimento.

    «Scusami» disse sorridendo, ma nei suoi occhi c’era qualcosa di misterioso.

    «Cerignola, (fg)» scherzai. «Stato Civile. Se è coniugata inserisca i dati del marito e di eventuali figli…». Andai avanti a leggere e compilare, ma con la coda dell’occhio seguivo i movimenti di mia madre che sembrava sempre più preoccupata.

    Quando non ero nemmeno a metà, arrivò il mio tè.

    «Ora bevi e rilassati, sarà stata una giornata intensa. Finisco di compilarlo da sola».

    Era tornata la donna di sempre, forte ed energica, pronta ad anteporre i miei capricci a qualsiasi suo bisogno. Acconsentii

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